martedì 20 dicembre 2016

Bizantini, come si adattarono ai barbari

L’arte di adattarsi ai «barbari» fu l’arma segreta dei Bizantini

di Giovanni Brizzi - 04/12/2016

La Lettura - Corriere della Sera


Strutturato secondo un impianto cronologico-narrativo, il volume di Gastone Breccia Lo scudo di Cristo (Laterza) sulle guerre bizantine copre il periodo compreso tra la disfatta subita da Valente ad Adrianopoli (378 d.C.) e il fallito attacco del khan bulgaro Krum contro Costantinopoli (813); i secoli, cioè, che videro l’Impero romano d’Oriente opporsi a successive ondate di invasori sempre diversi, reprimere incursioni e razzie, proteggere i confini e persino riconquistare territori da tempo perduti. Gli aspetti chiave su cui l’autore insiste sono sia la situazione politico-militare dell’Impero, sia la struttura, l’organizzazione e l’impiego dei suoi eserciti. Due i momenti fondamentali: la creazione di un nuovo sistema difensivo da parte di Teodosio I, dopo Adrianopoli, e la grande «riforma tematica» della seconda metà del VII secolo. La prima svolta interessò soltanto le forze armate; la seconda trasformò completamente lo Stato.
Dal punto di vista strategico la Nuova Roma poté giovarsi della posizione centrale della sua inespugnabile capitale. Come si sarebbe poi visto, fino a che questa sopravviveva, sopravviveva l’Impero… Da Costantinopoli, per linee interne, le forze scelte di riserva potevano raggiungere in fretta, lungo buone strade, i territori sotto attacco. Paradossalmente, però, quella centralità era anche un elemento di debolezza, poiché la più splendida delle città esercitava, nei confronti degli invasori, un’irresistibile attrazione; sicché le forze imperiali potevano trovarsi a fronteggiare attacchi simultanei dalle opposte frontiere, nel settore balcanico-danubiano e in quello mesopotamico.
Tra gli elementi più interessanti emersi dallo studio delle fonti figura la riflessione teorica sui vari aspetti dell’arte bellica. Se non si può parlare di una manualistica strategica in senso moderno, emerge però l’elaborazione di norme tattiche flessibili: vengono codificati i diversi tipi di schieramento e manovra, viene ribadito un principio che rappresenta una parziale rottura col passato e, insieme, una valida alternativa, quello di «adattarsi al nemico», analizzando i punti di forza e debolezza di ogni «barbaro» per contrastarli o sfruttarli a proprio vantaggio. Le legioni della prima Roma tendevano ad imporre il loro modo di combattere, confidando in una superiorità che credevano assoluta; le armate d’Oriente, spesso inferiori di numero, debbono invece di volta in volta adattarsi, utilizzando formazioni differenti.
Dal punto di vista tattico i secoli dal IV al IX vedono una trasformazione completa dell’arte bellica. Dalle grandi armate di fanteria pesante dell’antica Roma si passa a eserciti più snelli, compresi in genere tra i 15 e i 20 mila effettivi. L’esercito di Costantinopoli resta però, nel suo momento migliore, una forza basata, come quelle antiche, sull’impiego coordinato di specialità diverse, che affianca fanti e cavalieri, «portatori di scudo» pesantemente armati, adatti allo scontro frontale e alla difesa di postazioni fisse, ai cavalleggeri unni, formidabili nella ricognizione e nelle imboscate, e agli hippotoxotai , gli arcieri a cavallo tratti soprattutto da Anatolia e Tracia, e dispone persino di un’artiglieria da campo e di sistemi di segnalazione acustica e visiva. Celebri restano le imprese di riconquista volute da Giustiniano, quella africana contro i Vandali del 533, che (contro ogni aspettativa) si risolse in una sorta di «guerra lampo»; e quella, ben più lunga e difficile (535-553), contro i Goti in Italia.
Giustificate con l’intento di ripristinare l’ orbis Romanus et christianus , le guerre per la restauratio imperii dimostrarono la forza delle armate orientali. Giustiniano sconfisse «gli unici popoli che, fino a quel momento, erano riusciti a insediarsi nei territori romani», perché «gli eserciti e le flotte coordinate da Costantinopoli avevano dato un’impressionante dimostrazione di forza militare», ma non riuscì «a garantire ai suoi sudditi il bene più prezioso, “la dolcezza della pace”».
Questo ci porta ad un’ultima considerazione: benché sempre più militarizzato , l’impero non diventò mai militarista . Pur costretto a combattere guerre incessanti, utilizzando fino al 95 per cento delle proprie risorse per le spese belliche, lo Stato romano e cristiano non elaborò mai, a sostegno di questo sforzo immane, un’ideologia positiva della guerra, che rimase il peggiore dei mali, da evitare ad ogni costo, facendo ricorso anche alla corruzione o al tradimento, all’assassinio mirato o al pagamento di tributi… Solo eccezionalmente la guerra venne vista come una «missione» dai connotati religiosi: Eraclio, quando l’Impero era sull’orlo della catastrofe, fece appello anche alla fede per respingere un nemico «alieno» al cristianesimo, ma solo perché era in gioco la sopravvivenza della res publica . La guerra fu sempre, altrimenti, un disvalore, che solo i popoli «barbari» affrontavano con gioia.
L’eccellente saggio di Breccia raggiunge appieno entrambi gli scopi che si prefigge. Destinato non solo agli specialisti (il linguaggio è di esemplare chiarezza), è scritto per raggiungere (e raggiungerà, io spero…) un vasto pubblico; e riesce a confutare la communis opinio secondo cui «la Roma che non cadde» (Williams-Friell) avrebbe avuto in sé e nei suoi ordinamenti militari i caratteri della «decadenza». La fine della prima Roma si deve «all’emergere di un differente tipo di cultura e di vita» (Gabba). Con tale modello Costantinopoli e l’Impero orientale, in fondo, si identificavano; sicché sopravvissero...

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