giovedì 30 marzo 2017

Wilson e Trump


Wilson tradito da Trump



di Giovanni Bernardini - La Lettura 
Il nome di Woodrow Wilson, ventottesimo presidente degli Stati Uniti, è soprattutto associato all’intervento americano nella Prima guerra mondiale del 6 aprile 1917. L’obiettivo proclamato da Wilson, che rimase alla Casa Bianca dal 1913 al 1921, era trasformare il conflitto nella «guerra che doveva mettere fine a tutte le guerre» e in una pace «senza vincitori né vinti», con la creazione di un sistema multilaterale di relazioni internazionali volto a trasferire i futuri conflitti dal piano militare a quello giuridico. I suoi «14 punti» dovevano disegnare un’Europa nuova, sulla base dei principi di autodeterminazione dei popoli, di libertà commerciale e di abolizione della diplomazia segreta, per concludere con la creazione di una Società delle Nazioni come garante di «indipendenza politica e integrità territoriale tanto per i grandi Stati quanto per i piccoli». A cent’anni dalla scelta che avrebbe cambiato le sorti del XX secolo, ne discutiamo con Manfred Berg, americanista e professore dell’Università di Heildelberg (Germania), che ha appena pubblicato il volume Woodrow Wilson. Amerika und die Neuordnung der Welt («Woodrow Wilson. L’America e il nuovo ordine mondiale»).
Qual era il retroterra culturale e politico di Wilson? Da dove nascevano i suoi progetti di riordino delle relazioni internazionali?
«Sia il padre che il nonno paterno di Wilson erano sacerdoti presbiteriani. Crebbe dunque in un ambiente caratterizzato dalla tradizione calvinista. Fortemente religioso egli stesso, Wilson era convinto di essere uno strumento di Dio. Sebbene dimostrasse spesso e volentieri un’alta considerazione di sé, sgradevole per alcuni, non corrispondeva al “teocrate” tratteggiato dai suoi detrattori. Le sue idee di “patto” tra le nazioni avevano certo radici protestanti, ma risultavano attraenti anche per molte persone estranee a influenze calviniste. Nato nel 1856, Wilson crebbe nel Sud degli Stati Uniti all’indomani della Guerra civile. Questo ne faceva un democratico “per nascita”, ma non un fautore del mito eroico sudista (la cosiddetta Lost Cause ). Certamente dava per scontata la supremazia bianca: era un razzista per i nostri standard, ma all’epoca le sue opinioni razziali corrispondevano a quelle dominanti. Wilson era un intellettuale: prima di entrare in politica, era stato professore di Storia e rettore dell’Università di Princeton. Da governatore del New Jersey e poi da presidente, Wilson fu un riformatore progressista i cui risultati (creazione della Federal Reserve, leggi antitrust, ecc.) sono ampiamente riconosciuti. Tuttavia, prima del 1914 non aveva nutrito progetti di riforma delle relazioni internazionali: il suo programma di internazionalismo liberale fu essenzialmente una risposta ai disastri della Grande guerra».

Wilson resta discusso: un’icona per chi crede nel multilateralismo, un ingenuo ideologo per chi lo accusa di pericolose velleità. Qual è il suo giudizio?
«Dobbiamo fare attenzione a non cadere negli stereotipi che vogliono Wilson come un ingenuo idealista. Piuttosto, era per molti versi un realista e certamente un nazionalista che tenne sempre d’occhio gli interessi degli Stati Uniti. Eppure era fortemente convinto che il vecchio sistema europeo della politica di potenza avesse condotto all’abisso della Prima guerra mondiale e che dovesse lasciare il passo a un nuovo ordine mondiale fondato sulla sicurezza collettiva, l’uguaglianza delle nazioni, l’autodeterminazione, la democrazia e il libero commercio. Perseguì questi obiettivi con determinazione, ma non fu in grado di riconoscere i compromessi a cui era obbligato. La sua grande tragedia fu il rigetto della Società delle Nazioni da parte del Senato Usa: una tragedia però da imputare largamente allo stesso Wilson, incapace di accettare le riserve espresse dall’opposizione. E tuttavia dubito che la partecipazione statunitense alla Società delle Nazioni avrebbe prevenuto la Seconda guerra mondiale».
L’allora primo ministro francese Georges Clemenceau accusò Wilson di «candore»; il premier britannico David Lloyd George, evocando l’idealismo di Wilson e il nazionalismo di Clemenceau, dichiarò più tardi di essersi trovato a disagio «tra Gesù Cristo e Napoleone». Come si può distinguere tra ideologia e concretezza nella retorica wilsoniana? Quanto realmente credeva nell’applicabilità dei suoi principi?
«Le battute di Lloyd George e Clemenceau sono divertenti, ma non dobbiamo cedere alle caricature interessate. Fondamentalmente gli alleati non condividevano la fede di Wilson nella Società delle Nazioni come futura garante della pace mondiale. Essi furono piuttosto costretti ad adattarsi, dato che gli Stati Uniti erano il principale attore della conferenza di pace di Versailles. Inoltre, Wilson era estremamente popolare presso le popolazioni dei Paesi alleati: al suo arrivo in Europa fu salutato come un messia da milioni di persone. Semmai, una simile accoglienza fece credere a Wilson di rappresentare davvero l’interesse dell’umanità. Per quanto mi riguarda, non ho dubbi che credesse fermamente alla propria retorica».
Parte della storiografia riconduce l’impegno wilsoniano alla necessità di contrastare un altro forte disegno ideologico: quello della rivoluzione bolscevica, che a suo modo voleva «porre fine a tutte le guerre». Secondo lei esiste una correlazione così stretta?
«Si tratta certamente di un’interpretazione influente ma a mio parere esagerata, poiché tende a proiettare la logica della guerra fredda in retrospettiva. Pur diffidando dei bolscevichi, Wilson non si impegnò in alcuna crociata contro di essi. I suoi “14 punti” contenevano persino delle avance al nuovo regime al fine di mantenere in guerra la Russia. Wilson era anche riluttante a concordare con i propositi alleati di intervento diretto e in ogni caso il coinvolgimento statunitense nella guerra civile russa rimase limitato. Ritengo anche fuorviante ritrarre Wilson e Lenin come veri rivali negli anni tra il 1917 e il 1919. Il primo era il leader del Paese più potente del mondo, con un programma che dominava l’agenda internazionale. Lenin era un rivoluzionario il cui successo appariva molto incerto e che avrebbe potuto concludere la sua vita davanti a un plotone d’esecuzione. Wilson temeva che povertà e indigenza accrescessero l’attrazione europea per il bolscevismo, ma era pur sempre convinto che il modello liberale avrebbe prevalso».

A molti l’avvento di Trump sembra segnare la chiusura di un secolo di interventismo statunitense nel mondo e soprattutto l’accantonamento della «relazione speciale» tra Usa ed Europa. Qual è la sua opinione?
«Certamente Donald Trump abbraccia una tradizione politica fortemente contraria all’internazionalismo liberale di ascendenza wilsoniana. Wilson riteneva che il sistema statunitense di capitalismo liberal-democratico fosse un modello per il mondo e che gli Stati Uniti dovessero fornire la leadership necessaria ad assicurare un ordine mondiale fondato su principi “americani”. Al pari dei critici nazionalisti di Wilson, Trump ritiene che gli Stati Uniti debbano preservare la sovranità assoluta e perseguire i propri interessi nazionali senza prendere impegni vincolanti. Tuttavia il nazionalismo di Trump non significa necessariamente che gli Stati Uniti diventeranno spettatori isolazionisti della politica mondiale. Trump vede le relazioni internazionali come un gioco a somma zero, nel quale gli Usa devono necessariamente rimanere l’attore più forte, in grado di dominare unilateralmente e, se necessario, con mezzi militari. Trump non ha alcuna particolare vocazione a perseguire buone relazioni tra Europa e Stati Uniti, ha dichiarato il proprio disprezzo per l’Unione Europea e preferirebbe certamente trattare con ogni Paese europeo singolarmente. Apparentemente è ignaro delle ragioni sia politiche che economiche per cui gli Usa hanno promosso l’integrazione europea dopo la Seconda guerra mondiale».
Per concludere, non può sfuggire la coincidenza che sia uno storico tedesco a parlare oggi di Wilson. D’altro canto lei fa parte di una generazione che più di altre ha avuto l’opportunità di vivere e lavorare negli Stati Uniti. Ritiene che ciò abbia avuto un’influenza nel modo in cui lei analizza passaggi fondamentali di storia degli Usa, e in particolare la vicenda di Wilson?

«Ovviamente faccio parte di una generazione formata dalla convinzione che la Germania debba rimanere fermamente ancorata alla tradizione politica occidentale e all’Alleanza atlantica. Durante la prima parte del XX secolo, l’ignoranza della politica, della cultura e della potenza statunitense fu un fattore determinante nelle decisioni delle élite tedesche. Nel libro sostengo che Wilson volesse evitare l’ingresso nella Grande guerra. Le leadership civili e militari tedesche sottovalutarono grossolanamente il potere statunitense e optarono per la guerra sottomarina illimitata all’inizio del 1917, lasciando Wilson senza alternative. Sostengo anche che Wilson non «tradì» i tedeschi alla conferenza di pace, ma che al contrario la Germania beneficiò del suo intervento. Ciò detto, ritengo che sia necessario superare vecchie logiche di accuse reciproche per cercare piuttosto di comprendere come Wilson sia stato una delle figure chiave della storia del XX secolo».


Parte dal 1917 il primato dell’America

di Tiziano Bonazzi - La Lettura
Il 6 aprile 1917 gli Stati Uniti entrarono in guerra a fianco di Francia, Gran Bretagna, Russia e Italia contro gli Imperi centrali, Germania e Austria-Ungheria; ma non lo fecero come alleati, bensì come «potenza associata», una differenza linguistica e giuridica che sottolineava una profonda diversità di vedute e una continuità ideale con la neutralità proclamata dal presidente Woodrow Wilson allo scoppio della guerra nel luglio 1914. Neutralità necessitata dal fatto che il Paese era profondamente diviso sull’entrata in guerra; ma rinsaldata da una specifica cultura politica diversa da quella degli europei legati all’equilibrio di potenza e alle sfere di influenza.
Il neutralismo di Wilson non significava isolazionismo. Convinti a ragione dell’ormai raggiunta interdipendenza economica del mondo — oggi gli storici parlano di prima globalizzazione per l’inizio del Novecento —, i predecessori di Wilson, Theodore Roosevelt e Howard Taft, avevano perseguito un internazionalismo che, ritenendo ormai obsoleta la guerra, ne vedeva il pacifico, moderno sostituto nel libero commercio internazionale guidato dalle «potenze civilizzate». In questo contesto gli Usa godevano, per l’opinione pubblica, di una posizione peculiare perché avevano la missione provvidenziale di mostrare la via della libertà ai popoli. Era un’ideologia che sorreggeva la crescente potenza americana; ma che i trattati con Londra e Parigi del 1911 per risolvere le controversie internazionali con l’arbitrato parvero tramutare in realtà. Lo scoppio della guerra la annientò, e gli Stati Uniti si ritrassero.
Per tre anni Wilson tenne il Paese fuori dal conflitto cercando di promuovere la pace fra i contendenti; ma il suo neutralismo attivo divenne sempre meno praticabile. Davanti alla guerra, l’internazionalismo economicistico in cui anch’egli aveva creduto, e che consciamente sminuiva il ruolo della politica, si dimostrava impotente. Suo merito fu elaborarne un altro che manteneva, invece, la politica al centro. Lo abbozzò nel gennaio 1917 con l’idea della «pace senza vittoria» garantita da un’organizzazione internazionale e lo sviluppò con i «14 punti» del gennaio 1918, che divennero base di discussione alla conferenza di pace di Versailles del 1919. Il fulcro della sua visione era l’impossibilità in un mondo interconnesso di una pace imposta da uno o più Stati, da cui faceva discendere due proposte fondamentali, l’autodeterminazione dei popoli e un patto fra tutti gli Stati garantito da un’istituzione mondiale, la Società delle Nazioni, chiamata a salvaguardare la loro sovranità e integrità. Sappiamo che a Parigi Wilson dovette cedere su molti punti per la granitica volontà dei vincitori di spartirsi le spoglie dei vinti e per l’impossibilità pratica di realizzare il principio «un popolo uno Stato». Sappiamo, però, anche che fu il Senato americano a non ratificare il risultato essenziale che Wilson aveva strappato, la Società delle Nazioni, e a lasciarla con ridotta capacità di incidere per l’assenza del Paese più importante.
Un tale esito e la complessa personalità del presidente, vieppiù isolato a Versailles e inutilmente rigido nella difesa dei suoi principi in Senato, hanno portato ad accusare Wilson di ingenuità e utopico idealismo. Accusa che investe solo la superficie della sua azione, non la sua visione politica che con F.D. Roosevelt divenne il fulcro della politica estera americana e tale è rimasta, declinata in molti modi, fino, pare, all’avvento di Donald Trump. Un internazionalismo liberale wilsoniano al cui centro per Roosevelt erano la sicurezza e la pace assicurate dalle Nazioni Unite, nonché lo sviluppo economico promosso da istituzioni come Fondo monetario e Banca mondiale. Garanti di tutto erano, naturalmente, gli Stati Uniti che le egemonizzavano entrambe, oltre ai valori americani e all’ American way of life .
Wilson e il wilsonismo, pertanto, riproposero in chiave politica originale la visione americana di primo Novecento di un mondo interconnesso retto dalle o dalla «nazione civile», nonché la primogenitura del mercato nel determinare i contenuti dei valori politici di libertà e democrazia. Il che porta a concludere che nel 1917 gli Stati Uniti offrirono a un’Europa inconsapevole del suo tramonto una proposta politica e culturale ideologica, ma sagace — alternativa a quanto si andava delineando in Russia — che ha anche consentito al Vecchio Mondo, dopo il suo definitivo suicidio nella Seconda guerra mondiale, di sentirsi mosca cocchiera pur essendo al traino del peregrinare del mastodonte americano.
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Il Limbo

Chiara Franceschini - La Lettura
Tra gli anniversari che si celebrano in questo 2017 — dal cinquecentenario della supposta affissione a Wittenberg delle tesi di Martin Lutero (1517) al centenario della Rivoluzione d’Ottobre (1917) — vale la pena ricordarne uno minore: il decennale della cosiddetta «abolizione» del limbo (2007), quell’ambiguo luogo dell’aldilà cristiano per gli innocenti non battezzati che per circa dieci secoli fu discusso dai più importanti teologi e filosofi occidentali, da Tommaso d’Aquino allo stesso Lutero fino a Leibniz, descritto e reinventato da poeti come Dante Alighieri o John Milton e rappresentato nelle forme e sui supporti più diversi da miniatori, pittori, scultori e artisti di diversa abilità e provenienza nei secoli del tardo Medioevo, del Rinascimento e dell’età moderna. La natura, la forma e la stessa esistenza di questo luogo non furono mai riconosciute come dogma della Chiesa cattolica. Eppure, come qualcuno ricorderà, nel gennaio del 2007 Papa Benedetto XVI approvò la pubblicazione di un documento della Commissione teologica internazionale che invitava i fedeli a «lasciar cadere» l’«ipotesi teologica» del limbo o, più brevemente, «l’ipotesi limbo».
La domanda riguardo al perché il primo Papa del XXI secolo, concludendo un lavoro iniziato già sotto il suo predecessore Giovanni Paolo II, avesse sentito la necessità di esprimersi sulla desueta faccenda del limbo, suscitò, allora, l’attenzione di chi, come me, si interessava alla storia delle immagini e al rapporto tra arte e religione nell’epoca premoderna. Mentre La nascita del Purgatorio era stata narrata nel 1981 da Jacques Le Goff — il medievista francese sulla scia del quale si mossero in seguito anche molti storici delle immagini — nessuno si era mai occupato di quella che, in un libro dedicato alla storia di un infanticidio e delle sue implicazioni, Adriano Prosperi aveva definito la storia «nascosta» e «apparentemente secondaria» del limbo ( Dare l’anima , Einaudi, 2005). La notizia che nel 2007 il Papa aveva deciso di pronunciarsi in maniera definitiva proprio su questo argomento confermò che la questione del limbo, lungi dal rappresentare una vicenda marginale nel contesto della storia della formazione dell’aldilà cristiano, toccava alcuni problemi centrali del cristianesimo, e in particolare del cristianesimo occidentale.

La storia del limbo come luogo dell’aldilà cristiano per i non battezzati è durata quasi un millennio: da quando l’espressione limbus inferni («l’orlo» o «il margine dell’inferno») cominciò a essere usata dai teologi occidentali alla fine del XII secolo, fino al pronunciamento della Chiesa romana nel 2007. Perché, a differenza di altri luoghi o stati dell’aldilà, il limbo, ovvero un luogo del quale ci parlano molte e diverse fonti durante questi dieci secoli, rimase sempre allo stato di «ipotesi teologica»? Come e perché il corpo dei fedeli fu incoraggiato a credere per tutto questo tempo che la vastissima massa delle anime degli innocenti morti prima del battesimo fosse destinata a questo luogo? È possibile studiare l’effettiva credenza in questa nozione? E, soprattutto, quante diverse immagini e modi di intendere il limbo sono esistiti nel tempo?
Il documento vaticano, dedicato al problema socialmente rilevante, per i cattolici, dei bambini morti prima del battesimo e quindi anche dei feti abortivi, parla solo del limbo dei bambini. Tace, invece, riguardo a tutti gli altri gruppi umani che la cultura cristiana aveva associato in diversi momenti della sua storia al destino intermedio del limbo: non solo i patriarchi e i profeti dell’Antico Testamento, ma anche i filosofi antichi, i non cristiani virtuosi e le popolazioni scoperte dagli europei nel Nuovo Mondo a partire dalla fine del Quattrocento. Che cosa avevano in comune, dal punto di vista cristiano, tutti questi gruppi umani così eterogenei? Da dove nacque e come si sviluppò l’idea di collocarli tutti sull’immaginario bordo dell’inferno? E quale fu il contributo degli artisti nel dare forma a un’immagine che evocava idee antiche dell’aldilà, sfidando il confine cristiano tra natura e grazia?
La Storia del limbo oggi pubblicata dall’editore Feltrinelli prova a dare una prima risposta a questa serie di domande, ponendosi come obiettivo non quello di offrire un semplice inventario tematico di testi e immagini, ma quello di ricostruire lo sviluppo di questa nozione e delle sue rappresentazioni nei lunghi secoli della sua storia, da Agostino a Dante, da Mantegna a Michelangelo, da Lutero a Federico Borromeo, fino ad oggi, concentrandosi soprattutto sui secoli del tardo Medioevo, del Rinascimento e dell’età moderna.
Se le basi del dibattito teologico furono poste soprattutto tra XII e XIII secolo, fu nei tre secoli successivi, tra il Trecento e l’inizio del Seicento, che si assistette alla più grande concentrazione di immagini diverse e opposte del limbo. Accanto all’analisi dei testi letterari, teologici e filosofici, il lavoro sulle immagini visive si è rivelato centrale proprio a causa dell’incerta natura dottrinale del limbo. Storia del limbo ricostruisce così la genesi e la diffusione di immagini del limbo di diversa qualità, genere e provenienza, dalle pagine dei molti esemplari illustrati dello Speculum Humanae Salvationis e della Divina Commedia , alle pareti di chiese rurali in aree alpine fino ai graffiti carcerari di prigionieri dell’Inquisizione romana, dai mosaici bizantini dell’ Anastasis ovvero della resurrezione e vittoria di Cristo sulla morte e sull’inferno fino alle Discese al limbo dipinte da Andrea Mantegna, Domenico Beccafumi o Alonso Cano.

La parte centrale del libro si sofferma sull’analisi di un tema che, a partire da spunti offerti già da alcuni teologi medievali, fu sviluppato da alcuni predicatori (tra questi Savonarola), scrittori e artisti rinascimentali: l’idea che la vita ultraterrena dei non battezzati e dei pagani innocenti e virtuosi potesse essere immaginata non come un destino grigio e infelice, se non doloroso, ma come un’esistenza eternamente collocata in un mondo di beatitudine naturale, equidistante dalla grazia così come dalla dannazione. La tesi del libro è che questa idea di un mondo di felicità naturale per i pagani abbia non solo offerto materia di discussione a scrittori e filosofi come Giovanni Pico della Mirandola, Marsilio Ficino o Machiavelli, ma abbia anche costituito una fonte di ispirazione per tutti quegli artisti che si interessavano al rapporto tra antichità e cristianesimo: da Donatello come inventore dell’immagine del putto all’antica da utilizzare in contesti battesimali ad Agostino di Duccio (che rappresentò una serie di giochi di putti alati in una delle cappelle del Tempio Malatestiano), da Mantegna ad Andrea Riccio, che antichizzarono la discesa al limbo, da Michelangelo a Fra Bartolomeo, che immaginarono mondi popolati da uomini nudi sul bordo di rappresentazioni sacre, rispettivamente nel Tondo Doni degli Uffizi e in una pala d’altare con l’apparizione della Vergine a San Bernardo, dipinta per un nobile di Besançon (pala Carondelet).
Queste diverse immagini di un mondo a parte, posto al di fuori della grazia e da un rapporto diretto con Dio, eppure buono, naturale e felice, furono il punto massimo al quale si poté spingere la riflessione cristiana sul drammatico e irrisolvibile conflitto tra giustizia e misericordia divine che si apriva ogni volta che un innocente moriva senza essere battezzato. Non fu un caso se questa riflessione ebbe il suo massimo sviluppo proprio durante i secoli che furono poi etichettati come quelli del Rinascimento. In questo periodo, la riflessione sul rapporto tra mondo cristiano e altri mondi antichi e contemporanei si intensificò in ogni campo, da quello artistico a quello filosofico, da quello letterario a quello teologico, e forse persino nel senso comune, se consideriamo che le ossa dei bambini morti senza battesimo venivano chiamate in questo periodo «ossa pagane» — ossa che, secondo le norme ecclesiastiche, non potevano ricevere sepoltura in terra consacrata, ma dovevano essere confinate ai bordi dei cimiteri.

Successivamente, con l’inasprimento delle controversie dottrinali che travolsero l’Europa della Riforma e della Controriforma, sia le idee che potevano indurre a immaginare un limbo di beatitudine naturale, sia le posizioni che avevano cercato di sdrammatizzare la morte dei non battezzati, come quella sostenuta da Tommaso de Vio, generale dell’ordine dei Predicatori, relativa alla validità di un battesimo attraverso il desiderio e le speranze dei genitori, furono abbandonate, quando non censurate (come accadde appunto all’idea di de Vio).
Eppure, almeno all’interno della Chiesa cattolica, il problema della morte senza battesimo e del destino incerto delle migliaia di anime innocenti di bambini e di adulti era lungi dall’essere risolto. Mentre le immagini di un limbo felice di beatitudine naturale venivano abbandonate, crebbe nel corso del Seicento e fino al Settecento il ricorso a pratiche sostitutive del battesimo, che furono tollerate a lungo dalla Chiesa romana, prima fra tutte il diffusissimo pellegrinaggio delle famiglie ai cosidetti «santuari della resurrezione» dove i bambini morti senza battesimo venivano «resuscitati» per i minuti necessari a impartire loro il battesimo d’acqua e dunque consentire la sepoltura in terra consacrata.
Ponendo fine alla secolare storia del limbo, il documento approvato da Joseph Ratzinger nel 2007 si fonda su un aspetto sorprendente, se non paradossale: pur collocandosi con decisione sul terreno della «speranza», insistendo sul tema della misericordia divina e tornando all’originaria immagine della vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte (immagine che è anche all’origine di tutta la storia iconografica del limbo), il documento invita ad abbandonare non tanto le immagini più oscure e infernali del limbo (che pure erano state sviluppate nei secoli sulla base di alcuni pronunciamenti di Agostino), quanto soprattutto quell’«ipotesi teologica» del limbo come «un destino intermedio e naturale, guadagnatoci dalla grazia di Cristo».

La principale ragione per cui, secondo Benedetto XVI e i suoi teologi, questa ipotesi è «problematica» e «superata alla luce di una maggiore speranza teologica», è che, «di fatto, nessuna esistenza umana viene mai vissuta in un tale ordine», perché «l’ordine attuale è soprannaturale». In un tale ordine gli esiti possibili di un’esistenza umana sono solo due: «O la visione di Dio o l’inferno». Tertium non datur . Secondo questo documento, sebbene ci possa essere speranza per le anime dei bambini innocenti morti prima del battesimo (che, riprendendo un’idea premoderna, un passaggio del testo associa ai Santi Innocenti massacrati da Erode), non ce n’è davvero nessuna per coloro che sono considerati alla stregua dei loro «carnefici», ovvero i genitori ritenuti colpevoli in caso di aborto.

Vista da questo punto di arrivo, la lunga e complessa storia del limbo può forse contribuire a riaprire la discussione non solo sul tema dell’aborto, ma anche sul più vasto problema, connaturato al cristianesimo e forse da esso inscindibile, di una Chiesa basata su un messaggio di tipo universalistico al quale, tuttavia, si può accedere solo attraverso il passaggio di nettissime linee di confine.

mercoledì 22 marzo 2017

Adamo ed Eva

Heesung Kim per “Cosmopolitan

Tutti conoscono la storia: Dio creò la donna da una costola di Adamo, lei disobbedì mangiando la mela e nacque il peccato originale. Non è così semplice secondo Bruce Feiler, autore del nuovo libro ‘The First Love Story: Adam, Eve and Us’.

Per lui, siamo in errore da 2000 anni, e c’è grande differenza fra come la storia andò e come fu raccontata dalla religione organizzata. Dio creò una entità umana a sua immagine e somiglianza e la divise in maschio e femmina. Tutto iniziò dunque all’insegna dell’uguaglianza. Eva è colei che cercò libertà e conoscenza, fu la prima ad essere indipendente, e tentò anche di riparare ai danni. La religione organizzata la rese colpevole per elevare Adamo.

Eva non tenta Adamo, gli offre il frutto, è diverso. E’ una storia d’amore in cui si dividono e tornano a cercarsi. Lasciano l’Eden, si separano, restano insieme. Hanno figli, si deludono, si riconciliano, si perdonano. Si scelgono costantemente. E’ la prima parola doppia: Adamo e Eva, non solo uno o solo l’altro.

Eva mangia il frutto della conoscenza di bene e male, e a quel punto capisce che vuole intimità e sesso con Adamo. Sa che porterà anche dolore e gelosia, ma non si ferma. Più contemporanea di così. Se accetti che le cose non siano perfette, puoi raggiungere ciò che desideri. Non c’è traguardo senza perdita.

lunedì 20 marzo 2017

Cos'è l'uomo?

Domenica 19 Marzo, 2017
La scienza non sa che cos’è l’uomo
Marco Del Corona - La Lettura




Un testo breve, che dal titolo e dallo stile sembra ispirarsi ai saggisti del Settecento illuminista anglosassone ma a tratti si accende della verve di un pamphlet. Il britannico Roger Scruton, filosofo e polemista conservatore dagli interessi eclettici, con il nuovo libro uscito nei Paesi anglofoni, On Human Nature , vuole andare al cuore della questione delle questioni. Sulla natura umana: niente di più, niente di meno. «Non che volessi scrivere un grande trattato — spiega — ma solo portare l’attenzione del lettore sui fatti basilari che riguardano la natura umana, fatti che vengono spesso trascurati. In particolare ora, quando la scienza ha scalzato la religione dal centro della visione dell’uomo».
Questo è un libro di antropologia filosofica. Si tratta di una disciplina che va riconsiderata dopo essere stata messa da parte?
«Sì, l’antropologia filosofica non avrebbe mai dovuto essere abbandonata. Va detto che conta alcuni sostenitori moderni molto potenti: come Giovanni Paolo II, sulle orme di Max Scheler».
Uno degli obiettivi del testo è contrastare o ridurre l’influenza di un approccio all’esistenza umana di fatto scientista, centrato sulla biologia. Qual è stata la scintilla che l’ha spinta a scrivere «On Human Nature»?
«È così. Io voglio lasciare che la biologia occupi la sua posizione legittima ma anche convincere il lettore che le questioni sulla natura umana davvero rilevanti non hanno a che fare con la biologia e vanno affrontate per un’altra via: la via della filosofia».
Intende dire che le scienze oggi godono di un’eccessiva rilevanza nel discorso pubblico e nel modellare i nostri valori?
«Le scienze sono sempre importanti e ogni discussione pubblica deve fare del suo meglio per comprenderle e incorporarle. Il problema sono le pseudoscienze, scienze senza un genuino metodo scientifico, messe insieme per convincere le persone che le questioni che le assillano hanno una risposta scientifica, anche se non si tratta di questioni scientifiche. Per esempio, la questione della libertà. Qualcuno potrebbe dire: non abbiamo libertà perché tutte le nostre azioni sono il prodotto dell’attività del sistema nervoso. E, a sostegno di questa conclusione, si adduce ogni genere di motivazione legata all’attività neuronale. Invece no. La questione della libertà non è scientifica: riguarda il nostro modo di comprenderci l’un l’altro quando prendiamo seriamente la nostra soggettività».
Un approccio scientista non può davvero incorporare o addirittura spiegare caratteristiche e valori dell’uomo, lei sostiene.
«Credo sia un libro piuttosto difficile. Ma alla sua base il contenuto è semplice: in particolare, che noi esseri umani non viviamo nello stesso mondo degli altri animali ma in un mondo che concepiamo noi stessi. Ricreiamo il mondo attraverso le nostre attività e siamo responsabili del posto che vi occupiamo».
Uno degli assi portanti di «On Human Nature» è il ruolo centrale dell’io e della relazione io-tu. Oggi assistiamo a una moltiplicazione dei «tu» virtuali attraverso i social media. Qual è la sua visione del fenomeno?
«Sì, il perno sta nella relazione io-tu. Lo dimostrano i social media, che sono lì a fortificare un fragile senso del sé amplificando la cassa di risonanza dei molti “tu”. Ma i “tu” in questione sono più o meno virtuali e dunque ne consegue una perdita di realtà, un nascondersi all’altro dietro lo schermo sul quale l’altro è proiettato».
I social media che moltiplicano anche l’io pongono problemi meramente psicologici o anche filosofici?
«La filosofia non può risolvere tutte le patologie sociali. Sono certo che i social media produrranno metodi totalmente nuovi di comprensione del sé. Tuttavia non demoliranno la condizione fondamentale della nostra esistenza personale, che è la responsabilità nei confronti degli altri».
Lei, appunto, definisce la virtù come la capacità di essere responsabili delle proprie azioni. Il nostro è un mondo dove quest’idea di virtù è in ritirata?
«Sì, l’idea di virtù che difendo è, in una certa misura, in ritirata. Questo però non significa che non sia necessario difenderla. Al contrario, non c’è mai stato tanto bisogno di virtù quanto ora. Senza virtù nessuno può compiere un vero sacrificio e senza sacrificio non esistono né amore né pace che tengano».
Nel suo volume sembra non esserci posto per la politica. Perché? È rimasto deluso dalla politica in generale o da quella del suo Paese, la Gran Bretagna?
«In un libro breve non volevo essere distratto dalla politica, benché quel che sostengo abbia comunque implicazioni politiche. Adesso non sono deluso dalla politica più di quanto lo sia sempre stato: e credo che l’illusione più pericolosa di tutte sia quella che possa esserci una soluzione politica alla condizione umana. È stata l’illusione che ha devastato il mondo nel Novecento. La politica nel mio Paese è in una fase interessante, naturalmente, ma quello che merita di essere notato è che procediamo giorno dopo giorno in un contesto pacifico e di dialogo».
Il quarto capitolo di «On Human Nature» è focalizzato sul ruolo delle credenze religiose e metafisiche e su virtù come la pietà. Tuttavia le religioni organizzate quasi non vi compaiono, come se lei non credesse che queste possano ancora rispondere a questioni fondamentali...
«Le religioni organizzate costituiscono una forza importante, molto migliore di una religione non organizzata, e va detto per inciso che io considero l’islam come la principale religione non organizzata. Ci sono risposte religiose a molte delle nostre domande, ma dipendono da pietà, preghiera e umiltà».
Possiamo chiederle che cosa pensa di Donald Trump, dell’impatto che avrà sulle società dell’Occidente, della Brexit?
«Trump è un prodotto dei social media che gli hanno consentito di raggiungere coloro che si sentivano abbandonati dalla classe politica. Sono le stesse persone alle quali, nel voto sulla Brexit, è stata data la possibilità di far conoscere i propri sentimenti. Tutt’e due i casi si sono rivelati degli shock politici per l’élite politica. Ma il problema è l’élite politica, non la gente. Nel lungo termine dubito che penseremo che sia successo alcunché di speciale. Trump è una persona aggressiva e sgradevole ma, diversamente da Erdogan in Turchia, per esempio, non ha arrestato i giudici. Ha riconosciuto che il presidente deve obbedire alla legge e ha cominciato a cambiare le proprie intenzioni riguardo alcune delle sue politiche».
Lei chiude il libro con un omaggio al potere dell’arte, che non solo dà all’uomo un piacere superiore ma rende possibile raggiungere idee che altrimenti non possono quasi essere espresse. Gli artisti di oggi sanno produrre questo genere di epifanie?

«Tutti i veri artisti riconoscono di avere il dovere di redimere il mondo. Non in termini religiosi ma nel modo proprio dell’arte, che è trovare ordine, senso e verità nelle cose che ci travagliano. La vera arte è un lavoro di amore e gioia. Molta arte moderna invece s’è votata all’odio e alla profanazione, ma proprio per questo verrà dimenticata. Quando si guarda indietro al dopoguerra italiano, se ne trova l’anima nitidamente impressa nei film di Fellini, Antonioni e Pasolini, nella musica di Berio e Dallapiccola, negli scritti di Calvino e Moravia. E ci si renderà conto che gli italiani hanno ricevuto una benedizione».

Tito Livio



L’autocensura di Tito Livio tra le grinfie di Augusto

Duemila anni fa moriva l’autore padovano che ricostruì per intero la storia di Roma partendo dall’approdo di Enea nel Lazio. Forse credette davvero che Ottaviano avesse restaurato la Repubblica, di certo si piegò al suo volere. E per scrivere su fatti rec


La valutazione dell’opera di Augusto, come di altri facitori di storia, dividerà sempre gli storici. «Il devoto rispetto di Augusto per la libera costituzione, che aveva egli stesso distrutto, non si può spiegare che con un attento esame dell’opera di questo sagace tiranno» scrisse di lui Edward Gibbon. Il primo a conoscere la difficoltà di tramandare una accettabile immagine di sé fu Augusto stesso, proprio perciò attento controllore degli intellettuali e in particolare degli storici del suo tempo. Tito Livio, morto duemila anni fa, per sua ventura, fu uno di essi: anzi il più noto e forse il più importante.
Non è la condizione più favorevole, sul piano dell’imparzialità, quella di uno storico che deve narrare il passato più recente, e ancora bruciante, sotto il governo di colui che è risultato vincitore nella lotta appena conclusa. Si potrebbe dire che il «problema» Livio (59 a.C.-17 d.C.) è tutto lì. Un «provinciale» — un romano «recente» visto che la guerra dei socii contro Roma era finita meno di trent’anni prima della sua nascita —, nato a Padova, il municipium che nel 43 a.C. s’era schierato col Senato contro Antonio, approda a Roma, centro del potere, quando ormai Augusto è rimasto unico vincitore dell’interminabile ciclo delle guerre civili, e si avvicina alla corte fino a integrarsi in essa, divenendo per un bel po’ di tempo lo storico «ufficiale» del nuovo ordine.
Una bella contraddizione. Il punto di partenza sono i sentimenti «repubblicani», peraltro caratteristici dei municipia e in particolare di Padova. L’equivoco della «restaurazione repubblicana» di Augusto può aver contribui- to. Asinio Pollione, ex cesariano, ex antoniano, freddo con Augusto e cocciutamente intento a scrivere una storia delle guerre civili (un proposito che Orazio definì «un vero azzardo») definiva Livio — che non aveva in grande simpatia — «affetto da patavinità». Si può spiegare questa definizione in modo piuttosto semplice: Livio era uno di quelli che avranno creduto che la restaurazione repubblicana ostentata da Augusto ci fosse davvero stata. Asinio Pollione no.
Sta di fatto che Asinio si mise a scrivere — prima di Azio (31 a.C.) o non molto dopo — la storia recente sulla quale poi Augusto (nel 25 a.C.) fece calare la sua verità con i 13 libri di autobiografia ( Commentarii de vita sua), mentre Livio decise di cominciare da Romolo, anzi dall’arrivo di Enea nel Lazio. Materia tranquilla? Fino a un certo punto: basti pensare all’insopportabile finale del VI libro dell’Eneide. Comunque materia più tranquilla che raccontare il colpo di Stato di Ottaviano (poi Augusto) del 19 agosto 43 a.C. o la mattanza delle proscrizioni triumvirali da lui avallate, con brutale voltafaccia verso il Senato, nel dicembre dello stesso annus terribilis.
Nella prima deca, nei libri sulla storia antichissima, Livio «abbandona la leggenda solo per immergersi nel romanzo», ha scritto Ronald Syme in uno dei suoi saggi più riusciti ( Livy and Augustus, «Harvard Studies in Classical Philology», 1959). Si era giustificato di questa scelta, Livio, nella tutt’altro che serena praefatio (scritta ovviamente ben dopo il libro I), dicendo che aveva preferito indugiare a lungo nel racconto dell’antica virtù ritardando il più possibile il momento in cui avrebbe dovuto raccontare il tempo presente: tempo nel quale «non riusciamo a sopportare i nostri vizi e nemmeno i necessari rimedi». Ma anche la storia antichissima poteva rientrare nell’interesse politico-culturale del princeps, come ben sapeva Virgilio. Forse Livio non s’aspettava che Augusto intervenisse addirittura nella scrittura stessa dell’opera dando consigli che in fondo erano ordini. Di questo «interventismo» culturale del princeps sappiamo da Livio stesso in un passo del IV libro, che viene spesso ricordato. Vale la pena rievocare di che si tratta.
Livio aveva scritto, seguendo una tradizione consolidata, che oltre quattro secoli prima Cornelio Cosso, tribuno militare ( tribunus militum) avendo ucciso di suo pugno il re di Veio aveva dedicato le «spoglie opime» del vinto nel tempio di Giove Feretrio (437 a.C.). Nel 29 a.C. Marco Licinio Crasso (nipote del triumviro morto a Carre), avendo, quando era proconsole in Macedonia, trucidato con le sue mani il condottiero dei Bastarni, Deldone, voleva poter ripetere l’antico gesto. Augusto, pessimo generale, non sopportava la gloria militare di altri che magari potevano «montarsi la testa». Che cosa fece? Con procedimento tipico della sua ipocrisia, che strapperà parole di fuoco ad Edward Gibbon, segnalò a Livio che aveva sbagliato: c’era un’epigrafe (da lui Augusto personalmente ritrovata quando aveva fatto ricostruire il tempio di Giove Feretrio! Si vantò di averne fatti restaurare 82) attestante che Cornelio Cosso non era, quando sconfisse il re di Veio, tribunus militum, ma console. Il messaggio era che quell’onore che il giovane Crasso pretendeva spettava solo a consoli in carica, non a un proconsole. Livio si affrettò a registrare la rettifica, che infatti è incorporata in una sconcertante digressione del libro IV, e soggiunge che sarebbe stato «quasi un sacrilegio» non tener conto del documento evocato, sulla fiducia, da Augusto. Che però può essere stato un falso. Syme nota infatti che in pieno V secolo a.C. «il detentore del sommo comando militare (imperium) sarebbe stato sicuramente definito praetor, non consul ».
Ben altro successe più tardi. Procedendo nell’immane lavoro, Livio giunse a raccontare le vicende dell’anno 43 a.C., e quindi le proscrizioni (e quindi anche la morte violenta inflitta a Cicerone: la pagina sull’omicidio ci è stata salvata da Seneca padre in una Suasoria). Non era facile cavarsela; non tutti avevano la faziosità nutrita di servilismo di un Velleio Patercolo, storico cortigiano che aveva debuttato sotto Augusto e fatto carriera sotto Tiberio; Velleio giunse a scrivere che «Ottaviano si era invano, contro Antonio e Lepido, opposto alle proscrizioni». Al contrario, Seneca figlio (il filosofo) leggeva nell’opera storica rimasta inedita di suo padre che Ottaviano aveva scritto l’editto delle proscrizioni «a cena, sotto dettatura di Antonio». Livio non era Velleio. Nel libro CXX, che non è conservato (purtroppo si è persa tutta la parte recente dell’opera liviana) parlava unicamente di quella terrificante decimazione della classe dirigente «repubblicana». Ma il modo in cui ne parlò non piacque — a quanto pare — ad Augusto. Una notizia antica, tramandata con il riassunto del libro CXXI, dice laconicamente: «Questo libro (il CXXI) fu pubblicato dopo la morte di Augusto». La notizia illumina l’accaduto: evidentemente Livio decise di tacere dopo l’imbarazzante insuccesso del libro CXX. Riprese a pubblicare, o forse addirittura a scrivere, solo quando Augusto finalmente morì: nell’agosto del 14 d.C., nello stesso giorno in cui, 57 anni prima, «all’età di 19 anni», come si vanta, aveva attuato il colpo di Stato che lo aveva reso console e padrone della Repubblica che, pure, si era impegnato a servire.
Anche questo spiega perché Livio sia diventato un «classico» già per la generazione successiva. Quando nel 25 d.C., cioè appena otto anni dopo la morte di Livio, Cremuzio Cordo, senatore e storico repubblicaneggiante, venne deferito davanti al Senato (siamo sotto Tiberio e spadroneggia Seiano) per aver pubblicato libri elogiativi di Bruto e di Cassio («ultimo Romano», lo chiamava, cioè ultimo degno di essere definito tale), si difese invocando il precedente di Livio. «Tito Livio — disse Cremuzio davanti a un Senato di servi atterriti — che primeggiò per eloquenza e affidabilità, a tal punto, nella sua opera, aveva esaltato Gneo Pompeo che Augusto lo chiamava pompeiano». È Tacito che trascrive, o meglio rielabora, il discorso di Cremuzio. Ma possiamo credergli. Intorno a Cremuzio si era creato un vero e proprio «culto» repubblicano. In questo milieu la storia delle guerre civili era stata e continuava ad essere il grande tema incandescente. Quando Seneca si decise a pubblicare l’opera storica di suo padre, vi premise una introduzione nella quale diceva icasticamente — forse riprendendo una formula paterna — che «a partire dalle guerre» civili la veridicità degli storici aveva «incominciato a fare passi indietro». Tacito in apertura degli Annali dirà che il servilismo in campo storiografico aveva cominciato a diffondersi soprattutto con Tiberio, mentre «al racconto dei tempi di Augusto» non erano mancati «ingegni convenienti», che comunque non è un grande complimento. Non fa nomi ma sta di sicuro riferendosi (soprattutto) a Livio. Nel proemio delle Historiae invece era stato più severo: aveva scritto che, «già dopo Azio, quei grandi ingegni si erano fermati»; il che può anche significare che «avevano mostrato segni di cedimento». È evidente che un giudizio del genere investiva in pieno l’attività storiografica di Livio, appena ventottenne quando si combatté ad Azio.
In realtà l’adulatio era incominciata già sotto Augusto, e Tacito ben lo sapeva. Come sapeva che Augusto aveva esercitato la censura sulla storiografia in modi anche pesanti. Caso estremo quello di Labieno, che si era lasciato morire per protesta contro il rogo della sua opera ordinato da Augusto. Per non parlare della emarginazione di un cesariano della prima ora come Asinio Pollione o della cacciata del greco Timagene dalla casa del princeps: tutti episodi che ci sono noti da Seneca, che dal proprio padre aveva appreso molte verità scomode. Del resto non ci spiegheremmo il carattere catoniano-repubblicano del poema storiografico di Anneo Lucano sulla guerra civile ( Pharsalia) se non tenessimo conto della sua stretta parentela con il ceppo familiare repubblicano degli Annei, originari di Cordova e travolti nella repressione della congiura contro Nerone.
Livio aveva «navigato» in questo pelago. Molta parte della sua opera (gli ultimi dieci libri da CXXXIII a CXLII) riguardava il governo di Augusto ormai solo al potere, dopo Azio. Ma probabilmente quando mise in circolazione quei libri ormai Augusto era morto. Come mai, nei libri pubblicati vivente ancora il princeps, Livio era stato così freddo con Cesare e deferente verso Pompeo ai limiti della esaltazione? Su Cesare aveva espresso un giudizio raggelante: lo aveva paragonato al vento, del quale — precisava — è difficile dire se sia meglio che nasca o che non nasca. Per Pompeo invece i toni erano stati talmente diversi da meritargli (evidentemente nel corso di pubbliche letture a corte) l’epiteto di «pompeiano» da parte di Augusto, dietro la cui sorridente ironia bisognava spesso temere un’insidia. Ma era veramente una critica quella che Augusto così esprimeva? Detto da Ottaviano «capoparte» (per usare il titolo di un giustamente celebre libro di Mario Attilio Levi) quell’epiteto sarebbe suonato come una critica aspra: nello scontro delle fazioni o si sta da una parte o dall’altra. Ma detto da Augusto ormai princeps (capace persino di recuperare Cicerone e farne il proprio profeta e annunciatore) quel giudizio aveva un altro senso. Ormai il «padre» suo adottivo — cui doveva tutto, secondo una celebre battuta di Antonio — recedeva sempre più nello sfondo: Cesare, l’eversore, si era mosso contro la Repubblica, contro il clan politico-familiare dei Marcelli, con cui Augusto si era imparentato, addirittura puntando su di un erede (il Marcellus su cui si chiude, nell’Ade, il VI dell’Eneide). Preferiva ormai apparire, piuttosto, come colui che aveva realizzato finalmente il disegno, abortito, di Pompeo: princeps in republica, come Cicerone, ormai convinto della inevitabilità di un potere personale, lo aveva immaginato. E dunque un Livio «pompeiano» non era affatto sgradito. Forse Cremuzio Cordo non se ne era reso conto.

Uomo arcaico

L’uomo era violentissimo. Ma oggi meno

È noto da tempo che le scimmie antropomorfe sono più aggressive dei grandi predatori. Ora sappiamo che all’origine della nostra evoluzione culturale noi eravamo sei volte più letali di un mammifero medio. Poi tutto è cambiato. Ecco perché
Noi uomini siamo particolarmente aggressivi e violenti come specie biologica, o relativamente mansueti e pacifici? E la violenza ci viene dalla natura, come sosteneva, tra gli altri, Thomas Hobbes, o dalla società, come sosteneva Jean-Jacques Rousseau, e più di recente la maggior parte degli intellettuali moderni, che ne attribuiscono almeno in parte la colpa alla cupidigia e allo spirito del capitalismo? Sembra insita nell’essere umano la presunzione di rispondere a tali domande semplicemente argomentando, come ha fatto per secoli con lo strascico di interminabili dispute, e come tende a fare anche oggi, basandosi quasi sempre sul nulla, spesso ferocemente sostenuto e difeso. Ma nel frattempo è nata la scienza con il suo apparato teorico e sperimentale, che consiste essenzialmente nel definire con precisione i termini del discorso, nel fare osservazioni il più estese e accurate possibili, concepire ipotesi e verificarle sul campo, misurando e confrontando, se necessario.
Ed ecco che della questione esposta si è occupata recentemente la rivista «Nature» pubblicando un poderoso studio che riunisce dati biologici su un migliaio di specie di mammiferi, rappresentative dell’80% delle famiglie totali, e dati biologici e storici sulla nostra specie, e scegliendo di analizzare un particolare tipo di violenza, la cosiddetta «violenza letale», cioè gli episodi avvenuti fra individui della stessa specie che conducono alla morte di almeno un individuo, cioè a un assassinio.
Dal punto di vista biologico il risultato è chiaro. All’origine della loro evoluzione culturale gli esseri umani sono stati sei volte più violenti di un mammifero medio e perfettamente in linea con i valori osservati per i primati superiori, cioè le scimmie antropomorfe — gorilla, orango, scimpanzé e bonobo — che rappresentano le specie a noi più vicine e quelle dalle quali ci siamo separati in tempi più recenti. Nei circa cento milioni di anni di evoluzione dei mammiferi, la quantità di violenza letale è sempre aumentata, dallo 0,3% iniziale all’1,1% all’origine dei primati e all’1,8% all’origine dei primati superiori, per attestarsi intorno al 2% dei primi uomini. I valori percentuali sono riferiti al totale di tutte le forme di morte. Nelle specie che mostrano valori più bassi di violenza letale si può osservare spesso un più alto tasso di «ritualizzazione» dei combattimenti. Tali ritualizzazioni conducono infatti a risparmiare molte vite, pur nel quadro di un’alta conflittualità.
Potrà stupire il fatto che le scimmie antropomorfe siano più aggressive di altre specie, per esempio dei leoni o dei cosiddetti grandi predatori, ma si tratta di un dato noto da tempo. Tra di loro le grandi scimmie sono molto più aggressive dei grandi felini. Una delle possibili spiegazioni di tale osservazione è l’aumento nei millenni dell’incidenza della vita di gruppo e della difesa del territorio nei mammiferi. La vita di gruppo mette i vari individui quasi sempre a stretto contatto tra di loro e la territorialità implica che i diversi gruppi possano competere per l’utilizzazione delle diverse risorse disponibili. Le specie che hanno uno stile di vita solitario e un minor senso del territorio mostrano tassi più bassi di violenza letale.
È chiaro che la stima dei diversi parametri in gioco richiede molta attenzione e può prestare il fianco a molte critiche. Gli autori dello studio fanno notare però che i dati raccolti per le diverse specie non si discostano molto da quello che ci si sarebbe potuto aspettare sulla base di dirette osservazioni naturalistiche. Mostrano inoltre che la propensione per questo tipo di violenza sembra avere una grossa componente ereditaria, almeno tra le varie specie dei mammiferi, perché specie geneticamente più vicine mostrano valori più simili di quelli di specie imparentate più alla larga, anche se la genetica non è ovviamente l’unico fattore ed esistono molte condizioni esterne che possono alzare o abbassare questi dati di base.
Per quanto riguarda noi esseri umani, all’inizio della nostra evoluzione culturale, eravamo piuttosto aggressivi e in linea con i valori mostrati dai nostri cugini scimmioni. Poi le cose sono molto cam- biate, drammaticamente direi, con alti e bassi che non possono essere certo spiegati con cambiamenti di natura genetica, ma piuttosto con le particolari condizioni al contorno. All’epoca dell’organizzazione in bande di incursori, nella fase detta convenzionalmente dei «cacciatori-raccoglitori», la violenza è salita di molto — anche al 30% — perché tali bande erano impegnate in continui combattimenti. Al momento invece, il tasso della nostra violenza letale è molto basso, ben 200 volte più basso di quello dei nostri antenati del Paleolitico.
Adesso siamo, almeno momentaneamente, una specie piuttosto tranquilla, anche se sempre suscettibile di improvvisi scoppi di aggressività e di crudeltà, come peraltro ben sappiamo. Questo significa che l’educazione, ma soprattutto l’invenzione di elaborate forme e assetti sociali, sono stati fattori di capitale importanza nel trattenerci dalla nostra innata furia omicida. La società è repressiva, si dice spesso, ma si tratta generalmente parlando di un’opera benedetta e di vasta portata, pur con grandi oscillazioni nel tempo e nello spazio. Se ci dimentichiamo le improbabili affermazioni secondo le quali gli esseri umani sono buoni di natura, non possiamo che essere fieri del cammino che abbiamo percorso nei millenni e in particolare negli ultimi secoli. Questo nonostante molti siano oggi convinti di vivere in una delle epoche più buie della storia.
Anche senza prendere in considerazione casi estremi e difficilmente interpretabili, il cammino della civiltà si presenta particolarmente ondivago e risente di diversi fattori, prime fra tutti la frammentazione del potere e le dimensioni delle formazioni sociali omogenee. La progressiva centralizzazione del potere esecutivo ha certamente influito positivamente nel ridurre la conflittualità fra gruppi sociali diversi, come ha influito la diffusione dell’istruzione e la codificazione dei principi del diritto che hanno portato alla formalizzazione dell’amministrazione di quella che noi chiamiamo giustizia. Questo è certamente migliorabile, ma tutto è sempre migliorabile. Molte analisi sociologiche e antropologiche contemporanee sembrano convergere su una interpretazione socio-politicagiuridica. La monopolizzazione da parte dello Stato dell’esercizio della giustizia e dell’uso «legittimo» della violenza appare il fattore fondamentale di quel processo che nel tempo ha abbassato la nostra aggressività intraspecifica e che ci ha per così dire «pacificati».
In conclusione, lo studio di cui stiamo parlando implica molto lavoro, ma le sue conclusioni sono in fondo lineari, anche se siamo sicuri che susciterà molte obiezioni da chi ama parlare. Rimangono però anche interrogativi scientifici che occorrerà affrontare, primo fra tutti il significato e la valenza dell’aumento di violenza letale nella linea evolutiva delle grandi scimmie e a quale altra loro caratteristica tutto ciò si accompagna. Sappiamo infatti che non esiste cambiamento genetico rilevante che abbia un unico effetto. Vale la pena infine rilevare come l’introduzione di misurazioni e valori numerici affidabili, può rendere abbordabili molte questioni precedentemente irrisolte e come sia fuor di luogo parlare di natura e di fatti di natura senza averli prima accuratamente studiati.

Sant'Agostino


Agostino oltre le «Confessioni»


La carriera d’insegnante e i conflitti con gli studenti, l’incontro con Ambrogio e il battesimo a Milano, la rinuncia ai beni e l’incarico di vescovo. Klaus Rosen racconta l’uomo nella sua epoca, non il maestro senza tempo
Sc r i ve re una bi ografi a di s a nt’Agostino è un impegno agevole e, al tempo stesso, oltremodo complicato. Nelle sue opere, Agostino offre una quantità rilevante di informazioni autobiografiche, a partire dalla descrizione nelle Confessioni dei suoi primi trent’anni circa di vita, culminati nella conversione e nel battesimo da parte di sant’Ambrogio. Si aggiunge poi la biografia che immediatamente dopo la morte, avvenuta nel 430, gli dedicò Possidio, suo amico e confratello vescovo. Questi curò anche un elenco ragionato di tutti gli scritti agostiniani, dalle omelie alle lettere, passando in rassegna tutte le altre opere e completando così il lavoro di revisione della sua immensa produzione, che Agostino stesso aveva iniziato nei due libri di Ritrattazioni, in cui ripercorreva i suoi scritti principali secondo l’ordine cronologico in cui li aveva composti, puntualizzava l’evoluzione del suo pensiero e correggeva minuziosamente errori o imprecisioni che vi aveva riscontrato. Per dare un’idea delle dimensioni della produzione agostiniana, le Ritrattazioni ricordano una novantina di titoli, per un totale di oltre duecento libri (il libro corrispondeva a una misura standard di materiale scrittorio, per cui la stessa opera si poteva estendere per più libri a seconda della sua lunghezza); Possidio, invece, elenca oltre un migliaio di scritti diversi, ma ammette di non essere riuscito a risultare del tutto completo.
Di fronte a questa mole di informazioni, il rischio per il biografo è quello di farsi condizionare dal taglio con cui lo stesso Agostino ricostruisce il suo percorso intellettuale e spirituale. Particolarmente insidiose risultano a questo riguardo le Confessioni, che rileggono la giovinezza dell’autore come una vicenda paradigmatica dell’agire provvidenziale di Dio in vista della salvezza del singolo e dell’umanità. Per questo, Agostino si sofferma a lungo su episodi e dettagli apparentemente marginali, mentre tralascia di fornire informazioni su avvenimenti e scelte che dovettero risultare di notevole impatto su di lui e sui suoi contemporanei. Ancora, la maggior parte delle ricostruzioni biografiche, antiche e moderne, si concentra sulla dimensione intellettuale e speculativa della vicenda di Agostino, considerato l’immenso influsso da lui esercitato sugli sviluppi del pensiero teologico e filosofico dell’Occidente: solo per fare un esempio, è a lui che dobbiamo l’espressione «penseguenze per tutta l’umanità.
Klaus Rosen, che è stato a lungo professore di storia romana all’Università di Pretoria in Sud Africa prima di terminare la sua carriera in Germania, offre una biografia di Agostino che, grazie alla particolare chiave di lettura scelta, riesce a sfuggire ad entrambi i rischi ora evidenziati. Rosen si concentra piuttosto sugli avvenimenti storici e gli influssi culturali che con ogni probabilità plasmarono Agostino, la sua dimensione privata e la sua proiezione pubblica, al di là di quanto lo stesso santo voglia ammettere o lasci comunque trasparire nei suoi accenni autobiografici. In questo senso, ad esempio Rosen colloca le informazioni contenute nelle Confessioni sullo sfondo della legislazione e dei ripetuti interventi politico-amministrativi che regolavano la vita degli studenti nelle città di provincia, come Tagaste, Madaura e Cartagine, dove studiò il giovane Agostino, come pure quella di professori e studenti nella capi- tale, Roma, dove invece la sua carriera di insegnante di retorica prese slancio, tra studenti indisciplinati e pagatori ancora peggiori. A Roma Agostino partecipò a un vero e proprio concorso per ottenere il posto di insegnante di retorica a Milano, dove allora risiedeva l’imperatore; tra le altre cose, la vittoria gli garantì il considerevole stipendio che era stato stabilito per legge nel 376 dall’imperatore Graziano per tutti gli insegnanti pubblici. Ovviamente il trasferimento a Milano nel 384 risultò decisivo per l’incontro con Ambrogio e la conversione, culminata nel battesimo di Agostino nella notte di Pasqua del 387.
Anche per il periodo successivo al ritorno in Africa, che vede lo sviluppo della carriera di Agostino come vescovo, scrittore e teologo, Rosen fornisce un ampio quadro di riferimento storico, entro cui devono essere collocati i molteplici riferimenti biografici sparsi nelle opere agostiniane. Quale filo conduttore, le Confessioni sono ora sostituite dalla biografia di Possidio, che prima di diventare a sua volta vescovo di Calama in Numidia, fu compagno di Agostino nel monastero da questi fondato accanto alla cattedrale di Ippona. Pure in questo caso, Rosen mette ad esempio in luce come la rinuncia ai propri beni da parte di Agostino a motivo della scelta monastica comportasse l’esenzione dai doveri civici e da ogni altra corvée mondana, che di per sé era concessa solo al clero ordinato, di cui Agostino entrerà a far parte solo in seguito e forse controvoglia. Insomma, una biografia di Agostino nel suo tempo, al di là dell’ombra intellettuale proiettata sui secoli a venire.

IL PANE

  Maurizio Di Fazio per il  “Fatto quotidiano”   STORIA DEL PANE. UN VIAGGIO DALL’ODISSEA ALLE GUERRE DEL XXI SECOLO Da Omero che ci eternò ...