martedì 20 dicembre 2016

Cantico Dei Cantici

Silvia Ronchey per “la Repubblica”

Di cosa parliamo quando parliamo del Cantico? Questa domanda non può avere risposta. «Il cantico è un enigma», scriveva Agostino (“Sermo” 46, 35). È un mistero nel senso tecnico della parola. L’iniziato non parlerà perché non potrà farlo (“mysterion” da “myein”, «tenere le labbra serrate»). Il profano parlerà, ma non saprà di che parla. «Perché chi sa non parla e chi parla non sa», secondo il detto di Lao Tse.
 Ma alla fine del I secolo, quando si formò il canone della bibbia giudaica, il sapiente Rabbi Aqiba disse: «Il mondo intero non vale il giorno in cui il Cantico dei cantici è stato donato a Israele, perché tutte le Scritture sono sante, ma il Cantico dei cantici è il Santo dei santi». Già allora che cosa fosse il Cantico non lo si sapeva né voleva dire: la sua santità era direttamente proporzionale al suo mistero; anzi, era proprio la profondità abissale dei suoi enigmi a sprigionare quel vertice di santità.
«Petali di loto le labbra del mio amato /colano mirra. Il suo inguine è avorio / tempestato di zaffiri. / Favi colanti le tue labbra mia sposa / miele e latte sotto la tua lingua / come incenso del Libano / l’aroma del tuo grembo / giardino chiuso fonte sigillata. / Entri il mio amato nel suo giardino / succhi il suo frutto prodigioso. / Nel mio giardino entravo / mia sorella mia sposa / e la mirra e ogni essenza rapivo / e succhiavo il miele dal favo».
 Poemetto di età post-esilica, forse patchwork di canti attinti al patrimonio della tradizione assiro-babilonese ed egizia oltre che ebraica, con echi greco- ellenistici nello stile di Teocrito, il Cantico è indubitabilmente un testo erotico, quasi pornografico. Nella traduzione latina di Girolamo: Dilectus meus misit manum suam per foramen / et ventrem meus intremuit ad tactum eius.
«Il mio amato infila la mano nel mio grembo/ le mie viscere fremono per lui. / Per aprirgli mi alzo /le mie mani colano mirra /dalle dita la mirra fluisce / sul chiavistello che impugno». Secondo la tradizione rabbinica, alcuni brani del Cantico venivano cantati nelle taverne. Si sdegnava Rabbi Aqiba: «Chi canta il Cantico nelle taverne o lo tratta come una canzone profana non avrà posto nel mondo futuro».
 Levitò presto l’esegesi anagogica midrashica, gelosamente sacra, del Cantico come celebrazione dell’alleanza sponsale tra JH-WH e Israele, protratta poi nell’interpretazione cristiana che per secoli e secoli vi lesse la figura dell’amore di Cristo per la chiesa, non senza lasciare spazio a una congerie di altri sistemi allegorici minori, spesso iniziatici – astrologici, cabalistici, filosofico- sapienziali –, nella letteratura medievale, rinascimentale e moderna.
 Sulle ali della metafora della sposa-chiesa i versetti del Cantico si disseminarono nella fonosfera della liturgia, della musica, della letteratura, tramandole come mantra sempre meno dischiusi al senso. Più la torsione simbolica della teologia occidentale sottraeva loro il significato naturale – da Ambrogio a Gregorio Magno, da Guglielmo di Saint-Thierry a Bernardo di Clairvaux, da Francesco di Sales a Bossuet – più le sillabe e le immagini spandevano il loro mistero elementare. Nigra sum sed formosa.
Da Monteverdi a Giovanni della Croce, da Maupassant a Moreau duemila anni di omissioni hanno addensato connessioni così colossali nel Cantico da renderlo simile all’Aleph di Borges: un punto dello spazio letterario che contiene una pluralità infinita di altri punti. Già il Talmud ammoniva, comunque, a non sottovalutare la letteralità che nessun testo biblico deve mai perdere.
 I letteralisti o naturalisti sono sempre, a ragione, esistiti: bizantini come Teodoro di Mopsuestia o giudaici come Ibn Ezra. Un grande saggio protestante del Cinquecento, Sébastien Castellion, propose di eliminare il Cantico dal canone dei testi ispirati, in polemica con Calvino; lo seguì Herder. Il Novecento ha visto anche esegeti ecclesiastici cattolici, da Dietrich Bonhoeffer a Luis Alonso Schökel, assaliti dal dubbio: se dietro i versetti del Cantico non ci fosse nulla? Bisogna intendersi.
 Il Cantico è nulla. È un prisma trasparente nella cui luce si riflette, moltiplica e illumina qualunque esperienza reale o spirituale, intellettuale o dottrinale vi si accosti. Inoltre, dietro al Cantico c’è il nulla. «In verità, il vuoto del Cantico è lì per confermarne la sacralità. Il Cantico è un pezzo di vuoto sacrale. Dico che è vuoto per non negargli niente», ha scritto Guido Ceronetti.
 Almeno quanto l’Ecclesiaste evoca il vuoto e almeno quanto Giobbe il dolore, il Cantico evoca la dolorosa inattingibilità dell’amore. «L’uomo non può capire il Cantico se non ha mai amato», ha scritto Bernardo. Anima mea liquefacta est. Quaesivi, et non inveni illum. Vocavi, et non respondit mihi.
 «La mia anima si disfa. / Lo cerco e non lo trovo / lo chiamo e non risponde». Ha scritto Jung: «Mi sono ripetutamente trovato di fronte al mistero dell’amore, e non sono mai stato capace di spiegare cosa sia. Qui si trovano il massimo e il minimo, il più remoto e il più vicino, il più alto e il più basso, e non si può mai parlare dell’uno senza considerare l’altro. Non c’è linguaggio adatto a questo paradosso. Qualunque cosa si possa dire, nessuna parola potrà mai esprimere tutto».
 Nessuna parola può esprimere tutto, ma il Cantico, illusionisticamente, lo fa. Se la natura del desiderio è indicibile, il Cantico la dispiega in enigmi. «Mettimi come un sigillo sul tuo cuore / come un tatuaggio sul tuo braccio / perché forte come la morte è l’amore / duro come l’Ade il desiderio ». L’amore è più forte della morte: cosa vuol dire? che l’amore può vincere la morte? che il piacere è una piccola morte? che l’eros è la morte dell’io e ci fa uscire dai suoi confini portando all’insania, come già segnalato da Lucrezio?
«L’eros lo conosciamo solo nella distanza del fallimento. Prima del fallimento non si dà conoscenza », ha scritto Christos Yannaras, massimo esperto contemporaneo del Cantico (alcune delle sue pagine in AA.VV., Il più bel canto d’amore. Letture e riscritture del Cantico dei cantici, Qiqajon, Comunità di Bose, pagg. 231, euro 20, che del Cantico contiene anche la migliore traduzione italiana, di Enzo Bianchi). «Dopo il fallimento sappiamo che l’eros è il modo della vita, ma un modo inaccessibile alla natura umana. Il modo della vita lo palpiamo nella privazione, nel calco dell’assenza».
La riflessione sull’eros del teologo ortodosso Yannaras conclude oggi il discorso sul Cantico aperto da un altro filosofo greco-orientale, Origene: nel III secolo, quando da poco quell’erma testuale bifronte che esaltava un amore fisico e carnale fino all’oscenità era entrata nel libro sacro a tre religioni e in queste aveva cominciato a porre, o trasporre, il suo enigma.
 Enfant prodige del platonismo alessandrino, a poco più di vent’anni Origene si era evirato. Aveva, narra Eusebio, troppo da fare coi libri, giorno e notte, e questa era per lui già «una passione e una ginnastica ». Nulla doveva distoglierlo dal comparare e commentare i testi della bibbia. Il suo fu il più grande esperimento di applicazione dell’esegesi allegorica neoplatonica al cristianesimo.
Nel Commento al Cantico, opera della sua maturità, uscito ora in traduzione italiana insieme alle magnifiche Omelie sul Cantico di un altro grande padre greco, Gregorio di Nissa (Origene, Gregorio di Nissa, Sul Cantico dei cantici, a c. di V. Limone e C. Moreschini, Bompiani, pagg. 1565, euro 50), raccolse l’eredità della ricerca platonica sull’essere e la sua contrapposizione fra anima e corpo, tra metafora e lettera, tra esoterismo e “annuncio”.
 Sottrasse al Cantico letteralità e fisicità per accenderne l’erotismo metaforico in un modo che nessuno aveva mai osato prima: utilizzandolo in senso psicologico. Col bisturi della filologia neutralizzò la carne degli sposi, per lasciare tutto lo spazio al loro puro spirito. Operò, in un certo senso, come aveva operato sul suo stesso corpo.
L’autoevirazione di Origene, che la tradizione antica riporta, fu reale o simbolica? Di fatto, in uno dei più fantasmagorici trompe l’oeil della letteratura universale, con Origene il Cantico perse per sempre il suo originario connotato realistico per diventare un’allegoria dell’eros mistico, di quell’amore sofferente che sta in ogni atto di ricerca o tentativo di creazione o impulso di unione.
 La Sulamita che cerca lo sposo non è solo Israele, secondo l’interpretazione giudaica, e non è solo la chiesa, secondo la versione cristiana vulgata. È in primo luogo l’anima, che secondo la tradizione platonica cerca sempre, e non trova, la perfezione del Logos. Con il Commento al Cantico di Origene il cristianesimo orientale si è fin dall’inizio affiancato agli altri grandi saperi tradizionali nell’esprimere il quaesivi et non inveni, il “cerco e non trovo” che si applica a tutte le sfere dell’indagine, ma anzitutto a quella su noi stessi.

Nessun commento:

Posta un commento

IL PANE

  Maurizio Di Fazio per il  “Fatto quotidiano”   STORIA DEL PANE. UN VIAGGIO DALL’ODISSEA ALLE GUERRE DEL XXI SECOLO Da Omero che ci eternò ...