sabato 31 dicembre 2016

Aristotele contro Hawking

La filosofia serve alla scienza?
di Carlo Rovelli
Alcuni mesi fa mi è stato chiesto di tenere una conferenza alla London School of Economics, in Gran Bretagna, sul tema: Serve la filosofia alla scienza? . La conferenza doveva chiudere il congresso europeo di filosofia della fisica, e implicitamente rispondere a una serie di recenti commenti pubblici molto negativi sulla filosofia, da parte di miei colleghi assai noti: Stephen Hawking, per esempio, ha scritto che la filosofia è morta perché ora abbiamo la scienza; e un capitolo di un libro del premio Nobel Steven Weinberg si intitola appunto Contro la filosofia . Ho accettato. Per simpatia verso i filosofi. Senza sapere bene che cosa avrei detto. E ho cominciato a studiare. Ma sono incappato in un colpo di fortuna. Come un ragazzino che copia un compito difficile, ho trovato il tema già svolto in maniera eccellente in un inedito di un giovane senza dubbio molto più bravo di me: Aristotele.
Nel IV secolo prima dell’era volgare, all’Accademia di Platone studiavano rampolli delle migliori famiglie ateniesi. Ma l’Accademia non era l’unica scuola della città. Altre scuole ne contendevano il primato e fra queste eccelleva quella di Isocrate. Fra la scuola di Platone e quella di Isocrate vi era fiera rivalità. Non tanto sulla qualità, quanto sul metodo. L’educazione all’Accademia era basata sulle idee di Platone, che riteneva che di ogni cosa fosse opportuno studiare i fondamenti. Non imparare a fare i giudici, scolpire statue o governare città, ma chiedersi che cosa siano giustizia, bellezza, o la città ideale. Platone aveva trovato un nome destinato a lungo destino, per questo modo originale di educare i giovani e sviluppare conoscenza: l’aveva chiamava, appunto, «filosofia».
Isocrate, dal canto suo, riteneva questo approccio «filosofico» al sapere inutile e infruttuoso. Scrive per esempio: «Coloro che fanno filosofia magari qualcosa sanno fare, ma in ogni caso molto peggio di chi prende parte direttamente alle attività pratiche. Chi invece non si occupa di argomenti filosofici ed è educato direttamente in un’attività pratica, risulta in ogni caso migliore. Quindi per le arti e le scienze la filosofia è del tutto inutile». Più o meno, sono le stesse parole usate da Hawking e da Weinberg per criticare la filosofia, oggi.
A queste critiche, risponde un giovane brillante studente dell’Accademia: Aristotele, appunto. La risposta, in forma di dialogo, lo stile di Platone, è intitolata Protrepticus, che significa più o meno «invito» (alla filosofia). Aristotele risponde alle critiche di Isocrate e discute perché la filosofia, lo studio dei fondamenti e dei concetti astratti, sia utile alle arti e alle scienze concrete. Il tema della mia conferenza.
Il Protrepticus era un testo ben conosciuto nell’antichità, citato da molti autori. Fino a poco tempo fa era considerato perduto. Di Aristotele ci resta un corpus di opere consistente, ma tutte molto più tarde, scritte dopo che Aristotele lascia l’Accademia e Atene, passa del tempo sull’isola di Lesbo, studiando pesci e altri animali, e fondando la biologia, si occupa di fare da tutore al giovane futuro padrone del mondo, Alessandro Magno, e alla sua banda di amici che più tardi si divideranno l’impero e formeranno le famiglie regnanti del mondo ellenistico (riempiendolo di idee e valori aristotelici); e infine torna ad Atene, dove apre la sua scuola, il Liceo.
I testi di Aristotele che ci restano sono probabilmente manuali del Liceo, nessuno in forma di dialogo. Il dialogo giovanile sull’utilità della filosofia, il Protrepticus, invece, si è perso nell’immenso disastro culturale che è stata la cristianizzazione dell’impero, con la distruzione sistematica e brutale del sapere pagano, iniziata con i decreti dell’imperatore Teodosio nel IV secolo (con la conseguente distruzione della biblioteca di Alessandria, probabilmente dovuta al patriarca Teofilo e al suo successore Cirillo, santo) e continuata fino a Giustiniano, che nel 529 ad Atene chiude l’ultima incarnazione dell’Accademia.
O almeno, pensavamo che il Protrepticus fosse perso. Diversi sono i tentativi di ricostruirlo sulla base dei frammenti. In Italia il Professor Enrico Berti dell’Università di Padova ne ha pubblicato una ricostruzione presso la UTET. Recentemente, due studiosi americani, Douglas Hutchinson, dell’Università di Toronto, e Monte Ransome Johnson, dell’Università della California a San Diego, lo stanno ricostruendo in forma di dialogo, e ritengono di esservi già parzialmente riusciti. La ricostruzione è basata principalmente su un esteso testo di Giamblico, autore greco della tarda antichità (250-330 d.C. circa). Giamblico copia sistematicamente intere pagine dell’autore di cui sta esponendo le idee, e questo ha permesso a Johnson e Hutchinson di estrarre dai suoi testi una plausibile ricostruzione del dialogo di Aristotele. Il testo è online, a disposizione di tutti (Aristotle’s Protrepticus, http://www.protrepticus.info).
Un po’ per gioco e un po’ per curiosità ho provato a leggerlo. Ed è stata una sorpresa: gli argomenti di Aristotele sull’utilità della filosofia per la scienza sono attuali. Per la mia conferenza, bastava copiarli e aggiornarli un po’.
Il primo argomento è il più divertente, ma è sottile. Coloro che criticano l’utilità della filosofia per le scienze — nota Aristotele — non stanno facendo scienza: stanno facendo filosofia. Quando Hawking e Weinberg scrivono che la filosofia è inutile alla scienza, non stanno risolvendo un problema di fisica: stanno riflettendo su cosa sia utile, quale metodologia e struttura concettuale siano opportune, per fare scienza. Riflettere su questo è ciò che fa la filosofia. Lo stesso atteggiamento spavaldamente pragmatico e «anti-filosofico» di Hawking e Weinberg ha origine proprio nella filosofia. Lo si può facilmente far risalire ai filosofi della scienza che hanno influenzato quella generazione di scienziati: il positivismo logico, con la sua retorica anti-metafisica, poi Karl Popper e Thomas Kuhn. Hawking e Weinberg enunciano idee che provengono dalla filosofia della scienza. E neanche idee aggiornate, perché nel frattempo la filosofia della scienza ha fatto utili passi avanti…
Il secondo argomento di Aristotele è il più diretto: l’analisi dei fondamenti ha di fatto influenza sulla scienza. Se nel IV secolo questo poteva forse essere un auspicio, oggi è un’evidenza storica: l’influenza del pensiero filosofico sulla migliore scienza occidentale è stata pesante e persistente: Isaac Newton non sarebbe esistito senza René Descartes, Albert Einstein ha imparato direttamente da Gottfried Wilhelm von Leibniz, George Berkeley ed Ernst Mach, e dai testi filosofici di Henri Poincaré; per non parlare del fatto che leggeva Arthur Schopenhauer la sera prima di dormire. L’influenza del positivismo su Werner Karl Heisenberg, lo scopritore della meccanica quantistica, è trasparente nei suoi articoli. E la fisica americana del dopoguerra non sarebbe concepibile senza l’influenza del pragmatismo. E così via, l’elenco è lunghissimo. Il pensiero filosofico apre possibilità, libera da pregiudizi, svela incongruenze e salti logici, suggerisce nuovi approcci metodologici, e, in generale, apre la mente degli scienziati a possibilità nuove. È sempre successo in passato, e continua a succedere.
Il motivo di questa importanza del pensiero filosofico è nel fatto che lo scienziato non è un essere razionale puro con un bagaglio concettuale fisso che lavora su dati e teorie: è un essere reale il cui bagaglio concettuale è in evoluzione continua, a mano a mano che il sapere cresce. L’elaborazione della struttura concettuale generale è ciò di cui i filosofi sanno occuparsi. È soprattutto sulla metodologia, che è tutt’altro che statica nella scienza, che la filosofia interferisce con la scienza: «La filosofia — scrive Aristotele — offre una guida su come la ricerca deve essere condotta».
Il terzo argomento di Aristotele è una semplice notazione: le scienze hanno bisogno della filosofia in particolare là «dove le perplessità sono maggiori». Quando la scienza attraversa periodi di forte cambiamento, in cui concetti di base sono rimessi in discussione, ha più bisogno della filosofia. Un esempio è proprio il momento attuale, in cui la fisica fondamentale affronta il problema della gravità quantistica, su cui lavoro, dove le nozioni di spazio e tempo sono ancora una volta rimesse in discussione, e le vecchie argomentazioni sullo spazio e sul tempo, da Aristotele a Kant, fino a David Lewis, tornano attuali.
No, la filosofia non è inutile per la scienza. Ne è fonte vivissima di ispirazione, critica e idee. Ma se la grande scienza del passato si è nutrita di filosofia, è anche vero che la grande filosofia del passato si è appassionatamente abbeverata di scienza. David Hume e Immanuel Kant sono incomprensibili senza l’opera di Newton. O Cartesio senza Niccolò Copernico, o Aristotele senza i fisici presocratici, o Willard Van Orman Quine senza la relatività di Einstein. Perfino filosofi come Edmund Husserl e Georg Wilhelm Friedrich Hegel, che sembrano più lontani dalla scienza contemporanea, prendevano la scienza del loro tempo come modello di riferimento.
Chiudere gli occhi al sapere scientifico attuale, come fa oggi, ahimè, parte della filosofia di alcuni Paesi europei, è, a mio giudizio, solo ignoranza. Ancora peggiore è l’atteggiamento di quelle correnti filosofiche che considerano il sapere scientifico «inautentico» o di serie B, oppure una forma di organizzazione dei pensieri arbitraria e non più efficace di altre. Mi ricordano i due vecchietti pensionati sulle panchine dei giardini: uno borbotta: «Che presuntuosi gli scienziati: pensano di poter capire la coscienza, o l’origine dell’universo!», e l’altro: «Che presuntuosi. È ovvio che non possono arrivarci! Noi invece sì che le capiamo!».
Il nostro sapere è incompleto, ma è organico: cresce in continuazione e ogni parte ha influenza su ogni altra. Una scienza che chiude le orecchie alla filosofia appassisce per superficialità; una filosofia che non presta attenzione al sapere scientifico del suo tempo è ottusa e sterile. Tradisce la sua stessa radice profonda, quella della sua etimologia: l’amore per il sapere.

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