Fu Raimondo di Sangro Principe di Sansevero, nel suo misterioso laboratorio, a inventare il prezioso blu oltremare cinquant'anni prima di Jean-Baptiste Guimet, il chimico francese che nel 1828 riuscì per la prima volta, ufficialmente, a sintetizzare il pigmento, costoso come l'oro, ottenuto in natura dal lapislazzuli. E anticipando di dieci anni il resoconto siciliano di Goethe, ritenuto dagli specialisti il più antico indizio della produzione artificiale del pigmento.
Lo rivela una nuova ricerca dell'Università degli Studi di Bari Aldo Moro che porta alla luce affascinanti scoperte riguardanti le sperimentazioni sui materiali, in particolar modo la creazione di pietre preziose artificiali e la colorazione del vetro, condotte nel 700 dal Principe, la cui Cappella con il celebre Cristo Velato è irrinunciabile tappa di ogni tour a Napoli. Lo studio è stato svolto dai ricercatori del Centro Interuniversitario di ricerca "Seminario di Storia della Scienza" in collaborazione con il Dipartimento di Scienze della Terra e Geoambientali dell'Università degli Studi di Bari Aldo Moro.
Azzurro intenso nella volta della Cappella degli Scrovegni, velato dalla nebbia nella Vergine delle Rocce di Leonardo, striato di nuvole nelle opere di Giorgione e Bellini, scuro e drammatico in van Gogh: il cielo è parte integrante del racconto nella pittura, aggiunge forza emozionale alla rappresentazione, alludendo a una dimensione spirituale o alla mutevolezza naturale dei fenomeni. Per dipingere il cielo gli artisti, seguendo pratiche di bottega come quella tramandata da Cennino Cennini nel suo 'Libro dell'arte' degli inizi del XV secolo, erano soliti usare il prezioso azzurro oltremare ottenuto dal lapislazzuli, una pietra che si trova principalmente in Afghanistan, di costo elevato, talvolta sostituiti con la meno cara azzurrite estratta in Europa.
Il Molab del Cnr, laboratorio mobile per le analisi sui beni culturali, è riuscito grazie a un approccio non invasivo che combina informazioni ottenute tramite XRF (fluorescenza a raggi X) con quelle molecolari o vibrazionali (vicino e medio FTIR e Raman) ed elettroniche (UV-vis-NIR) a estrapolare dalle opere numerose informazioni circa materiali e metodi usati dai pittori nonché sull'autenticità delle opere. “Dall'antichità al XIX secolo, nei dipinti si rintacciano diversi tipi di blu. L'oltremare artificiale possiede la stessa composizione chimica del lapislazzuli ma manca della CO2, che viene quindi utilizzato come marker specifico per riconoscere il sintetico dall'artificiale. L'azzurrite è usata da Giotto negli affreschi delle Storie di San Francesco nella Basilica Superiore di Assisi e da molti pittori rinascimentali come Raffello e Perugino, sia in affreschi sia in tavole e tele. Purtoppo è un pigmento che può alterarsi sotto particolari circostanze ambientali e se a contatto con composti acidi, virando a tonalità verdastre, spesso la si ritrova sotto forma di atacamite e paratacamite” spiega Francesca Rosi dell'Istituto di scienze e tecnologie molecolari (Istm) del Cnr.
Un altro pigmento utilizzato è lo smaltino. “Diversamente dall'azzurrite, esso è stabile anche se applicato nella tecnica a fresco e quindi ampiamente utilizzato anche nelle estese campiture del cielo, nei dipinti murali come nell'affresco della Madonna delle Grazie del Perugino datato 1522 e conservato nella Chiesa di Sant'Agnese a Perugia”, prosegue la ricercatrice.
Nel Settecento iniziano a essere sintetizzati i primi pigmenti artificiali, tra cui il blu di Prussia (esaciano ferrato ferrico) che fu ampiamente utilizzato dagli artisti a partire dal 1724. “Attualmente sono in corso studi per capire come mai in alcune circostanze il pigmento tenda a scolorirsi. Infine, la pittura en plein air dei pittori Impressionisti francesi (Cezanne, Renoir, Manet) si arrichisce dei nuovi pigmenti che derivano dalla rivoluzione industriale e dalla chimica di sintesi: tra questi, il blu di Thenard e il blu ceruleo”, conclude Rosi.
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