Come noto, alcune delle parole più lucide scritte sull’Italia vennero da Teodoro Dostoevskij, che osservava il farsi di un nuovo Stato sotto la tragedia massonica chiamata Risorgimento.
Dostoevskij non era interessato a questioni politiche – quelle, sappiamo, sono gli spiccioli della storia.
Il genio può vedere oltre la storia – e la geografia.
Sostanzialmente, nessun altro in Europa comprese cosa significavano gli eventi italiani del suo tempo: nessuno, in realtà, voleva leggerne il significato spirituale – e quindi le enormi conseguenze a lungo termine, nella storia e nella metastoria, nella metafisica della civiltà.
Perché, quando tocchi lo spirito, che è cosa di Dio, non puoi che aspettarti sconvolgimenti immani. L’Ottocento fu, in pratica, poco più che questo: la lotta totale contro lo Spirito, la sua slatentizzazione storica e politica, con quindi le titaniche conseguenze che dobbiamo aspettarci.
La mia idea è che, alcune di quelle catastrofi conseguenti le stiamo vivendo in questo stesso momento, mentre i cannoni e carri armati cantano nello spazio delle Russie, e forse a breve anche qui…
Per capire il mondo bisogna saper leggere l’Italia: è una realtà che vale da qualche migliaio di anni.
Scriveva Dostevskij nel suo Diario di uno scrittore: «Per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo: l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale».
«I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un’idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano».
«La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale. Ammettiamo pure che questa idea mondiale, alla fine, si era logorata, stremata ed esaurita (Ma è stato proprio così?) ma che cosa è venuto al suo posto, per che cosa possiamo congratularci con l’Italia, che cosa ha ottenuto di meglio dopo la diplomazia del conte di Cavour? È sorto un piccolo regno di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, (…) un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla, un’unità meccanica e non spirituale (cioè non l’unità mondiale di una volta) e per di più pieno di debiti non pagati e soprattutto soddisfatto del suo essere un regno di second’ordine. Ecco quel che ne è derivato, ecco la creazione del conte di Cavour!».
Sono parole profetiche, e tremende. Nessuno può negare, un secolo e mezzo dopo, la profonda verità di quanto scritto dal genio russo.
Esse ricalcavano, in realtà, non solo una verità spirituale, ma anche una profonda questione geopolitica, forse proprio da essa informata.
È per lo più sconosciuto ai nostri sussidiari che gli Zar posero, come potevano, una netta opposizione all’idea dell’Unità d’Italia.
Il perché non è difficilissimo da trovare: il Risorgimento, la prima «rivoluzione colorata» – diciamo pure «tricolorata» – che il mondo vedrà a raffica sino al Maidan e oltre, era già allora senza ombra di dubbio un’operazione di sovversione con pupari piuttosto evidenti.
Il Risorgimento – era il pensiero cattolico d’un tempo – altro non era se non una lunga e costosa operazione anglo-massonica, con qualche aiuto da parte magari degli ebrei di Livorno (luogo interessante, anche per fatti successivi, nonché una delle poche città italiche ad avere un nome anche in inglese, Leghorn), quelli che ospitavano Mazzini.
Sì, Mazzini: quello strano «eroe» risorgimentale cui dedicano ancora oggi statue, vie e scuole, celebrato come Garibaldi: tuttavia, sono tutti dimentichi del fatto che mentre l’orecchio mozzato che disse «obbedisco» ebbe tutti gli onori (al punto da essere implicato nel crack della Banca Romana, trappolone bancario popolare ante litteram, con il figlio Ricciotti e il ministro massone 33 grado Antonio Mordini), Mazzini morì in esilio da latitante, nascosto come un boss mafioso, rintanato in una stanzetta convinto di avere ancora il potere di incidere sulla storia, come un Bin Laden a caso.
Sappiamo da dove veniva Mazzini, chi lo curava, lo finanziava, gli elargiva passaporti. Si tratta dello stesso Paese con cui i Savoia, per le guerre dell’unità, fecero quei debiti di cui parla Dostoevskij. Si tratta della Nazione che più aveva da guadagnare con il «Risorgimento». Si tratta del nemico storico della Russia, su ogni piano possibile.
Il lettore sa che parliamo di Albione.
Bettino Craxi, nei suoi anni, spinse il rifiuto dell’Italia come «portaerei inaffondabile» (di fatto, più o meno per questo lo fecero fuori). Ebbene, l’Italia lo era già nell’Ottocento. Di lì a poco sarebbe stato aperto il canale di Suez, Malta (terra italofona stranamente mai considerata irredente da Mazzini e confratelli) poteva non bastare come approdo per la rotta che avrebbe consolidato per sempre i commerci britannici dalle Indie.
Il dominio inglese sull’Italia risorgimentale in nessun caso è più chiaro che in quello di Ernesto Nathan, ebreo di origine inglese, gran maestro del Grande Oriente d’Italia affiliato alla loggia Propaganda, primo sindaco di Roma estraneo all’aristocrazia terriera, quindi segno incarnato della fine dell’epoca papalina, di quell’idea spirituale universale che pure l’ortodosso Dostoevskij non sentiva di poter negare.
Nathan era nato a Londra nella famiglia che più tardi ospitò Mazzini, che divenne suo precettore. La madre, l’ebrea pesarese Sara Levi Nathan, fu «finanziatrice e confidente» (così la pudìca enciclopedia online) di Mazzini; le malelingue insinuano di più, parlando di «affinità (…) riscontrabili – c’è chi è pronto a giurarlo, anche nei lineamenti» (Valeria Arnaldi, SPQR, 2014).
La figlia di Sara Nathan, Jeanette Nathan, sorella del futuro sindaco di Roma ospitò a Pisa Mazzini in punto di morte.
E mentre inglesi massoni ed altri lottavano per l’Italia unita, la storia registra l’appoggio dello Zar di tutte le Russie al Regno delle Due Sicilie, che pure era concorrente dei russi per l’export del grano.
In un saggio di Eldo Di Gregorio, Le relazioni tra il Regno di Napoli e l’Impero di Russia tra il 1850 e il 1860 nelle carte dell’Archivio dei Borbone (Edizioni Scientifiche Italiane, 2006) analizza la corrispondenza diplomatica. Appare evidente come la Russia considerasse nefando il ruolo dell’Inghilterra e di Lord Palmerston, «fautore di e promotore di tutte le rivoluzioni che accadano nel Continente» (p.114), e si offre quindi di consigliare Napoli contro i falsi rivoluzionari.
Di fatto, di queste rivoluzioni continentali («colorate») la Russia ne subì di lì a non troppo tempo una coloratissima, quella dell’Ottobre 1917. Non fu l’ultima: quella a Kiev nel 2004 e 2014 («Euromaidan») non sono dissimili per dinamiche di intersse internazionale.
Al tempo dei Borbone minacciati dagli anglomassoni, San Pietroburgo non escluse l’opzione di aiuto militare tramite le proprie navi, ma desiderava prima raggiungere un accordo con la Francia. Lo si evince da una comunicazione di Napoleone III all’ambasciatore dei Savoia a Parigi: «Il Principe Gorčakov [cancelliere dell’Impero Russo dal 1863 al 1883, ndr] mi accusa di favorire la rivoluzione, e dichiara che giammai la Russia sarà nel campo dei rivoluzionari; egli propone un intervento marittimo in favore del Re di Napoli, e annuncia formalmente che mai la Russia permetterà l’annessione della Sicilia al Piemonte» (p.179).
L’indecisione militare dei Borbone irritarono i pragmatici Zar: «Non si comprende perché il Real Governo avendo in mano la risposta del Conte Cavour, in cui è detto in nome del Re Vittorio Emanuele che Garibaldi usurpa onninamente il nome di S.M. Sarda e che il Governo Piemontese disapprova tutti gli atti di quel condottiero, non l’abbia immediatamente pubblicata nel Giornale Officiale di Napoli e che la tenga tuttavia celata invece di spargerla per le stampe ed accrescere così gli imbarazzi di Garibaldi e compromettere nel tempo medesimo il Governo Sardo» (p.181).
Allora come oggi, lo Zar non le manda a dire, ed esorta all’azione concreta: «si desidera dunque vedere il Real Governo agire con più energia, sia nelle operazioni militari, sia nell’azione politica, procurando di riunire i partigiani della Costituzione Siciliana del 1812…» (p.183)
Insomma, c’è questo quadro secolare da mettere insieme: la Russia, che parlava perfino dal cuore di Dostoevskij, non voleva l’Italia unita – cioè l’Italia in guerra con la propria religione, il Cattolicesimo.
Londra, invece, voleva fortemente il Grande Reset della penisola: distruggere il Papato, tradito secoli prima, ma mai del tutto vinto nemmeno in patria; far contrarre il più esteso e duraturo impero cattolico europeo, l’Austria; preparare il Mediterraneo all’apertura di Suez, pacificando possibili coste di conflitto.
Il Mediterraneo anglicizzato, alla faccia del granaio d’Europa e del Mar Nero. Il Mediterraneo lago inglese, rimasto tale alla faccia di Mussolini.
Perché il conflitto tra la Londra e gli Zar andava avanti in ogni ambito possibile.
Spesso ci si dimentica dell’epica e spettacolare guerra fredda chiamata «Grande Gioco», una lotta di spie – e di eserciti – in tutto il Centrasia, dall’India Settentrionale a Kabul, Kashgar, Samarcanda… Un passato che è emerso anche a inizio anno con oligarchi kazaki in esilio – quelli che magari hanno fatto sparire un paio di centoni alla principale banca italiana e che ci siamo visti adesso sui giornaloni italioti tranquillamente liberi di fomentare la rivolta Ad Almaty e Astana…
Ora, non è un mistero per nessuno che in queste ore sia Albione il più insopportabile attore geopolitico che spinge verso la guerra con la Russia. Il ruolo di Londra nell’escalation ucraina è stato condannato pubblicamente dall’ex ministro degli Esteri austriaco Karin Kneissl così come dal sincero presidente della Croazia, Zoran Milanovic.
Così come per le storie sulle azioni delle forze speciali britanniche SAS – a cui qualcuno vorrebbe attribuire le spericolate operazioni di attacco in elicottero su territorio russo così come l’affondamento delle navi russe – le voci si sprecano. Al momento abbiamo la certezza che in Ucraina stanno lavorando, dichiaratamente, addestratori militari di Londra, sulla carta intenti a insegnare agli ucraini l’uso di missili anti-tank NLAW, gentilmente offerti da sua Maestà per distruggere uomini e mezzi del nemico storico e metafisico di Albione.
Se pensiamo all’Ottocento, il paragone non riesce, perché nel disastro rivoluzionario angloide dell’ora presente non c’è più una Francia con cui tentare di accordarsi, né un’Austria – né un papa. Nulla.
La realtà è che l’Europa tutta è divenuta una… Giovine Europa. L’idea massonico mazziniano, prima nazionalista e poi euronazionalista, è ipostatizzato nella UE, che quindi verso la Russia non può che avere la medesima postura di Londra: capiamolo, la matrice degli avversari di Mosca, spirituale prima che geopolitica, è la medesima.
Questa è, credo, la struttura profonda della crisi attuale.
È partita dal rifiuto dello spirito dell’Italia. È continuata con la cancellazione dello spirito dall’Europa: il vecchio continente perde l’anima, la vende. E, con ostinazione, il disastro di queste ore si riflette nella guerra eterna lanciata contro la Russia, dove forse invece l’anima ha ancora importanza.
I responsabili sono sempre i soliti. Loro l’anima non ce l’hanno più, programmaticamente. L’hanno venduta, o forse peggio: l’hanno data ad un demone che ha promesso loro, secoli fa, ori e terre lontane, il dominio sui mari e sui cuori innocenti.
Capiranno che sono stati ingannati?
Capiranno la loro maledizione?
Capiranno i secoli di devastazione che hanno inflitto all’umanità?
Capiranno che «l’idea dell’unione di tutto il mondo» di cui parla Dostoevskij, non è la loro, ma quella di quello Spirito immortale che, sempre più provocato nell’ira, potrebbe spazzarli via per sempre?