Questo non è un vero blog, è una raccolta casuale di scritti, alcuni anche miei, che ritengo valga la pena di leggere. Andromeda fa riferimento a due categorie fondamentali, il mito e la cosmologia. Nella mitologia, Andromeda era una giovane sacrificata dal padre Cefeo e dalla madre Cassiopea per placare un mostro marino. La Galassia che porta il suo nome è destinata a fondersi in una spaventosa collisione con le Galassie vicine, fra cui la nostra Via Lattea.
venerdì 26 gennaio 2024
UCRAINA
FIGLI
Posso dire che mi fa schifo il modo in cui si parla di figli? Utero in affitto, adozione da parte di coppie omosessuali, stepchild che, secondo la signora Boldrini, sarebbe un dovere. Ci si mettono anche gli economisti: fate figli, altrimenti non ci sarà chi pagherà le pensioni. I figli come merce. Una volta si invocavano figli per la difesa della patria. Ma in tutto questo chiacchiericcio un po' osceno c'è qualcuno che sa cosa vuol dire un figlio? Una gioia, non lo nego, ma anche responsabilità, preoccupazioni, paura, dolore. Non parlo per me che ho perduto mio figlio. Parlo per i tanti casi drammatici che mi è capitato di conoscere nel corso della vita. Storie di padri e madri devastati dalle vicende infelici dei figli. E siccome in una di queste storie ho avuto anch'io un ruolo, vale la pena di raccontarla. Anzi, è così sorprendente che se non l'avessi vissuta direttamente mi sembrerebbe quasi incredibile. Dobbiamo andare indietro nel tempo, agli anni del Liceo. Mancavano pochi giorni agli esami di maturità classica. Nella mia casa di campagna, nel Cilento, si presentò un signore che, a vederlo, non credevo ai miei occhi. "Forse lei mi conosce", disse. Altroché se lo conoscevo. Era un personaggio importante, un uomo molto in vista la cui faccia mi era nota attraverso la tv e i giornali. Anche se adesso è morto, non mi sembra bello rivelare il suo nome. Disse: "Ho bisogno di lei. Sono stato alla sua scuola, ho chiesto ai bidelli di darmi il nome di uno studente serio, affidabile, a cui chiedere un favore. Mi hanno indicato lei". Il problema era suo figlio, un ragazzone di 25 anni che a scuola era un asino e ancora non era riuscito a prendere la maturità. A quel tempo, le commissioni d'esame erano composte da docenti che arrivavano da varie parti d'Italia. Nella mia commissione era capitata una professoressa di Latino e Greco venuta da Roma, che era la zia di quel fannullone. E il padre era venuto a umiliarsi davanti a un piccolo campagnolo del Cilento per chiedere di aiutare il figlio a fare gli scritti, perché poi agli orali ci avrebbe pensato la zia a farlo promuovere. Il giorno degli esami, il bellimbusto si presentò al volante di una Lamborghini sfavillante. Aveva un'aria stralunata, vestito come un damerino. "Mi siedo vicino a te", disse. Si mise seduto ma non fece praticamente nulla. Io finii il tema e ne cominciai un altro per lui. Nei giorni successivi feci le versioni e lui nemmeno si curò di copiarle. Gliele dovetti copiare io sotto lo sguardo protettivo e compiacente della zia. Prese la maturità. Il padre mi scrisse una lettera commovente. Era così felice. Diceva: "Mi chieda quello che vuole, ho un obbligo nei suoi confronti". Io risposi che quasi tutti i miei colleghi andavano all'Università a Napoli, io sognavo Roma, ma non potevo chiedere alla mia famiglia di mantenermi nella capitale. Perciò, se gli capitava un lavoretto per pagarmi gli studi sarei stato felice. Un paio di settimane dopo arrivò un'altra lettera: "Venga, ho un lavoro per lei". Mi fece inserire negli uffici di una compagnia alberghiera. Roma era fantastica. Cominciai a intrufolarmi nelle redazioni dei giornali. Ma la storia non finisce qui. Dieci anni dopo, io e quel padre sfortunato ci ritrovammo. Nel frattempo, io avevo lavorato per la rivista Epoca ed ero passato al Corriere della Sera. Il mio primo incarico fu quello di cronista giudiziario e per questo frequentavo il Palazzo di Giustizia dove un giorno vidi lui, abbastanza invecchiato. Dissi: "Si ricorda di me?". Mi guardò e fece di sì con la testa. Poi mi chiese: "Lei sta qui perché è avvocato?". "No, dissi, sono giornalista. Le serve un avvocato?". Lui disse: "Si ricorda mio figlio?". Certo che ricordavo. "Stamattina, mi disse con le lacrime agli occhi, l'hanno arrestato". Non ebbi cuore di indagare oltre, ma da quello che capii, il lurido individuo ne aveva combinata una grossa. Credo che avesse partecipato con altri balordi a un festino a base di alcol, droga e sesso e un paio di ragazze erano finite in ospedale. Ho sempre presente la faccia di quell'uomo ricco, potente, la cui vita era dilaniata da un figlio degenere. Ho raccontato questo non perché tutti i figli sono fonte di sofferenze. Ci mancherebbe. Ma per far capire che un figlio è una cosa impegnativa, è un'altra persona che noi decidiamo di mettere al mondo e non se ne può parlare a cuor leggero come si sta facendo anche in questi giorni, cianciando di uteri in affitto e altre oscene pratiche. Di solito chi ne parla non sa cosa vuol dire un figlio.
giovedì 25 gennaio 2024
BECKETT
Sandra Petrignani
Samuel Beckett morì il 22 dicembre 1989 a ottantaquattro anni non ancora compiuti (era nato nell’aprile del 1906) e fu sepolto al cimitero di Montparnassse, il quartiere parigino dove viveva, accanto alla moglie Suzanne Deschevaux-Dumesnil, morta cinque mesi prima. La sua tomba fu per settimane ricoperta di fiori e biglietti improvvisati in tante lingue diverse del mondo, cinese e giapponese comprese, a testimoniare un amore planetario che può stupire per uno scrittore schivo, solitario e poco letto quale è sempre stato. Ma se non fu mai un eroe dei botteghini, né come autore teatrale né per le scarne vendite dei suoi libri, era però circonfuso di un’aura particolare che le persone avvertivano anche solo contemplandone in fotografia la figura ascetica e i formidabili occhi celesti. «Occhi impassibili, ma luminosissimi e stellari» li definì la pittrice Giosetta Fioroni che da giovane lo conobbe a Parigi rimanendone affascinata, come inevitabilmente accadeva a chi riusciva ad avvicinarlo, donne o uomini che fossero. È uno dei paradossi che accompagnano la vita di un autore cui sono state attribuite etichette certo non invoglianti, come “cantore dell’incomunicabilità”, e del silenzio e della morte e dell’assurdo, ma che, libero da qualsivoglia ideologia letteraria, si è sempre preoccupato unicamente di tradurre in parole il suo personale disagio di essere nato per morire. Parole scarne ed essenziali, questo sì, e più procedeva nell’età più le parole si facevano scarne ed essenziali. Con una coerenza estrema rispetto al suo carattere, in stretta sintonia con ciò che intendeva esprimere. Ed è questa radicalità a vincere sul tempo che passa, sulle mode che cambiano e persino sulla disaffezione attuale verso scrittori considerati “difficili”. Ma il vecchio Sam non è difficile, è inflessibile. E chi arriva a cogliere questo, finisce con l’amarlo sfrenatamente. Come accadde quando, il 19 maggio 1983, la televisione tedesca mandò in onda la breve pièce Nacht und Träume modulata sulle ultime sette battute dell’omonimo Lied di Schubert e ispirata con grande probabilità al quadro Orazione nell’orto del fiammingo Jan Gossaert che Beckett aveva visto a Berlino rimanendone impressionato. Furono circa due milioni gli spettatori che, altrettanto impressionati, quella notte rimasero incollati allo schermo scuro in cui affioravano in dissolvenza i volti pallidissimi dei protagonisti.
Potrebbe essere un’occasione in più adesso, per avvicinare uno scrittore tanto sconcertante, il biopic Dance First, distribuito dal primo febbraio. In italiano: Prima danza, poi pensa. Scoprendo Beckett di James Marsh, con Gabriel Byrne nella parte del protagonista, Sandrine Bonnaire nei panni di Suzanne e Aidan Gillen in quelli di Joyce. Anche se già il titolo appare una forzatura, una citazione vagamente ribaltata da Aspettando Godot. Ma staremo a vedere. Intanto si legge nel lancio pubblicitario: «Beckett rievoca gli eventi salienti della sua vita in un dialogo immaginario con la personificazione della sua coscienza, lasciando emergere i temi e le riflessioni che hanno reso grandi le sue opere. Ne risulta un ritratto poco conosciuto della sua personalità: buongustaio, solitario, marito infedele, combattente della Resistenza francese e anche grande amico di James Joyce». Il film si apre sulla catastrofica notizia del Nobel assegnatogli nel 1969. La comunicazione gli arrivò mentre era con Suzanne in vacanza in Tunisia e sembra fosse lei a rispondere al telefono e a reagire alla notizia con un “che catastrofe!” interpretando perfettamente i sentimenti del marito, il quale – come al solito – si rifiutava di incontrare i giornalisti. Jérôme Lindon, l’editore dei suoi libri in Francia per Minuit e suo amico, è costretto a precipitarsi in Tunisia all’Hotel Riadh, ormai assediato dai cronisti, e patteggiare con loro: niente interviste, solo qualche fotografia. Sarà poi Lindon a ritirare il premio a Stoccolma. Del resto, Sam aveva stabilito con i suoi principali editori, pensiamo all’americano Barney Rosset della Grove o al tedesco Peter Suhrkamp per dirne due, un rapporto particolare di fiducia e amicizia: loro non potevano contare su di lui né per le vendite, sempre poco entusiasmanti, né su nessun tipo di pubblicità, ma si sentivano speciali e orgogliosi di essere i suoi editori.
Gabriele Frasca, curatore e traduttore del Meridiano dedicato a Samuel Beckett uscito di recente da Mondadori, parla nell’introduzione al volume di “galassia Beckett”: «Perché nessun autore – così tanto intransigente nella sua fedeltà all’arte – è mai riuscito al pari del nostro a raccogliere in vita intorno alla propria opera lo stesso numero sorprendente di entusiasti editori, e poi registi, attori, funzionari radiotelevisivi, e naturalmente critici, accademici o no. Un vero e proprio miracolo». Perché poi, dietro alla sua irriducibile intransigenza, Sam era una persona gentile, affettuosa, attenta a non ferire, presente quando una persona aveva bisogno di aiuto. Le tante lettere che scrisse nella sua vita ne sono la prova. Sono raccolte in quattro volumi a cura di Franca Cavagnoli per l’Adelphi. Già usciti i primi due, relativi agli anni 1929-1940 e 1941-1956, mentre è attualmente in preparazione il terzo: 1957-1965, testimonianza preziosissima di un momento cruciale nella vita dello scrittore che mentre compone opere teatrali fondamentali quale L’ultimo nastro di Krapp, Giorni felici, Play (che sarà poi musicata da Philip Glass) ha una grossa gatta da pelare sul piano sentimentale. Fedele non era mai stato, ma era di quelli che riescono a tenere in piedi relazioni parallele senza scontentare nessuno. Solo che, improvvisamente, la sua amante fissa ormai da qualche anno, Barbara Bray, funzionaria della Bbc, vedova e madre di due bambine, decide di trasferirsi da Londra a Parigi. Per stargli più vicino? Per forzare la situazione e costringerlo a lasciare Suzanne? Nelle lettere Sam s’interroga se rompere con Barbara, ma alla fine trova una soluzione migliore, una soluzione tipica di uomini del suo stampo, che vivono sulla corda, sempre in procinto di precipitare riuscendo a non farlo mai. Farà contente entrambe le sue donne: sposerà Suzanne, più vecchia di lui di sette anni, per assicurarle l’eredità dei diritti d’autore nel caso della propria morte e aiuterà Barbara a sistemarsi a Parigi continuando la doppia relazione anche più tranquillamente di prima e per il resto dei suoi giorni. Scontentando tutte e due in realtà, ma senza rendersene apparentemente conto. E non è un caso di certo che in Giorni felici ci sia una coppia: Winnie, interrata fino alla cintola e poi fino al collo in una montagnola di terra accanto al marito, il taciturno Willie, e lei non fa che parlare ottenendo da lui, intento a leggere il giornale, rare risposte distratte che non sono vere risposte, ma interlocuzioni rapidissime, punti interrogativi, grugniti. È questo il ritratto di una coppia felice secondo Beckett?
La famosissima commedia è naturalmente compresa nella scelta di Frasca per il Meridiano. Il titolo Romanzi, teatro e televisione indica quanto al curatore interessi l’impegno multimediale dello scrittore irlandese che trovava radio e televisione, e anche il cinema una volta – con Film del 1965, interpretato da uno strepitoso Buster Keaton – congeniale alla propria espressività visiva e sonora. Con Quad del 1981, “pièce per quattro interpreti, luci e percussioni”, arriva ad abolire le parole per sostituirle con un complesso congegno di movimenti degli attori in scena, costretti camminando a disegnare un quadrato e le sue traiettorie interne, mentre fanno vibrare ognuno uno strumento: un tamburo, un gong, un triangolo, un woodblock. E se dalla scelta di Gabriele Frasca mancano i saggi (persino il famoso Proust della giovinezza) e mancano alcuni testi forse non proprio minori e manca interamente la poesia, un testo poetico c’è a chiudere il libro, perché cronologicamente ultimo. Si tratta di Comment dire (in inglese, per volere dello stesso autore, What Is the Word) in cui Sam si interroga ancora e sempre: «…qual è la parola – / vedere – / intravedere / credere d’intravedere – / voler credere d’intravedere…»
E certo non è stato un lavoro semplice nemmeno la ritraduzione, dello stesso curatore, beckettiano della prima ora, di tutti i testi compresi nel Meridiano che vanno dai romanzi alle più famose opere teatrali da Murphy all’Innominabile, da Aspettando Godot a L’ultimo nastro di Krapp a tanti testi brevi e brevissimi. Beckett aveva studiato lingue al Trinity College di Dublino. Sapeva perfettamente il francese, e infatti decise a un certo punto di rinunciare all’inglese per il francese in parte per complicarsi la vita misurandosi con una lingua non perfettamente padroneggiata, almeno all’inizio, ma soprattutto – e ancora una volta – per la stretta relazione in cui metteva letteratura e vita. In Francia, durante la guerra, si era impegnato nella Resistenza (e ne avrebbe avuto anche una medaglia). Scrive Frasca: “Eleggendo per la propria opera il francese a guerra conclusa, Beckett ha scelto in verità di dare seguito alla lingua del suo impegno, intellettuale e politico. La ‘frenesia di scrivere’ che lo colse fu allora quasi una reazione immunitaria scatenata dalla lingua fraterna che gli aveva infettato la propria, e che lo avrebbe condotto, come ha ribadito Maurice Blanchot, ‘oltre i limiti della letteratura’ ”.
Ma Sam non conosceva solo il francese. Leggeva l’adorato Dante in italiano, parlava il tedesco, se n’intendeva anche di spagnolo, studiato da autodidatta. Quando un suo testo composto in francese doveva uscire in Inghilterra se ne occupava in prima persona. Ma in inglese l’opera non restava la stessa, perché la tentazione di riscrivere era troppo forte. E un traduttore che fa? Salta da una lingua all’altra, assimila, sceglie, interpreta… E quando si trattava di un testo teatrale, c’era da impazzire. Beckett partecipava al lavoro di messinscena, arrivando a un certo punto a occuparsi lui stesso della regia. Naturalmente nel passaggio dalla pagina al palcoscenico, il testo veniva rivisto, corretto, riscritto. Quale sarà allora la versione definitiva? La prima, le successive? Se si sfoglia l’interessante Quaderni di regia e testi riveduti (relativi a Aspettando Godot e curato da Luca Scarlini per Cuepress nel 2021) si ha l’idea precisa e vertiginosa di come Beckett lavorasse sulle sue creazioni. Era preciso, maniacale, spesso indeciso. Torna e ritorna su un particolare, cambia, ripristina, cambia di nuovo, per riposizionarsi, magari, al punto di partenza. È attento a ogni piccolo gesto dei personaggi in scena, alle luci e alle ombre che dovranno investirli. Coglie il dettaglio come dovesse ritagliarne ogni volta i contorni dentro un’inquadratura. Come scrive James Knowlson nell’introduzione a questi Quaderni, la struttura letteraria di Beckett è sempre poetica, «costruita sui principi di eco, equilibrio, ritmo». Knowlson fu amico di Sam per più di vent’anni e ne divenne l’unico biografo autorizzato pubblicando qualche anno dopo la sua morte il bellissimo ritratto Damned to Fame, una biografia che in italiano fu tradotta da Einaudi, ormai disponibile solo su ebay. Condannato alla celebrità sì, mentre non chiedeva altro che di essere lasciato in pace fra le sue parole finali e i suoi fantasmi, magari ad annotare il dialogo fra Estragone e Vladimiro come fosse una poesia: «Tutte le voci morte./ Che fanno un rumore d’ali./ Di foglie./ Di sabbia./ Di foglie. Silenzio. Parlano tutti insieme. / Ognuno a sé stesso. Silenzio. Secondo me sussurrano. / Frusciano. / Mormorano/ Frusciano».
Chi si avvicinasse a Beckett per la prima volta potrebbe, dopo tali premesse, allontanarsene subito spaventato. Ma un altro dei paradossi di questo scrittore unico e irripetibile è di non essere minimamente intellettuale e di riuscire – nella cancellazione di trame tradizionali e nella riduzione all’osso del comunicabile – a dire tutto l’essenziale con un pathos, una disperazione, una radicalità estreme che per loro intima natura, inevitabilmente, spesso, invadono il terreno del comico. Leggerlo è un’esperienza dello spirito, più che della mente. Senza significati reconditi, senza simbologie o rimandi ad altro che non sia il qui e ora della parola scelta. «Simboli non ci sono dove non c’è intenzione» è la frase finale di Watt. E inWorstward Ho: «Dire un corpo. In cui niente. Niente mente. In cui niente. Almeno questo. Un luogo. In cui niente. Per il corpo. Per esservi. Per muovervisi. Andarne. Tornarne. No. Niente andate. Niente ritorni. Solo esservi. Restarvi. Ancora. Fermo».
Il miracolo poi è che tanta immobilità ottenga nel lettore e nello spettatore sensibili una risposta emotiva forte, davvero come in una danza (e qui riabilitiamo il titolo del film in arrivo) o come riesce a suscitare soltanto la musica oppure l’uso originale della lingua. La lingua di cui già nel 1937 scriveva a un amico: «Scavarci dentro un buco dopo l’altro finché ciò che vi sta acquattato dietro, che sia qualcosa oppure niente, non comincia a filtrare – per lo scrittore di oggi non so immaginare un fine più alto. Oppure la letteratura deve restare indietro da sola lungo il vecchio e fetido cammino abbandonato ormai da tempo da musica e pittura?» Aveva trent’anni e già chiara la linea che avrebbe dato al suo lavoro, sulle orme di Joyce in un primo momento, ma per distaccarsene radicalmente e diventare soltanto sé stesso.
Si trova in rete un raro filmato amatoriale che gli è stato rubato a Berlino nel 1969. Lo si vede procedere dondolante sulle lunghe gambe, chiedere informazioni per strada, leggere il giornale seduto al bar avvicinando molto le pagine agli occhi in un modo buffo da miope, accompagnarsi sorridente e ciarliero a una giovane donna piccola e bruna, Barbara forse, o una delle tante che corteggiava e a cui non sapeva resistere. È un uomo qualsiasi, leggero, persino felice di vivere, di passeggiare, di sorridere. Un Beckett umano dentro la divinità austera che si tramanda.
domenica 21 gennaio 2024
ELEZIONI IN USA
Massimo Gaggi per il “Corriere della Sera”
IL SONDAGGIO IN VISTA DELLE ELEZIONI USA DEL 2024
[…] un Paese che continua a scegliere il suo presidente in un giorno feriale (martedì) di inizio novembre seguendo una regola legata alle esigenze dell’America agricola di due secoli fa: votare quando il contadino ha meno vincoli perché è finita la semina. Non la domenica perché è il giorno dedicato al Signore. Non di lunedì perché per raggiungere seggi remoti col carro tirato da un cavallo ci può volere molto tempo. E non di mercoledì perché è il giorno del mercato.
STORIA ELEZIONI STATI UNITI: PERCHÉ SI VOTA SEMPRE DI MARTEDÌ?
Estratto da www.focus.it
Negli Stati Uniti le elezioni presidenziali cadono sempre, ogni quattro anni, di martedì. Precisamente il martedì dopo il primo lunedì nel mese di novembre. Come mai? Secondo gli esperti ci sono delle ragioni storiche.
GLI STATI DELL'UNIONE. Tra il 1788 e il 1845, ciascuno Stato dell'Unione stabiliva la data delle elezioni, senza preoccuparsi di "sincronizzarsi" con gli altri. L'unico vincolo era che le votazioni per l'elezione del Presidente degli Stati Uniti fossero concluse entro il primo mercoledì di dicembre.
Nel 1792 una legge stabiliva che le votazioni fossero fatte nei 34 giorni precedenti a quella data. Una scelta motivata dal fatto che la società era fondamentalmente agricola: a novembre i raccolti erano terminati ed era il momento più tranquillo per i possidenti terrieri e gli agricoltori. Tenuto conto che potevano votare solo i maschi, bianchi e proprietari terrieri, era il momento ideale per andare alle urne.
CAOS CALMO. Ma come è facile immaginare, un lasso di tempo così ampio generava molta confusione e incertezza dei risultati, soprattutto con l'avvento di telegrafi e ferrovie che resero le comunicazioni più veloci.
Così, all'alba del 1845, il Congresso decise che era tempo di standardizzare una data. Il lunedi era fuori discussione perché avrebbe richiesto a molti elettori di partire da casa la domenica, in calesse, per raggiungere i seggi. E la domenica e il suo giorno di riposo, erano sacri. Non andavano sciupati né per votare, né per recarsi alle urne.
GIORNO DI MERCATO. Anche il mercoledì non andava bene, perché era giorno di mercato, e gli agricoltori non sarebbero stati in grado di andare a votare. Così si decise che il martedì sarebbe stato il giorno in cui gli americani avrebbero votato alle elezioni. Per la precisione il martedì dopo il primo lunedi nel mese di novembre. Giorno valido per le elezioni federali e per quelle del Presidente degli Stati Uniti.
sabato 20 gennaio 2024
ANIMALI
Ambizione di molti è tornare animale....
IL POTERE
di Alfredo Morosetti.
I NUOVI KULAKI
Alfredo Morosetti:
CONSUMISMO
Cerchiamo di dire qualcosa che renda comprensibile il fenomeno. Il fenomeno in generale è il consumo e, con esso, la necessità che ci siano dei consumatori. Chi sono i consumatori? Quelli che passivamente sono spinti a sentirsi in bisogno. Si noti, il bisogno raramente, anzi probabilmente mai, è di ordine materiale. Il bisogno è di ordine morale e, subito dopo, di ordine comunicativo: comunica al consumatore che quello che consuma è quello che è giusto consumare.
IL SISTEMA
Alfredo Morosetti
SENZA RELIGIONE
(di Alfredo Morosetti)
SALUTO ROMANO
Fabio Martini per huffingtonpost.it
Ripubblichiamo a seguito della sentenza delle Sezioni unite della Corte di Cassazione sul saluto romano questa riflessione di Fabio Martini)
L’adunata di Acca Larentia con quella tetra coreografia in chiaroscuro è culminata in saluti romani corali, ripetuti e “organizzati” che potrebbero costar caro ad alcuni dei camerati presenti e tuttavia nella consolidata giurisprudenza italiana quel gesto nostalgico non sempre è stato considerato reato: dipende dalle circostanze. Uno scrupolo garantista che, può sembrare paradossale, si deve ad una battaglia condotta dal segretario generale del Pci, Palmiro Togliatti, non certo sul saluto romano ma sui reati di opinione
Un paradosso, ma sino ad un certo punto: durante i lavori dell’Assemblea Costituente, il segretario del Pci riuscì a convincere gli altri leader democratici su un punto delicato: istituzionalizzare i reati di opinione era assai rischioso, anche per i futuri nostalgici di Benito Mussolini. Togliatti si batté per inserire nel dettato costituzionale una fattispecie particolare: un divieto non generico, ma preciso: riorganizzare il disciolto partito fascista.
Lo spirito di quella norma ha vissuto per 76 anni, è stata assunta dalla Corte costituzionale, dalla Cassazione e dai tribunali italiani, che hanno via via emesso sentenze che, ad accezione di alcuni casi specifici, non hanno perseguito né il semplice elogio del regime e neanche le manifestazioni più esteriori di nostalgia. Ma quelle che, appunto, potevan portare, o portavano, alla ricostituzione di organizzazioni fasciste.
Una storia interessante perché racconta di un’altra Italia, un’Italia che pensava lungo. Nell’Assemblea Costituente, che iniziò a riunirsi quando il trauma del fascismo era ancora recentissimo, si accese un dibattito nel corso del quale fu decisivo l’intervento di Palmiro Togliatti, che convinse gli altri padri costituenti – personalità come Aldo Moro, Lelio Basso, Giuseppe Dossetti e leader come Alcide De Gasperi e Pietro Nenni – a non forzare la mano nei divieti.
In quella circostanza Togliatti chiese di "non formulare un articolo che possa fornire pretesto a misure antidemocratiche, prestandosi ad interpretazioni diverse". E si spiegò così: "Se in Italia nascesse domani un movimento nuovo, anarchico, lo si dovrebbe combattere sul terreno della competizione politica democratica, convincendo gli aderenti al movimento della falsità delle loro idee, ma non si potrà negargli il diritto di esistere e di svilupparsi, solo perché si rifiutano alcuni dei loro principî".
Con questa premessa propose di circoscrivere il divieto ad una fattispecie molto precisa. E infatti per la XII Disposizione transitoria e finale della Costituzione, "è vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista", ma quello che "prese corpo in Italia dal 1919 fino al 25 luglio 1943".
La successiva legge Scelba, del 1952, istituì il reato di “apologia del fascismo”, ma con una attenzione a circoscrivere l’intervento della magistratura, tanto è vero che la Corte costituzionale, successivamente interpellata, segnalò che il reato non si configura allorquando l’apologia consista in una mera “difesa elogiativa” del regime e invece si persegue davanti ad una "esaltazione tale da potere condurre alla riorganizzazione del partito fascista", cioè in una "istigazione indiretta a commettere un fatto rivolto alla detta riorganizzazione e a tal fine idoneo ed efficiente". E quei principî hanno poi ispirato le sentenze su alcune manifestazioni, più o meno esteriori, operate da movimenti neofascisti.
La Costituzione ha dato la sua impronta alle leggi Scelba del 1952 e a quella Mancino del 1993 che puniscono con la reclusione fino a tre anni chiunque, in pubbliche riunioni, compia manifestazioni esteriori proprie di organizzazioni aventi tra i loro scopi quello di incitare all’odio, tenendo atteggiamenti riconducibili al partito fascista o nazista, compreso il “saluto romano”. Che però, durante un comizio pubblico non è da considerarsi reato se non è ritenuto in grado di determinare il pericolo di ricostituzione di organizzazioni fasciste. La Cassazione ha escluso il reato di apologia di fascismo quando il “saluto romano”, la chiamata del presidente e le croci celtiche, pur essendo certamente di carattere fascista, siano espresse esclusivamente come omaggio ai defunti commemorati, non avendo alcuna finalità di restaurazione fascista.
Distinzioni sottili ma significative nel ripudio dei reati di semplice opinione, che si devono, come effetto indiretto, a un personaggio come Palmiro Togliatti: lui che era appena tornato dall’esilio vissuto per lunga parte nella ferocissima Russia staliniana, in quel frangente ebbe un riflesso squisitamente liberale. Certo, il segretario del Pci pensava a mettere in sicurezza la libertà del suo partito, ma in quella e in altre scelte contenute nella Costituzione, dimostrò una lungimiranza che molti anni dopo avrebbe indotto Silvio Lanaro, uno dei più autorevoli storici del dopoguerra, non certo di cultura comunista, a definire De Gasperi e Togliatti personalità di “immenso carisma”.
IL PANE
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