sabato 31 dicembre 2016

Aristotele contro l'Isis




Globalizzazione e capitalismo, colpe dell’America e religione Perché il dibattito sulle cause non regge a un’analisi filosofica

Dal 1945 si sono succedute tre ondate di terrorismo di origine mediorientale: quella legata, ad esempio, a Settembre nero; Al Qaeda; lo Stato islamico. Per comprendere gli scenari dobbiamo tornare al pensatore greco
Nel caldo estivo, in vacanza sui monti ungheresi, una delle più grandi voci contemporanee decide di trascorrere il suo tempo mettendosi al lavoro per aiutare gli studi di una ricercatrice universitaria interessata a indagare i falsi ragionamenti sul fondamentalismo e sul terrorismo di matrice islamica. È accaduto proprio così con Ágnes Heller, filosofa ungherese nata nel 1929, esponente della «Scuola di Budapest», una corrente filosofica del cosiddetto «dissenso dei Paesi dell’Est europeo». La Heller è stata anche allieva e assistente del filosofo e critico letterario György Lukács, rappresentante del marxismo umanistico.
Nella Heller si ritrova tutta l’attenzione all’umanità fragile ma onesta, quella di cui parla anche nella Bellezza della persona buona (Diabasis), quando propone di ritornare alla categoria classica di unione fra Bello e Buono che così violentemente è stata scissa dalla filosofia moderna. La brutalità dell’età postmoderna, continuamente in ansia per la precarietà del quotidiano a causa del terrore che colpisce ovunque, segnala, secondo la Heller, la necessità di un individuo che manifesti le sue azioni buone, affinché queste azioni, una volta evidenti, espandano vera bellezza. Nei successivi dialoghi con Ágnes Heller, da Budapest, abbiamo parlato di un’umanità che sente l’esigenza dei grandi gesti di Papa Francesco, come quello in cui si è posto in contemplazione silenziosa dinanzi al campo di sterminio di Auschwitz. Occorre tornare a un metodo di discernimento aristotelico, srotolare le varie argomentazioni e rendersi conto, con spirito critico, di quanti errori di ragionamento ci portiamo dietro. Abbiamo la necessità di un Aristotele che ci aiuti a leggere la realtà.
La riflessione è questa, ma fatta con la competenza di una delle più autorevoli voci della cultura europea, che in passato ha dedicato alcune sue pagine, quasi del tutto ignote in Italia, ad Aristotele e al mondo greco (un piccolo scritto che andrebbe tradotto e pubblicato per la sua bellezza). La filosofa sarà ospite della Società Filosofica di Verbania il 7 settembre per parlare delle grandi utopie dei nostri tempi.
La Heller ha voluto proporre un testo, ragionato negli anni e aggiornato nei giorni scorsi, al pubblico de «la Lettura», anche per consentirci di comprendere, da questo scenario di terrore, a quale idea di progresso andiamo incontro. Di recente è stato pubblicato il volume di Carlo Altini Progresso (Edizioni della Normale), che ci aiuta a riflettere su questa categoria moderna che non si lega esclusivamente al ciclo naturale della vita, ma è indirizzata al perfezionamento del genere umano.
Ora, che cosa può accadere al «progresso», se da un processo di autoaffermazione della ragione ci si ritrova nello spazio vuoto dei fondamentalismi? E la filosofia che ruolo dovrebbe avere? A questa domanda la Heller ha risposto affermando che la filosofia oggi appare indebolita nel suo ruolo di formazione della coscienza civile: per alcuni sta diventando un gioco. Eppure ha ribadito: «Non diventerà mai uno svago come alcuni vorrebbero. Sarà sempre potente, farà sempre paura ai fondamentalismi. Questo però non vuol dire che i filosofi possono dar vita a una visione o a una moralità di Stato, altrimenti si darebbe origine all’intolleranza e a un’altra forma di terrore, quella promossa dagli intellettuali. Nelle nostre democrazie non potrà mai più tornare una moralità di Stato come accadde con Robespierre, il quale immaginava un’unica morale per tutto il popolo francese. Non è quello il compito della filosofia e della politica; inoltre la volontà giacobina non aveva nulla a che fare con lo Stato immaginato da Platone: un’utopia reazionaria più che rivoluzionaria». L’invito della Heller, oggi come ieri, è quello di mantenersi più fedeli alla linea aristotelica anche per la morale: rispettare in questo campo il dovere dell’immanenza.
Quando mi trovai a vivere da vicino l’11 settembre, mi dedicai ad analizzare questa nuova ondata di terrorismo dopo la Seconda guerra mondiale. La prima ondata aveva caratterizzato gli anni Settanta con diversi dirottamenti aerei e altri atti terroristici, per esempio, da parte dei palestinesi di Settembre nero. La terza ondata, quella odierna, riguarda l’Isis e si differenzia da quelle precedenti (per esempio da Al Qaeda) per due motivi. In primo luogo, i terroristi conducono una guerra su un vasto territorio, che pretendono di identificare come «Stato» e che loro stessi chiamano «islamico». In secondo luogo, identificano la loro ideologia totalitaria come una sorta di fondamentalismo islamico. È da questa terra che essi stabiliscono i loro nemici: tutte le altre religioni, inclusa una parte dell’islam, e la «cultura occidentale totalmente marcia». In questo modo l’Isis crede di avere diritto a compiere atti terroristici in ogni momento e ovunque, colpendo per primi gli Stati europei più vulnerabili, come la Francia e il Belgio.
Questi Stati sono i più esposti perché la loro popolazione musulmana è un terreno fertile di radicalizzazione. I terroristi di oggi sono anche sul suolo europeo, ma questo purtroppo genera molta confusio- ne, poiché alcuni politici (che devono preoccupare molto noi cittadini) parlano dei rifugiati come se fossero terroristi. Questa correlazione è il frutto di un modo di accostarsi alla realtà approssimativo e ignorante. Per quanto ne so, nessun profugo siriano ha preso parte agli attacchi terroristici più letali. Sarebbe una vergogna per l’Europa negare ospitalità a uomini e donne sopravvissuti alla violenza, accusandoli di violenze che non hanno mai commesso!
I fatti di queste ore ci stanno mostrando che l’Isis sarà sconfitto presto. Ma il terrorismo non lo sarà affatto. I totalitarismi riappaiono con nuove ideologie, propagandate da Stati, da movimenti e da gruppi. Il mondo è sempre stato un luogo pericoloso e lo è ancora.
Alcuni anni fa, scrivendo un testo per Oxford, dopo aver assistito direttamente all’ondata del secondo terrorismo — quella seguita agli attacchi alle Torri gemelle — ho provato a enucleare degli elementi critici per cercare di capire le radici del fenomeno e smascherare i falsi ragionamenti in materia. Quello che oggi vediamo ai confini con la Turchia, in Iraq, gli scenari in Libia, tutto questo fa parte di un mondo diverso dalla prima ondata di terrorismo e dalla seconda. Ci fa gioire l’arretramento dell’Isis, ma non capiamo quali scenari di terrore si possono aprire, quali si stanno chiudendo, in che cosa vanno a confluire.
Quando si parla di terrorismo, generalmente, si gira intorno sempre ai soliti argomenti. In primo luogo c’è la questione della «globalizzazione», cioè la distribuzione scandalosamente diseguale dei beni, il crescente divario tra ricchi e poveri e la povertà nel mondo, che rende furiose le persone svantaggiate. Il terrore, per alcuni, è una risposta alle ingiustizie, proprio come hanno mostrato le argomentazioni portate nelle grandi manifestazioni di Seattle o di Genova di qualche anno fa. È ovviamente, aggiungono, una risposta insensata.
Potremmo aggirare il terrorismo, dicono alcuni, soltanto ponendo fine alla globalizzazione, rompendo il potere del business internazionale e provando a ripristinare i mercati locali. Inoltre il terrorismo è una risposta al capitalismo, dicono altri, e si tratta di un assurdo «sistema» anticapitalista (anche se è clamorosamente sbagliato). Il capitalismo distrugge le forme tradizionali di vita, la religione e la morale. È edonista e decadente. Avvelena l’ambiente. Partendo da questo punto di vista, l’idea è che si possa porre fine al terrore con l’introduzione di tecnologie alternative.
In secondo luogo, vi è un altro argomento usato spesso: «L’America colpevole». Quest’argomentazione è buona per tutte le stagioni. Si dice: a) l’America è stata sempre storicamente colpevole, in particolare nelle sue relazioni con il mondo arabo e musulmano, che è stato costantemente umiliato dagli Stati Uniti. L’America, infatti, volle difendere in passato i dittatori militari del Pakistan; volle sostenere i fondamentalisti (Bin Laden compreso) in Afghanistan contro i sovietici; condusse un’indimenticabile (in negativo) guerra contro l’Iraq; continua ad aiutare i regimi reazionari del mondo arabo e non ha mai smesso di supportare Israele contro i palestinesi. Inoltre: b) l’America è fonte di abominio morale, poiché tollera l’omosessualità, l’amoralità delle donne, la droga, l’alcolismo e favorisce la cultura di massa.
In terzo luogo, c ’è l’argomento del «fondamentalismo islamico». Questo ragionamento è molto complesso, anche alla luce di ciò che fu Al Qaeda e di ciò che è l’Isis. Questo argomento presuppone che la guerra principale nella modernità sia una guerra culturale. Le culture europee e quelle musulmane non possono coesiste-
re. L’islam è inferiore alla cultura europea, ma sostiene, dal canto suo, di essere superiore. La furia, il risentimento e l’odio dell’islam sono componenti essenziali degli attacchi terroristici.
Nessuno degli argomenti appena citati spiega davvero gli atti terroristici, perché non è corretto partire esclusivamente con l’enumerazione delle cause. Cioè, spiegano l’evento (che è l’attacco terroristico), un evento contingente, con le sue cause sufficienti. Questo procedimento è ovviamente una sciocchezza filosofica, già ripudiata da Aristotele nella Metafisica. Anche se si potessero enumerare le cause sufficienti di un evento storico, cosa peraltro impossibile, l’evento rimarrebbe ancora contingente e del tutto non-com- preso. Aristotele diceva che uno ha bisogno di conoscere la causa finale e la causa formale, vale a dire l’essenza e la funzione di qualcosa, al fine di spiegare o di capire.
Le diverse argomentazioni appena fornite dunque non reggono. Aristotele le avrebbe subito confutate. Ad esempio, dubito che la globalizzazione sia responsabile di tutti questi mali. Il divario tra Paesi poveri e ricchi è davvero un problema generale ed è per questo che dovrebbe essere affrontato a livello globale — e non anti-globale. È evidente che solo una sorta di politica democratica e di redistribuzione sociale sarebbe in grado di affrontare la questione, anche se con una minima speranza di successo. Inoltre, non i poveri, ma alcuni tra i più ricchi sono le menti dietro il terrorismo globale e anche quelli che eseguono materialmente gli attacchi sono spesso figli delle classi medie.
Ora, che il capitalismo distrugge molte precedenti forme di vita è vero. Ad esempio, distrugge le monarchie tradizionali, le aristocrazie tradizionali, oltre che l’autosufficienza del mondo rurale. Eppure, se si getta uno sguardo attento ai leader e ai membri delle organizzazioni terroristiche, soprattutto al secondo tipo di terrorismo — quello seguito all’11 settembre —, si resta immediatamente colpiti nel notare che essi sono i veri beneficiari del capitalismo: essi devono la loro posizione alla decostruzione delle strutture tradizionali. Andando con la mente un po’ indietro negli anni, non credo che abbiamo dimenticato il fatto che il padre di Bin Laden, ad esempio, non era un principe o il figlio di un principe, ma un self-made man, un borghese, come lo era Atta, numero tre del terrorismo globale, protagonista degli attentati del 2001.
In una fase precedente, i migliori amici dei terroristi erano i dittatori, come quelli della Siria, dell’Iraq e della Libia. All’epoca gli attentatori erano leninisti, cioè fondamentalisti laici (e alcuni di loro lo sono ancora); oggi sono diventati quasi tutti musulmani fondamentalisti, compresi i terroristi del terzo tipo fra cui inseriamo l’Isis. Dalla nostra prospettiva attuale però è lo stesso, non cambia niente. C’è il fondamentalismo solo quando non ci sono più fondamenti.
Ovviamente anche l’argomentazione dell’America colpevole può essere tranquillamente confutata (e l’ho fatto dettagliatamente in altre sedi).
Ma cos’è il fondamentalismo alla base del terrorismo? Veniamo alla concretezza di Aristotele. Bisogna procedere in maniera logica e non avventurarsi in previsioni. Non sappiamo che tipo di estremismo si manifesterà in futuro. Ora dobbiamo affrontare la virulenza dell’Isis, che come tutti i terrorismi ha un nemico comune: non è il capitalismo, né è la tecnologia moderna. È la democrazia liberale, con i diritti umani e la laicità. Con laicità intendo la possibilità di scegliere tra avere una fede e non averla. Il nemico insito nella democrazia e nella laicità è la libertà. La modernità si basa sulla libertà, ma essa è un fondamento che non rientra nei fondamentalismi. In libertà si può optare di andare contro la libertà, si può scegliere liberamente la non-libertà. Tale è la scelta dei fondamentalisti. Essi non rinunciano alla modernità; essi non rinunciano al capitalismo o alla tecnologia moderna, anzi l’Isis ne fa uno strumento di potere. Rinunciano alla libertà e ai valori dell’Illuminismo. Il fondamentalismo è un fenomeno moderno, offre fondamenti in un mondo dove non ce ne sono. Ma i fondamentalismi sono presenti ovunque nel mondo moderno, anche tra i liberali. Il fondamentalismo appartiene anche alla storia (passata e presente) degli Stati Uniti. Un sistema chiuso di credenze (laiche o religiose) è un presupposto del terrorismo moderno, ma è solo uno tra i tanti.
La seconda condizione è un’organizzazione totalitaria. L’organizzazione totalitaria è stata inventata da Lenin nel 1903, al Congresso del Partito socialdemocratico russo in cui fondò la fazione bolscevica. Lenin creò un sistema-partito capace di operare come un esercito. Il centro emette comandi e ogni unità gerarchicamente strutturata dell’organizzazione, a tutti i livelli, obbedisce. Un tale partito, ha sostenuto Lenin, è in grado di operare in modo sicuro e underground, illegalmente. L’organizzazione è una totalità, perché si basa su una verità condivisa. Nella visione di Lenin, ogni membro deve accettare l’insegnamento marxista come la Verità assoluta. Egli ha aggiunto altre due caratteristiche importanti per l’immagine del suo potere. La democrazia e il liberalismo sono nemici assoluti, tra le altre ragioni, perché i liberali parlano soltanto di ideali, mentre i rivoluzionari sanno e devono agire. Il partito totalitario di Lenin è stato, infatti, una invenzione completamente nuova, ed è diventato, nella storia, il modello per i totalitarismi e i fondamentalismi successivi, come i partiti comunisti dell’Europa o dell’Asia, il nazismo e i partiti fascisti in Europa, in Medio Oriente e in America Latina.
È terribilmente difficile oggi per noi — con gli scenari complicati e le reti complesse del terrorismo — barcamenarci tra il fondamentalismo e il nichilismo, tra il fanatismo e il cinismo, tra le visioni del mondo completamente chiuse e il relativismo totale. Non v’è dubbio però che una solida base per il terrorismo è una visione nichilista del mondo e dell’umanità. Perché abbiamo — noi democratici e liberali — la necessità di scusarci per essere assolutamente convinti che la possibilità aperta per una navigazione in un mondo più rispettoso dei diritti individuali è il tesoro della vita moderna? Perché abbiamo così spesso bisogno di rifuggire dal dire semplicemente «no!», in modo non sofisticato e intellettualistico, ogni volta che questo tesoro, come la democrazia e la libertà, diventa un bersaglio di chi sceglie l’odio, ogni volta che redentori autoproclamati cercano di distruggere questi valori?

Come risposta alla sfida del terrore globale possiamo ancora una volta tornare all’Illuminismo. Di fronte a un atto di omicidio motivato da fanatismo religioso, Voltaire si rivolse ai suoi connazionali con l’ingiunzione: «Écrasez l’infâme!», schiacciate l’infame.

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