Sandra Petrignani
Samuel Beckett morì il 22 dicembre 1989 a ottantaquattro anni non ancora compiuti (era nato nell’aprile del 1906) e fu sepolto al cimitero di Montparnassse, il quartiere parigino dove viveva, accanto alla moglie Suzanne Deschevaux-Dumesnil, morta cinque mesi prima. La sua tomba fu per settimane ricoperta di fiori e biglietti improvvisati in tante lingue diverse del mondo, cinese e giapponese comprese, a testimoniare un amore planetario che può stupire per uno scrittore schivo, solitario e poco letto quale è sempre stato. Ma se non fu mai un eroe dei botteghini, né come autore teatrale né per le scarne vendite dei suoi libri, era però circonfuso di un’aura particolare che le persone avvertivano anche solo contemplandone in fotografia la figura ascetica e i formidabili occhi celesti. «Occhi impassibili, ma luminosissimi e stellari» li definì la pittrice Giosetta Fioroni che da giovane lo conobbe a Parigi rimanendone affascinata, come inevitabilmente accadeva a chi riusciva ad avvicinarlo, donne o uomini che fossero. È uno dei paradossi che accompagnano la vita di un autore cui sono state attribuite etichette certo non invoglianti, come “cantore dell’incomunicabilità”, e del silenzio e della morte e dell’assurdo, ma che, libero da qualsivoglia ideologia letteraria, si è sempre preoccupato unicamente di tradurre in parole il suo personale disagio di essere nato per morire. Parole scarne ed essenziali, questo sì, e più procedeva nell’età più le parole si facevano scarne ed essenziali. Con una coerenza estrema rispetto al suo carattere, in stretta sintonia con ciò che intendeva esprimere. Ed è questa radicalità a vincere sul tempo che passa, sulle mode che cambiano e persino sulla disaffezione attuale verso scrittori considerati “difficili”. Ma il vecchio Sam non è difficile, è inflessibile. E chi arriva a cogliere questo, finisce con l’amarlo sfrenatamente. Come accadde quando, il 19 maggio 1983, la televisione tedesca mandò in onda la breve pièce Nacht und Träume modulata sulle ultime sette battute dell’omonimo Lied di Schubert e ispirata con grande probabilità al quadro Orazione nell’orto del fiammingo Jan Gossaert che Beckett aveva visto a Berlino rimanendone impressionato. Furono circa due milioni gli spettatori che, altrettanto impressionati, quella notte rimasero incollati allo schermo scuro in cui affioravano in dissolvenza i volti pallidissimi dei protagonisti.
Potrebbe essere un’occasione in più adesso, per avvicinare uno scrittore tanto sconcertante, il biopic Dance First, distribuito dal primo febbraio. In italiano: Prima danza, poi pensa. Scoprendo Beckett di James Marsh, con Gabriel Byrne nella parte del protagonista, Sandrine Bonnaire nei panni di Suzanne e Aidan Gillen in quelli di Joyce. Anche se già il titolo appare una forzatura, una citazione vagamente ribaltata da Aspettando Godot. Ma staremo a vedere. Intanto si legge nel lancio pubblicitario: «Beckett rievoca gli eventi salienti della sua vita in un dialogo immaginario con la personificazione della sua coscienza, lasciando emergere i temi e le riflessioni che hanno reso grandi le sue opere. Ne risulta un ritratto poco conosciuto della sua personalità: buongustaio, solitario, marito infedele, combattente della Resistenza francese e anche grande amico di James Joyce». Il film si apre sulla catastrofica notizia del Nobel assegnatogli nel 1969. La comunicazione gli arrivò mentre era con Suzanne in vacanza in Tunisia e sembra fosse lei a rispondere al telefono e a reagire alla notizia con un “che catastrofe!” interpretando perfettamente i sentimenti del marito, il quale – come al solito – si rifiutava di incontrare i giornalisti. Jérôme Lindon, l’editore dei suoi libri in Francia per Minuit e suo amico, è costretto a precipitarsi in Tunisia all’Hotel Riadh, ormai assediato dai cronisti, e patteggiare con loro: niente interviste, solo qualche fotografia. Sarà poi Lindon a ritirare il premio a Stoccolma. Del resto, Sam aveva stabilito con i suoi principali editori, pensiamo all’americano Barney Rosset della Grove o al tedesco Peter Suhrkamp per dirne due, un rapporto particolare di fiducia e amicizia: loro non potevano contare su di lui né per le vendite, sempre poco entusiasmanti, né su nessun tipo di pubblicità, ma si sentivano speciali e orgogliosi di essere i suoi editori.
Gabriele Frasca, curatore e traduttore del Meridiano dedicato a Samuel Beckett uscito di recente da Mondadori, parla nell’introduzione al volume di “galassia Beckett”: «Perché nessun autore – così tanto intransigente nella sua fedeltà all’arte – è mai riuscito al pari del nostro a raccogliere in vita intorno alla propria opera lo stesso numero sorprendente di entusiasti editori, e poi registi, attori, funzionari radiotelevisivi, e naturalmente critici, accademici o no. Un vero e proprio miracolo». Perché poi, dietro alla sua irriducibile intransigenza, Sam era una persona gentile, affettuosa, attenta a non ferire, presente quando una persona aveva bisogno di aiuto. Le tante lettere che scrisse nella sua vita ne sono la prova. Sono raccolte in quattro volumi a cura di Franca Cavagnoli per l’Adelphi. Già usciti i primi due, relativi agli anni 1929-1940 e 1941-1956, mentre è attualmente in preparazione il terzo: 1957-1965, testimonianza preziosissima di un momento cruciale nella vita dello scrittore che mentre compone opere teatrali fondamentali quale L’ultimo nastro di Krapp, Giorni felici, Play (che sarà poi musicata da Philip Glass) ha una grossa gatta da pelare sul piano sentimentale. Fedele non era mai stato, ma era di quelli che riescono a tenere in piedi relazioni parallele senza scontentare nessuno. Solo che, improvvisamente, la sua amante fissa ormai da qualche anno, Barbara Bray, funzionaria della Bbc, vedova e madre di due bambine, decide di trasferirsi da Londra a Parigi. Per stargli più vicino? Per forzare la situazione e costringerlo a lasciare Suzanne? Nelle lettere Sam s’interroga se rompere con Barbara, ma alla fine trova una soluzione migliore, una soluzione tipica di uomini del suo stampo, che vivono sulla corda, sempre in procinto di precipitare riuscendo a non farlo mai. Farà contente entrambe le sue donne: sposerà Suzanne, più vecchia di lui di sette anni, per assicurarle l’eredità dei diritti d’autore nel caso della propria morte e aiuterà Barbara a sistemarsi a Parigi continuando la doppia relazione anche più tranquillamente di prima e per il resto dei suoi giorni. Scontentando tutte e due in realtà, ma senza rendersene apparentemente conto. E non è un caso di certo che in Giorni felici ci sia una coppia: Winnie, interrata fino alla cintola e poi fino al collo in una montagnola di terra accanto al marito, il taciturno Willie, e lei non fa che parlare ottenendo da lui, intento a leggere il giornale, rare risposte distratte che non sono vere risposte, ma interlocuzioni rapidissime, punti interrogativi, grugniti. È questo il ritratto di una coppia felice secondo Beckett?
La famosissima commedia è naturalmente compresa nella scelta di Frasca per il Meridiano. Il titolo Romanzi, teatro e televisione indica quanto al curatore interessi l’impegno multimediale dello scrittore irlandese che trovava radio e televisione, e anche il cinema una volta – con Film del 1965, interpretato da uno strepitoso Buster Keaton – congeniale alla propria espressività visiva e sonora. Con Quad del 1981, “pièce per quattro interpreti, luci e percussioni”, arriva ad abolire le parole per sostituirle con un complesso congegno di movimenti degli attori in scena, costretti camminando a disegnare un quadrato e le sue traiettorie interne, mentre fanno vibrare ognuno uno strumento: un tamburo, un gong, un triangolo, un woodblock. E se dalla scelta di Gabriele Frasca mancano i saggi (persino il famoso Proust della giovinezza) e mancano alcuni testi forse non proprio minori e manca interamente la poesia, un testo poetico c’è a chiudere il libro, perché cronologicamente ultimo. Si tratta di Comment dire (in inglese, per volere dello stesso autore, What Is the Word) in cui Sam si interroga ancora e sempre: «…qual è la parola – / vedere – / intravedere / credere d’intravedere – / voler credere d’intravedere…»
E certo non è stato un lavoro semplice nemmeno la ritraduzione, dello stesso curatore, beckettiano della prima ora, di tutti i testi compresi nel Meridiano che vanno dai romanzi alle più famose opere teatrali da Murphy all’Innominabile, da Aspettando Godot a L’ultimo nastro di Krapp a tanti testi brevi e brevissimi. Beckett aveva studiato lingue al Trinity College di Dublino. Sapeva perfettamente il francese, e infatti decise a un certo punto di rinunciare all’inglese per il francese in parte per complicarsi la vita misurandosi con una lingua non perfettamente padroneggiata, almeno all’inizio, ma soprattutto – e ancora una volta – per la stretta relazione in cui metteva letteratura e vita. In Francia, durante la guerra, si era impegnato nella Resistenza (e ne avrebbe avuto anche una medaglia). Scrive Frasca: “Eleggendo per la propria opera il francese a guerra conclusa, Beckett ha scelto in verità di dare seguito alla lingua del suo impegno, intellettuale e politico. La ‘frenesia di scrivere’ che lo colse fu allora quasi una reazione immunitaria scatenata dalla lingua fraterna che gli aveva infettato la propria, e che lo avrebbe condotto, come ha ribadito Maurice Blanchot, ‘oltre i limiti della letteratura’ ”.
Ma Sam non conosceva solo il francese. Leggeva l’adorato Dante in italiano, parlava il tedesco, se n’intendeva anche di spagnolo, studiato da autodidatta. Quando un suo testo composto in francese doveva uscire in Inghilterra se ne occupava in prima persona. Ma in inglese l’opera non restava la stessa, perché la tentazione di riscrivere era troppo forte. E un traduttore che fa? Salta da una lingua all’altra, assimila, sceglie, interpreta… E quando si trattava di un testo teatrale, c’era da impazzire. Beckett partecipava al lavoro di messinscena, arrivando a un certo punto a occuparsi lui stesso della regia. Naturalmente nel passaggio dalla pagina al palcoscenico, il testo veniva rivisto, corretto, riscritto. Quale sarà allora la versione definitiva? La prima, le successive? Se si sfoglia l’interessante Quaderni di regia e testi riveduti (relativi a Aspettando Godot e curato da Luca Scarlini per Cuepress nel 2021) si ha l’idea precisa e vertiginosa di come Beckett lavorasse sulle sue creazioni. Era preciso, maniacale, spesso indeciso. Torna e ritorna su un particolare, cambia, ripristina, cambia di nuovo, per riposizionarsi, magari, al punto di partenza. È attento a ogni piccolo gesto dei personaggi in scena, alle luci e alle ombre che dovranno investirli. Coglie il dettaglio come dovesse ritagliarne ogni volta i contorni dentro un’inquadratura. Come scrive James Knowlson nell’introduzione a questi Quaderni, la struttura letteraria di Beckett è sempre poetica, «costruita sui principi di eco, equilibrio, ritmo». Knowlson fu amico di Sam per più di vent’anni e ne divenne l’unico biografo autorizzato pubblicando qualche anno dopo la sua morte il bellissimo ritratto Damned to Fame, una biografia che in italiano fu tradotta da Einaudi, ormai disponibile solo su ebay. Condannato alla celebrità sì, mentre non chiedeva altro che di essere lasciato in pace fra le sue parole finali e i suoi fantasmi, magari ad annotare il dialogo fra Estragone e Vladimiro come fosse una poesia: «Tutte le voci morte./ Che fanno un rumore d’ali./ Di foglie./ Di sabbia./ Di foglie. Silenzio. Parlano tutti insieme. / Ognuno a sé stesso. Silenzio. Secondo me sussurrano. / Frusciano. / Mormorano/ Frusciano».
Chi si avvicinasse a Beckett per la prima volta potrebbe, dopo tali premesse, allontanarsene subito spaventato. Ma un altro dei paradossi di questo scrittore unico e irripetibile è di non essere minimamente intellettuale e di riuscire – nella cancellazione di trame tradizionali e nella riduzione all’osso del comunicabile – a dire tutto l’essenziale con un pathos, una disperazione, una radicalità estreme che per loro intima natura, inevitabilmente, spesso, invadono il terreno del comico. Leggerlo è un’esperienza dello spirito, più che della mente. Senza significati reconditi, senza simbologie o rimandi ad altro che non sia il qui e ora della parola scelta. «Simboli non ci sono dove non c’è intenzione» è la frase finale di Watt. E inWorstward Ho: «Dire un corpo. In cui niente. Niente mente. In cui niente. Almeno questo. Un luogo. In cui niente. Per il corpo. Per esservi. Per muovervisi. Andarne. Tornarne. No. Niente andate. Niente ritorni. Solo esservi. Restarvi. Ancora. Fermo».
Il miracolo poi è che tanta immobilità ottenga nel lettore e nello spettatore sensibili una risposta emotiva forte, davvero come in una danza (e qui riabilitiamo il titolo del film in arrivo) o come riesce a suscitare soltanto la musica oppure l’uso originale della lingua. La lingua di cui già nel 1937 scriveva a un amico: «Scavarci dentro un buco dopo l’altro finché ciò che vi sta acquattato dietro, che sia qualcosa oppure niente, non comincia a filtrare – per lo scrittore di oggi non so immaginare un fine più alto. Oppure la letteratura deve restare indietro da sola lungo il vecchio e fetido cammino abbandonato ormai da tempo da musica e pittura?» Aveva trent’anni e già chiara la linea che avrebbe dato al suo lavoro, sulle orme di Joyce in un primo momento, ma per distaccarsene radicalmente e diventare soltanto sé stesso.
Si trova in rete un raro filmato amatoriale che gli è stato rubato a Berlino nel 1969. Lo si vede procedere dondolante sulle lunghe gambe, chiedere informazioni per strada, leggere il giornale seduto al bar avvicinando molto le pagine agli occhi in un modo buffo da miope, accompagnarsi sorridente e ciarliero a una giovane donna piccola e bruna, Barbara forse, o una delle tante che corteggiava e a cui non sapeva resistere. È un uomo qualsiasi, leggero, persino felice di vivere, di passeggiare, di sorridere. Un Beckett umano dentro la divinità austera che si tramanda.
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