domenica 8 gennaio 2017

Decadenza

Ho letto quasi tutti i libri del filosofo francese Michel Onfray, autore di una controstoria della Filosofia. Onfray è un personaggio controverso, ma sempre interessante. Ora è uscito in Francia, e presto uscirà anche in edizione italiana, il suo ultimo volume, che non ci lascia molte speranze. 
Il titolo già dice tutto: "Décadance". Curiosamente arriva giusto un secolo dopo che Oswald Spengler pubblicò nel 1917 "Il tramonto dell'Occidente". Tutti e due questi testi sembrano avere un sapore consolatorio, nel senso che indicano delle tendenze storiche ineluttabili, incontrollabili, e quindi inducono a credere che se il corso storico è questo non è colpa nostra, non ci possiamo fare nulla. Forse è proprio così.
Ad ogni modo, Onfray sostiene che "il Dio del Vaticano è morto sotto i colpi del Dio della Mecca. La civiltà giudaico-cristiana ha regnato durante quasi due millenni. Una durata onorevole per una civiltà. Quella che ne prenderà il posto sarà a sua volta rimpiazzata, è solo una questione di tempo. La barca cola a picco: non ci rimane che affondare con eleganza".
Da quello che sembra di capire, affondare con eleganza, secondo Onfray, significa: è inutile cercare rimedi, non ce ne sono, perciò rassegniamoci.

Marco Nese

sabato 7 gennaio 2017

Leonardo

Leonardo da Vinci (Vinci, 1452 - Amboise, 1519)
Adorazione dei Magi - 1481-1482 ca.
Tempera e olio su tavola, 243 x 246 cm, Firenze - Galleria degli Uffizi
L'artista che «dette alle sue figure il moto et il fiato»
«Veramente mirabile e celeste fu Lionardo, figliuolo di ser Piero da Vinci; e nella erudizione e principi delle lettere arebbe fatto profitto grande, se egli non fusse stato tanto vario e instabile. Perciocché egli si mise a imparare molte cose e, cominciate, poi l'abbandonava. [...] Vedesi bene che Lionardo per l'intelligenza dell'arte cominciò molte cose e nessuna mai ne finí, aprendoli che la mano aggiungere non potesse alla perfezione dell'arte nelle cose, che egli si immaginava, conciò sia che si formava nell'idea alcune difficultà suttili e tanto meravigliose, che con le mani, ancora che fussero eccellentissime, non si sarebbo espresse mai [...] e non solo esrcitò una professione, ma tutte quelle, ove il disegno s'interveniva [...] ed era in quell'ingegno infuso tanta grazia da Dio ed una demostrazione sì terribile, accordata con l'intelletto e memoria che lo serviva, e col disegno delle mani sapeva sì bene esprimere il suo concetto, che con i ragionamenti vinceva e con le ragioni confondeva ogni gagliardo ingegno».
Così scriveva Giorgio Vasari iniziando la "Vita di Leonardo".
E veramente, fra tutti gli artisti suoi contemporanei, Leonardo fu un caso unico benché, come egli stesso diceva, fosse «sanza lettere».
Questa espressione voleva dire non conoscere né il greco né il latino.
"Vi meraviglierete di vedermi abbordare tanto tranquillamente e con apparente leggerezza i pochi nomi di artisti che abitavano per avventura le vostre menti come idoli tanto sacri quanto incompresi? Spero che no; e vorrei che mi foste grati di condurvi finalmente dinanzi a loro come artisti e null'altro; senza cioè prepararvi ad essi col solito polpettone di ambiente, di età d'oro, e simili inutilità. Non abbiamo avuto bisogno di Poliziano per intendere Botticelli e non so perché mai dovrebbe essere necessario l'Ariosto per comprendere Leonardo. [...]
Possiamo adunque far subito un'osservazione che varrà per tutta l'attività di Leonardo. Egli si serve dello stesso stile - linea funzionale accurata e chiaroscuro epidermico - del maestro, ma lo impiega spesso ad effetti sentimentali. Finezze di avvallamenti plastici quasi impercettibili sui visi ch'egli cura più che altra parte dei dipinti: corrispondono - egli dice -
«a finezze di trapassi psichici: potrò così gareggiare con la poesia» [...]"
(Roberto Longhi)
"Non si può separare lo sviluppo iniziale dell'eccezionale personalità di Leonardo dalla situazione culturale fiorentina in cui si forma ed a cui ben presto reagisce con tanta vivacità polemica che perfino la vasta e diramata ricerca sperimentale che svolgerà nel campo delle scienze naturali appare sollecitata, se non determinata dalla reazione all'idealismo estetizzante della cerchia neoplatonica fiorentina. [...]
L'opera conclusiva, e incompiuta del primo periodo fiorentino è l'"Adorazione dei Magi". E' il soggetto che più frequentemente ricorre nella pittura del Quattrocento. Leonardo prende posizione rispetto a tutta una tradizione, e giunge all'interpretazione recentissime del Botticelli (1477 ca), che elimina il carattere sacro della rappresentazione e la trasforma in una celebrazione della famiglia e della dotta corte dei Medici.
A questo dipinto, che esalta la pietà religiosa della cerchia neoplatonica, si riferisce esplicitamente Leonardo interpretando il tema in chiave simbolica, e non storica o fiabesca, e raggruppando le figure a cerchio intorno alla sacra apparizione invece di farle arrivare in corteo. Andando ancora più in là del Botticelli, elimina anche la capanna; e confonde i Magi in una ressa di persone agitate, accorrenti, gesticolanti, prostrate. Anche Botticelli sviluppa il tema più come 'epifanìa', o manifestazione del divino, che come 'adorazione'; ma Leonardo rifiuta di considerare l'aspetto sociale del tema (l'omaggio dei signori e dei dotti a Dio) e va diritto al nucleo filosofico. Poiché concetto fondamentale del pensiero neoplatonico è l'ispirazione o il 'furor' (anche come grazia divina concessa a pochi spiriti superiori, a una 'élite'), espone e dimostra il proprio concetto, completamente diverso, del 'furor'.
'Epifanìa' è fenomeno; dunque nel fenomeno e non nell'astratta 'idea' si manifesta il divino. Il fenomeno sorprende, emoziona, turba, suscita reazioni diverse, mette in moto tutta la realtà: anche i cavalli imbizzarriscono al fenomeno dell'apparizione divina. Il fenomeno si vede e si medita: a destra un giovane si volge verso l'esterno e invita la gente a guardare, a sinistra un vecchio china il capo e riflette. Il fenomeno accade nella natura: la Madonna appare in un paesaggio aperto fino all'ultimo orizzonte e siede su un risalto del terreno, presso un albero di cui si vedono in basso i rami troncati e in alto le nuove fronde.
Nel fondo, grandiose architetture in rovina: con l'apparizione-fenomeno cadono i rami secchi e rifiorisce il tronco della vita, crolla lo scenario remoto della storia e rinasce la natura. Tanto le figure vicine quanto le lontane sono agitate dal 'furor', ma nelle lontane (quelle della storia ormai «antica») il 'furor' è lotta di guerrieri a cavallo, nelle vicine (toccate dal fenomenizzarsi del divino) è incontenibile impeto di affetti e di moti [...] le perturbazioni cosmiche e i turbamenti dell'animo, i sentimenti.
La Madonna non troneggia: è un'esile figura risolta con poche linee curve e leggermente inclinata. E' come un fuso che ruoti su se stesso e formi, intorno, un vortice di vuoto e un risucchio. La massa delle figure si precipita, ma è fermata dalla barriera invisibile di quello spazio vuoto: il movimento è dunque incompiuto, perché nulla nella realtà è compiuto, tutto è conflitto di forze contrarie, travaglio di un divenire continuo.
Non vi sono gesti di figure ben individuate, ma solo atti che rientrano nell'orbita vorticosa (ben diversa dal ritmo botticelliano) del movimento della massa, dello spazio, del cosmo. E' come se tutti gli astanti, pervasi da un 'furor' che in ciascuno ha accenti e moti diversi, formassero una sola figura, con molte mani protese, molti volti ansiosi o stupiti o pensierosi; e il moto orbitale della massa, suscitato dalla luce proveniente dagli spazi lontani, ritornasse allo spazio, in una circolazione vorticosa, senza fine.
Infatti non esiste 'il' fenomeno, ma la serie incalzante dei fenomeni, delle infinite cause e degli infiniti effetti.
Il mondo di Leonardo non è più 'natura naturata', ma 'natura naturans'.
(G. C. Argan)

Lampo radio nello spazio

Ci sono voluti dieci anni, ma alla fine è stata trovata la fonte del radiosegnale più misterioso mai rilevato. Dura una manciata di millisecondi ed è l'unico del suo genere ad essere stato intercettato più volte dopo la sua scoperta, avvenuta nel 2007. "Solo adesso sappiamo che il segnale arriva da una galassia nana distante tre miliardi di anni luce dalla Terra", ha detto il coordinatore della ricerca, Shami Chatterjee, della Cornell University. Pubblicati sulle riviste Nature e Astrophysical Journal Letters, i risultati sono stati presentati anche nel congresso della Società Astronomica Americana.

Il segnale appartiene alla famiglia dei fenomeni astrofisici rapidissimi e ad energie molto elevate, chiamati Frb (Fast Radio Burst). Al momento se ne conoscono appena 18, tutti provengono dall'esterno della Via Lattea e la loro origine è da sempre un enigma. Il mistero adesso è meno fitto perché la rete dei radiotelescopi chiamata Karl G. Jansky Very Large Array, che si trova nel Nuovo Messico, ha fornito un primo indizio sulla provenienza del segnale inseguito da 10 anni, indicato con la sigla FRB 121102. Quindi un nuovo indizio è stato fornito dall'osservatorio Gemini, nelle Hawaii. Altri telescopi hanno permesso di definire la distanza con maggiore precisione.


Quella che appare alla luce dei dati raccolti è una sorgente vicina a una sorta di galassia 'fantasma' al centro della quale si trova un buco nero. Per chiarirne la natura serviranno ulteriori ricerche. "Anche se non abbiamo ancora una risposta chiara, la scoperta è rivoluzionaria", ha rilevato l'astrofisico tedesco Heino Falcke, dell'università olandese Radboud, commentando il risultato nello stesso numero della rivista.


La ricerca desso prosegue perchè nella stessa regione dalla quale proviene il segnale principale, i ricercatori hanno intercettato una sorgente di segnali più deboli ma persistenti. Secondo le prime ipotesi tutti potrebbero provenire da una stella di neutroni, ossia da una stella estremamente densa e compatta e che ruota velocemente su se stessa, oppure da una magnetar, ossia una stella di neutroni con un potentissimo campo magnetico, circondata dal materiale espulso dall'esplosione di una supernova. Un'altra ipotesi è che i segnali arrivino dai getti di materia espulsi da un enorme buco nero.


«I fast radio bursts sono uno fra i più interessanti fenomeni astrofisici scoperti nel corso degli ultimi dieci anni. Dieci anni durante i quali non eravamo ancora riusciti a individuare l’esatta provenienza di queste esplosioni energetiche. La nuova scoperta è stata realizzata anche grazie alla partecipazione dei radiotelescopi che abbiamo in Italia», sottolinea Steven Tingay, responsabile dell’Unità Scientifica per la radioastronomia dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) e direttore dell’Istituto di Radioastronomia dell’Inaf

di Bologna, «è motivo di grande eccitazione, perché fornisce un’informazione nuova e cruciale per comprendere la fisica di questo fenomeno: la distanza dell’oggetto d’origine, individuato con precisione in una remota galassia».

venerdì 6 gennaio 2017

Fozio


Tradurre la Biblioteca di Fozio
di Luciano Canfora
Non sono stati molti i tentativi di tradurre per intero la Biblioteca: oltre all’ampiezza, l’ostacolo principale è la grande varietà di prosa – trattandosi di estratti ricavati da moltissimi autori – che la ca- ratterizza. Chi si cimenta con quest’opera non legge soltanto Fozio ma, soprattutto, una serie di autori, anche antichi, per i quali Fozio è, per noi, l’unico tramite (per ben 81 autori quest’opera di Fozio è l’unico testimone della loro esistenza). Per giunta si tratta di autori che vanno da Erodoto (V a.C.) a Sergio il Confessore (morto nell’829 d.C.), cioè di un autore che Fozio potrebbe aver conosciuto di persona. Analoga varietà di autori stipati tutti nella stessa opera è di cile trovare. Si possono ricordare Ateneo, Stobeo e l’enciclopedia di Suida.
Il lavoro di rendere accessibile la Biblioteca ad un largo pubblico di dotti capaci di leggere il latino piuttosto che il greco lo realizzò, dopo anni di incer- tezze, interruzioni e censure, il gesuita di Anversa André Schott (Augsburg 1606, ma in realtà 1607). Non solo tradusse, ma anche commentò, allestì in- dici e premise una importante introduzione, i Pro- legomena, dei quali abbiamo ormai una importante edizione commentata a cura di Giuseppe Carlucci (Dedalo, Bari 2012). In tale volume, Carlucci ha an- che raccolto documentazione relativa ai tentativi di traduzione (pur sempre in latino) andati a monte1: tra di essi campeggia quello di Federico Mezio, pre- zioso aiutante di Baronio (su cui vedi «Quaderni di storia» 65, pp. 179-192 e 66, pp. 149-154). Inoltre ha seguito le tracce di traduzioni parziali, magari di singoli capitoli, sorte prima di Schott, presenti negli apparati e nei testi liminari di edizioni di autori dei quali Fozio si era occupato nella Biblioteca.
La preziosa e a lungo unica traduzione di Schott, che metteva a frutto anche traduzioni parziali pre- cedenti, non è esente da sviste anche macroscopi- che. Ma soprattutto è macchiata dall’intento di na- scondere formulazioni ‘eretiche’ di Fozio. Vi erano temi sui quali il contrasto con Roma era insanabi- le. La strada scelta da Schott (il quale ebbe a che fare con la censura dell’ordine cui apparteneva) fu quella di far dire a Fozio cose diverse da quelle che aveva scritto trattando di materia teologica: specie su temi laceranti come l’eucarestia (e etti del ri u- to ‘orientale’ del lioque). La traduzione di Schott fu dunque riprodotta pari pari in area calvinista, a Ginevra, ad opera di Paul Estienne (Photii Myrio- biblon, 1611 e 1612)2, recante, su colonne parallele, da un lato il testo greco già edito nel 1601 da David Hoeschel (Augsburg) e dall’altro il latino di Schott. Paul Estienne, glio di Henri, operò anche una fu- sione tra gli apparati della princeps e gli apparati di Schott. L’edizione ginevrina, la cui di usione non fu certo agevolata dalle vicissitudini di Paul Estien- ne in quegli anni, fu riprodotta identica a Rouen nel 1653 dai fratelli Berthelin (tipogra di matri- ce calvinista). La novità era, in questa edizione, l’arbitrario risanamento congetturale delle lacune iniziali e nali ad opera del certosino Bonaventure D’Argonne3.
Una ulteriore stampa della traduzione Schott fu realizzata a Budapest nel 1778, corredata da ben cinquanta Assertiones dogmaticae, collocate prima dei Prolegomena di Schott.
Una traduzione latina completamente nuova e certo più accurata rispetto a quella di Schott era stata nel frattempo realizzata, ma era rimasta ine- dita, dal monaco zantiota Antonio Catiforo (1685- 1763), il quale corredò di note la sua traduzione. Va detto, a suo ulteriore merito, che egli ha tra- dotto in latino anche la restante opera foziana. Il corpus delle sue traduzioni è conservato a Venezia, dove egli visse per un tempo non breve, presso la Biblioteca Nazionale Marciana: la Biblioteca è nel Marciano greco XI, 17. Nel 2003 ne sono state pub- blicate alcune parti: la dedicatoria a Tarasio e molte note di commento4. Catiforo – come ha mostrato Margherita Losacco – retti cò le storture intenzio- nali apportate dalla traduzione di Schott per mo- tivi ‘teologici’5. Intanto passava come una meteora il tentativo (1810-1812) del giovane dotto danese Børge orlacius (1775-1829) di dar vita ad una edizione critica della Biblioteca. Ne aveva parlato Charles Weiss nella voce Photius della Biographie Universelle del Michaud. Weiss sapeva anche che orlacius aveva già collazionato «les manuscrits de la bibliothèque du roi». Ma l’impresa non andò in porto, e si può ipotizzare che tale collazione sia stata messa a frutto da Bekker (nell’edizione 1824- 1825) il quale, oltre al Marciano A utilizza unica- mente la collazione dei tre parigini.
La prima traduzione in una lingua moderna, in francese per l’esattezza, la realizzò – ma rimase anch’essa inedita – un avventuroso dilettante, Jean- Baptiste Constantin, negli anni 1828-1831. Essa fu anzi solennemente annunziata, come già compiuta, nel «Journal des Savants» del 1831 (pp. 185-186), mentre veniva lanciata una sottoscrizione per - nanziarne la stampa. Constantin – dopo un vano tentativo di avvicinamento al generale Foy – lavorò a pagamento per varî committenti: la traduzione della Biblioteca la realizzò – rielaborando in lingua francese il latino di Schott – per conto del marchese Agricole-Joseph-François Fortia d’Urban (1756- 1843), singolare gura di matematico ed erudito pre-critico ma attratto, in gioventù, dall’Illumini- smo e persino, all’inizio, dalla Rivoluzione. Quando ormai Constantin era fuggito in Belgio (poco dopo l’epidemia di colera che devastò Parigi nel 1832), Fortia pubblicò, come proprio lavoro, nel periodi- co «Annales de philosophie chrétienne» 22, 1841, la traduzione di un capitolo (il 170) estratto dalla tra- duzione che aveva fatto fare a Constantin e ancora una volta preannunziò la pubblicazione dell’intero. La traduzione di Constantin è conservata quasi per intero alla Bibliothèque Nationale de France come NAF 22592-22593, mentre alcune tracce si con- servano altrove. Una parte (il capitolo su Ctesia) è stata pubblicata da Stefano Micunco nel 20106. È in progetto la valorizzazione dell’intero manoscritto.
Mentre Constantin era all’opera, molti capitoli della Biblioteca riguardanti gli storici greci appa- rivano a Milano (presso Sonzogno) in traduzione italiana a cura di Spiridione Blandi nella collezione Storici minori volgarizzati e illustrati (voll. I, II, IV: Ctesia, Conone, Memnone, Eunapio, Agatarchide, Flegonte, Dexippo e altri).
Progetti analoghi prendevano intanto consisten- za: quello di Giovanni Veludo (1811-1890), allora molto giovane, e soprattutto quello – apparso po- stumo a Milano (presso Silvestri, nel 1836) – del giacobino non pentito Giuseppe Compagnoni (1754-1833). Fu l’uscita della ampia silloge di Com- pagnoni (Biblioteca di Fozio, patriarca di Costanti- nopoli, tradotta in italiano dal cavaliere Giuseppe Compagnoni e ridotta a più comodo uso degli stu- diosi, voll. I-II) a indurre Veludo, pur incoraggiato dal Mustoxidi, ad abbandonare il suo progetto. Fo- zio non aveva mancato di interessare Leopardi, che aveva anche avuto un contatto con Compagnoni7.
Intanto un altro progetto nasceva, e abortiva, in Francia: il Myriobiblon français dell’erudito bi- bliografo, e bibliotecario a Dijon, Gabriel Peignot (1767-1849) di cui sopravvivono poche pagine ma- noscritte8.
Nel 1860 Jacques-Paul Migne inseriva nella mo- numentale Patrologia Graeca (voll. CI-CIV) l’inte- ra opera di Fozio in greco e con traduzione latina contestuale. Per la Biblioteca (voll. CIII e CIV) adottò il testo di Immanuel Bekker, apparso in due tomi a Berlino nel 1824 e 1825, e come traduzio- ne replicò in integro quella di Schott inclusi i Pro- legomena. Ma, forse considerandoli troppo ‘teneri’ verso Fozio, premise al vol. CII un testo scritto ad hoc per l’occasione dal vescovo belga Jean-Baptiste Malou (1809-1864). È un segno dell’ampiezza dei criterî adottati da Migne per le sue Patrologiae il fatto che abbia incluso tra i Padri della Chiesa an- che Fozio, ma, comunque, anche il disistimatore accanito di lui, Niceta David Pa agone (Patrologia Graeca CV).
Veniamo in ne ai tentativi novecenteschi. La tra- duzione completa, in francese, per la «Collection Budé» (in otto volumi 1959-1979) la realizzò René Henry, professore di liceo a Charleroi, allievo di Al- bert Severyns, ‘arruolato’ da Dain negli anni Tren- ta, ma impedito poi per lungo tempo – a causa del- la guerra e della prigionia – di attuare l’ambizioso progetto. Ne diede una anticipazione (il capitolo su Ctesia) nel 1947 tornando alla sua vita di insegnan- te e di studioso dopo la ne del con itto mondiale.
È probabile che abbia avuto tra mano il mano- scritto di Constantin (copia calligra ca messa in vendita nel 1905 dal libraio parigino Picard dal lascito Chantepie); ma ciò non fu un bene: la tra- duzione è non di rado difettosa o subalterna rispet- to a scelte non felicissime di Schott e dello stesso Constantin, il quale, a sua volta, aveva elucubrato su Schott. Ad ogni modo è questa la sola traduzio- ne moderna dell’intera Biblioteca, accompagnata da note essenziali.
Nel 1991, si è aggiunto un volume IX a cura di un ottimo conoscitore della Biblioteca foziana, Jacques Schamp, allievo, a suo tempo, di Henry e promoto- re di approfonditi studi foziani, oltre che autore di pregevoli contributi, il più ampio dei quali è Photius historien des lettres (Les Belles Lettres, Paris 1987).
Nel 1920 era apparso a Londra un primo volume, rimasto unico, della traduzione inglese della Biblio- teca ( e Library of Photius, ‘Society for promoting Christian Knowledge’, e Macmillan Company, London), a cura di John Henry Freese. Era una silloge di autori, disposti in ordine alfabetico, da Achille Tazio a Temistio.
In ne si segnala il congiunto sforzo di Nigel Wil- son e di Claudio Bevegni che ha portato alla pubbli- cazione della medesima nutrita antologia dalla Bi- blioteca, presso Adelphi (Milano) nel 1992 e presso Duckworth (London) nel 1994. Wilson vi ha pre- messo una moderna rilettura dell’opera foziana che prende le mosse dalla dissertazione di Constanti- nus Wol e Johann Georg Philippi su Fozio inven- tore delle efemeridi letterarie.
Il repertorio più completo dei manoscritti della Biblioteca è ormai quello redatto da Paolo Eleuteri in «Quaderni di storia» 51, 2000, pp. 111-156. 

Tristram, eroe moderno

Con il suo personaggio Laurence Sterne rivoluzionò le regole del romanzo

In libreria per i Meridiani Mondadori l’opera che valorizzò incoerenze e discordanze

di Pietro Citati

Appena prendiamo in mano La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo di Laurence Sterne (di cui è uscita un’eccellente edizione, a cura di Flavio Gregori, Mondadori, I Meridiani), veniamo affascinati. Per noi, è un bellissimo libro. Per i lettori del Settecento e dell’Ottocento, il Tristram Shandy era molto di più: il meraviglioso inizio della letteratura moderna. Goethe diceva che «Sterne è lo spirito più libero che sia mai esistito. Chi lo legge, si sente subito felice». Nei suoi primi libri Tolstoj imitò con eleganza la musica inafferrabile dello Shandy. Nietzsche diceva che Sterne era «il grande maestro dell’ambiguità».
«La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo» (a cura di Flavio Gregori, Meridiani Mondadori, pagine CXCIV-1118, euro 80)
«La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo» (a cura di Flavio Gregori, Meridiani Mondadori, pagine CXCIV-1118, euro 80)
Laurence Sterne, che nacque il 24 novembre 1713 in Irlanda, fu pastore per quasi vent’anni a Sutton, nello Yorkshire. Con grande passione, recitava i suoi bellissimi sermoni, di cui una parte ci è pervenuta. Con la stessa passione fu un libertino: corteggiò molte donne: si procurò una malattia venerea: fece un’intensa, a volte frenetica vita mondana, in Inghilterra e in Francia: conversò e chiacchierò insaziabilmente: fu malato di tisi: perse la voce: i suoi vasi sanguigni si ruppero; la morte «lo prese per la gola», sebbene egli si prendesse inesauribilmente gioco di lei. «Non posso morire — disse — perché ho quaranta volumi da scrivere e quarantamila cose da dire e fare». Viaggiò, fuggì per scansare la morte: la trattava come Tristram Shandy trattava il suo farmacista: se la lasciò a lungo dietro alle spalle; finché anche lui morì nel suo appartamento di Londra, a Old Bond Street, alle ore 16 del 18 marzo 1768. Sino alla fine tenne in mano la penna. Secondo quanto sembra, il suo corpo venne trafugato dal cimitero di St. George e condotto a Cambridge: lì fu usato in una lezione di anatomia, e poi riportato a Londra per essere seppellito una seconda volta. Sono certo che questa storia sarebbe piaciuta moltissimo a Sterne — tanto egli aveva giocato lietamente e assurdamente con la morte ed i cadaveri.


La funzione di pastore imponeva a Sterne di venerare Dio: in uno dei suoi sermoni parlò dell’«Essere sempre sul nostro capo e vicino al nostro letto»; e nel Tristram Shandy zio Toby esaltò «la grazia e l’assistenza di quell’Essere che è il migliore di tutti». Dunque Sterne credette in Dio. Forse: probabilmente; sebbene nel suo caso le parole credere e fede debbano essere dette e subito dimenticate; egli credeva e aveva fede in tutto e in nulla. Non possiamo negare che, qualche volta, conversasse con Satana: forse lo incontrò in un salotto di Londra, o viaggiò velocemente insieme a lui, come con un compagno silenzioso; ma non aveva per Satana nemmeno una piccola parte di quell’oscuro e tenebroso rispetto che nutrivano per lui molti tra i suoi amici libertini.
Sterne e il suo libro vissero sotto il segno di Ermete Trismegisto, che prestò il proprio nome a Tristram Shandy. Egli aveva un temperamento «mercuriale», ora grave ora frivolo: coltivava sia l’Uno sia il molteplice. Come Ermete, la sua mente aveva molte forme, pieghe ed aspetti: molti colori: si volgeva, sempre sinuosa, da tutte le parti: amava le cose segrete e nascoste: era flessibile: si trasformava incessantemente; come la mente di un attore di genio, Garrick, che Sterne esaltava.
Se la realtà era molteplice, Sterne diventava ancora più molteplice e diverso. Detestava la linea retta, la rigida e implacabile simmetria, i progetti coerenti dei teologi e dei filosofi. Invece di seguire la via diretta, andava indietro, poi avanti, poi di nuovo indietro. Coltivava le incoerenze, le contraddizioni, le discordanze, le interruzioni, le digressioni, sebbene cercasse (qualche volta) di risolverle in un misterioso equilibrio. Giocava con il possibile e l’impossibile, con il probabile e l’improbabile, che preferiva al reale e al certo. Pensava che «divagare faccia bene alla salute»: mentre stare immobile provoca malattie; soltanto il movimento ci salva. Era un modo per sconfiggere il tempo degli orologi, il nostro grande nemico, sostituendolo con un tempo esclusivamente mentale, dominato dal capriccio, dall’estro e dal ghirigoro. Tutto è fluido, ambiguo, pieno di vuoti, di strappi e di nodi, talvolta di grovigli: ogni minima cosa assomiglia a una «matassa intricata», a una «ragnatela». Sterne amava l’incompleto: difatti il suo libro non finisce mai, o finisce all’improvviso, o meglio non sappiamo mai se sia veramente finito.
Sterne viaggiava con grande piacere: «Il viaggio — disse — è stato il periodo più fruttuoso della mia vita». Come lui il suo libro viaggia all’impazzata, fuggendo vittoriosamente la morte, imitando la corsa dei cavalli e delle carrozze, interrotta ogni tanto da imprevedibili soste, e guardando ora davanti ora indietro ora di lato. Ogni momento del viaggio è ricchissimo: pieno di tantissime cose da pensare, da sognare, da fare e da dire. A volte gli obiettivi desiderati non esistono affatto. Il viaggio non ha mai lo stesso ritmo: ora è lento, fino a far addormentare i viaggiatori; ora furioso e velocissimo.
Sterne cominciava a scrivere la prima frase, e «per la seconda si affidava a Dio onnipotente o al caso»: coglieva al volo l’idea, talvolta addirittura prima che essa lo sfiorasse. Stava al tavolo o disteso sul letto, indossando un farsetto viola e un paio di pantofole gialle, senza parrucca e senza berretto. Se talvolta si ritrovava «con una vena fredda, vuota di metafore», questa aridità non durava mai a lungo, perché l’ispirazione tornava sempre a visitarlo allegramente. Ma scrivere un libro era molto più difficile che risolvere un arduo problema di geometria. Ora il libro era una musica: ora una recitazione teatrale, sotto il segno di Garrick: ora un difficilissimo gioco di carte; stava seduto a un tavolo e accanto a lui e dietro le sue spalle c’era il diavolo. Quasi sempre il libro era una conversazione con un lettore visibile o invisibile e al tempo stesso una enciclopedia — divisa in frammenti minimi, minimissimi, quasi invisibili.
Sterne era posseduto da due sentimenti opposti. Da un lato, il suo libro avrebbe potuto essere diverso trasformandosi, come «un’opera rapsodica», in una forma eventuale e imprevedibile. «Quando uno si mette a scrivere — insisteva — non immagina neppure quali intoppi e dannati ostacoli dovrà incontrare sul suo cammino». Non si può progettare e calcolare niente: o, almeno, niente di preciso. Lo scrittore ha un gran numero di versioni e tradizioni diverse da raccogliere, decifrare, conciliare. Alcuni capitoli del libro non contengono «un bel nulla»: altri sono progettati, accarezzati, ma non scritti; altri ancora non vengono compresi da nessuno, nemmeno dall’autore. La prefazione appare — improvvisa, inattesa — a metà del libro. Bisogna rinviare incessantemente le parole verso la fine, che però non esiste. E poi, chi ha veramente scritto il Tristram Shandy? Sterne ripete che non l’ha scritto lui. Ma chissà chi: forse l’intelligentissimo padre di Tristram: certo un altro – quell’altro – che Sterne portava dissimulato, nelle oscure e trasparenti profondità della sua natura.
Come diceva Nietzsche, non sappiamo mai cosa Sterne pensasse: certo discorreva su qualsiasi argomento: giungendo, come Raimondo Lullo, a tale perfezione «nell’usare i verbi ausiliari, che in poche lezioni riusciva a insegnare a un giovane a discorrere con proprietà su qualsiasi argomento»: pro e contro, dicendo e scrivendo tutto quello che si poteva, senza cancellare una sola parola. Sorrideva, rideva: convinto che «ogni volta che uno sorride — ma ancor più quando ride —, ciò aggiunge qualcosa a questo frammento di vita». Tutti i personaggi ridono di tutte le cose, ma sopratutto di sé stessi, con un riso unico, che parodizza lo stesso riso. Poi all’improvviso, come Cervantes, diventano gravi: o piangono con lacrime di cui non riusciamo a comprendere il significato — lacrime assolute che splendono a tratti sulle loro ciglia. Chi potrebbe essere più sensibile di loro? Come Rousseau, Sterne amava questa parola, sensibile; e la tenera e complicata compassione, e l’avvolgente malinconia, che Dürer aveva rappresentato mirabilmente nella figura di un angelo. Poi, all’improvviso, Sterne scriveva contro la malinconia, «sollecitando con una risata il diaframma ad alzarsi e abbassarsi più frequentemente». Infine, si compiaceva di giochi osceni: stringeva l’occhio all’osceno; tingeva ogni riga, in modo quasi ossessivo, di allusioni erotiche. Ciò che contava era soprattutto l’arte della vibrazione — le vibrazioni nate nel «delicatissimo sistema dei nostri nervi», nel grande «Sensorio dell’uomo». Lì i nervi, incredibilmente sottili ed elettrici, colgono il movimento di un cappello che cade o il fruscio improvviso di una seta: ciò che deve ancora nascere — capricci, fantasmi vaganti, che non hanno ancora raggiunto la coscienza di nessuno.
Sterne conosceva perfettamente la tradizione che aveva alle spalle. Come Montaigne, amava Socrate . Gli importava poco delle idee di Socrate e di Platone: o non le amava, per lui le Idee che per Platone stavano lassù, nell’alto dei cieli, erano vibrazioni nervose. Gli piaceva Socrate perché andava in giro, oziava, vagabondava, interrogava, chiacchierava insaziabilmente degli eventi più futili (o più sublimi): gli piaceva per la sua incantevole naturalezza e il suo dilettantismo. Adorava gli Essais di Montaigne, il suo vero maestro. Lì le cosiddette idee erano «fantasticherie», «chimere», mostri fantastici, grotteschi, linee tortuose, ghirigori, riccioli, grovigli, salti di tema, divagazioni, contraddizioni. Il Tristram Shandy è gli Essais trasformato in romanzo: mobilissimo, inquieto, pieno di variazioni e di vagabondaggi.
L’altro grande modello di Sterne fu il Don Chisciotte di Cervantes. Adorava «l’impareggiabile cavaliere della Mancia, con tutta la sua follia, più del più valente eroe dell’antichità, tanto che sarebbe andato chissà dove pur di incontrarlo di persona». Per Sterne la felicità dell’umorismo cervantiano dipendeva dal fatto che descriveva eventi futili e insignificanti con tutta la gravità di quelli importanti. A volte Sterne ripeteva alla lettera frasi di Montaigne, del Don Chisciotte, o dell’Anatomia della malinconia di Robert Burton, «torcendo o sbrogliando sempre la stessa corda». Era uno sfrontato plagiario: eppure, proprio plagiando riusciva a trovare, come avrebbe detto Borges, la propria natura irripetibile.
Sebbene vivesse sopratutto di libri, spesso Sterne rappresentava eventi storici reali, come la guerra tra la Spagna e l’Impero: le battaglie accadute, qualche decennio prima, in Francia e nelle Fiandre, a Dunkerque, o a Amberg, o Landen, o Limburg, o Bonn, o Drusen, o Dendermonde. Il mitissimo zio Toby, a volte, anticipava la storia: adorava la guerra; e lui e il fedele caporale Trim riproducevano tutto ciò che era accaduto nelle Fiandre e in Francia nel campo di bocce vicino a casa. Così la storia diventava minuscola, e veniva parodiata e ridicolizzata.
Spesso Sterne parlava dell’Inghilterra. L’amava perché era un paese inquieto, bizzarro, sregolato, eccentrico: il luogo della Fortuna — dunque il paese migliore della terra, dove era felice di vivere. Solo in Inghilterra riusciva ad abitare nel suo vero luogo: l’altrove.

4 gennaio 2017 (modifica il 5 gennaio 2017 

giovedì 5 gennaio 2017

André Gide

Il curatore testamentario dell’800: addio Balzac, Dickens, Tolstoj Storia di un romanzo in un romanzo che si disinteressa del romanzo




La cosa che più colpisce de I falsari di André Gide — a quasi un secolo dalla sua uscita — è la grandiosa entità del suo fallimento, almeno secondo il canone balzacchiano, peraltro dallo stesso Gide spavaldamente rifiutato.
Dialoghi declamatori, personaggi evanescenti, quasi indistinguibili l’uno dall’altro, ambienti astratti e disinfettati. Nessuno ha freddo, nessuno suda, nessuno ha fame o sete, nessuno che mostri impulsi autentici per il prossimo. Come se tutto fosse imbalsamato nella cera preziosa della prosa gidiana. Una scrittura incantevole che sancisce il primato di Gide nella generazione di grandi scrittori francesi per cui lo stile era un doveroso compromesso tra eleganza, sobrietà e precisione: Radiguet, Cocteau, Rivière, Thibaudet, Valery Larbaud.
La verità è che Gide — così come parecchi suoi sodali della «Nouvelle revue française» — aveva un conto in sospeso con la narrativa che non riuscì mai a sanare. Non a caso I falsari è la sola opera a cui si sentisse di dare il nome di romanzo. In esso confluiscono tutti i suoi motivi: egotismo, denuncia dell’ipocrisia borghese, pederastia, gelosia, dialettica tra angelismo e demonismo, e soprattutto il generoso ricorso alla tecnica che lo rese celebre: la mise en abyme , ovvero il romanzo nel romanzo, il quadro nel quadro.
Leggendo I falsari vengono subito in mente I ragazzi terribili ; e anche se Gide non possiede il tocco frivolo e surreale di Cocteau, si vede che ha maggiore sostanza e consapevolezza. L’ambiente è quello dei Bobo parigini: chi è alle prese con gli ultimi palpiti dell’adolescenza; chi, ormai alle soglie della maturità, è pronto a misurarsi con smodate ambizioni artistiche. Bernard, Olivier, il conte di Passavant e Edouard (protagonista e alter ego dell’autore) intrecciano un complicato ménage à quatre senza sbocchi.
L’intreccio romanzesco interessa talmente poco Gide che finisce con il non interessare neppure il lettore: riassumere la trama de I falsari non solo è impossibile, ma vorrei dire persino fuorviante.

Insomma, cos’è che non funziona in questo romanzo e nella narrativa di Gide in genere? Cos’è che la rende così distante da noi? Gianfranco Rubino ha parlato giustamente dell’eccesso di coscienza anteposto «all’esperienza concreta delle cose». L’ossessiva, dolente ruminazione sul romanzo da scrivere lo emoziona mille volte di più del romanzo stesso. Per questo i diari di Edouard occupano uno spazio così rilevante nel libro, fin quasi a costituirne l’impalcatura. In essi Edouard medita sul romanzo che sta scrivendo intitolato per l’appunto I falsari , destinato peraltro all’ennesimo naufragio. Eccole qui le famose matrioske di Gide: una svanisce nell’altra portando via con sé ogni urgenza romanzesca.
Ma allora perché questo libro è così importante? Perché resiste nel nostro immaginario come una pietra miliare? Perché è uno dei massimi contributi francesi all’arte del romanzo? Forse proprio per la maestosità del suo fallimento.
Nella prefazione ai Diari gidiani (appena pubblicati da Bompiani, uno degli eventi editoriali del 2016) Piero Gelli, il grande editore che da anni lavora su Gide, sottolinea il conflitto tra esigenze introspettive e necessità narrative. Gelli nota come tutto quello che Gide racconta serva «a rivelare, a illuminare, oppure a offuscare aspetti della sua personalità». L’idea di Gelli pare confermata da un appunto che Gide stesso prende l’11 novembre 1924, pochi mesi prima dell’uscita de I falsari : «Ammiro certi romanzieri che sanno sempre tutto. Quanto a me, più che inventare, preferisco ammettere: non so. Ascolto i miei personaggi, sento quel che dicono, ma quel che pensano e sentono? Se comincio a lavorare d’induzione, mi sovrappongo a loro (...). Solo la massa capisce la massa; la comunione di sentimenti e di pensieri appartiene alla gente comune».

Un pensiero ineccepibile. Chi scrive narrativa deve essere disposto a sporcarsi le mani con la gente comune: lo sapeva Balzac, lo sapeva Flaubert, lo sapevano persino scrittori apparentemente elitari come Joyce e Proust. Intendiamoci, ne è consapevole anche Gide ma se ne infischia. Se deve scegliere tra sé e i suoi personaggi non ha mai dubbi e si richiude in se stesso. Per questo non c’è un suo personaggio che non finisca con il somigliargli, fin quasi alla sovrapposizione. È come se Gide sabotasse deliberatamente i suoi romanzi.
A un certo punto Edouard, il protagonista de I falsari , riflette su come «i romanzieri con la descrizione troppo esatta dei loro personaggi disturbano l’immaginazione invece di servirla». Per lui «sarebbe molto meglio lasciare a ogni lettore l’arbitrio di raffigurarsi i personaggi». Che non sia questo il problema? Gide non aiuta il lettore, lo lascia solo a se stesso, lo immagina più intelligente e ambizioso di quanto non sia. In tal modo decostruisce l’idea stessa di romanzo, viola il patto segreto che unisce gli autori ai lettori. È più interessato alla macchina narrativa che alla mera narrazione dei fatti. Ecco perché I falsari è un romanzo così importante, è come se Gide volesse caricarsi sulle sue possenti spalle le esperienze di tutti coloro che hanno scritto romanzi senza crederci troppo, e che proprio come lui hanno scelto di boicottarli: da Sterne a Nathalie Sarraute, da Diderot a Thomas Pynchon. Forse i falsari contro cui si scaglia sono anche i romanzieri che credono troppo nei propri romanzi e che in tal modo stampano moneta falsa: Balzac, Dickens, Tolstoj, solo per citare i più eminenti. Gide non ci sta. Lui si ribella. È come se dicesse: no, non mi avrete. Nessuno leggerà un mio romanzo sotto un ombrellone su una spiaggia affollata. Così Gide diventa il curatore testamentario della grande tradizione romanzesca ottocentesca, aprendo la via al romanzo-non-romanzo che tanta fortuna avrà nel secondo dopoguerra.
Nel famoso coccodrillo che dedicò a Gide su «Temps modernes», Jean-Paul Sartre scrive: «L’arte di Gide vuole creare un compromesso tra il rischio e la norma; in lui si equilibrano la legge protestante e l’anticonformismo dell’omosessuale, l’individualismo orgoglioso del grande borghese e il gusto puritano del rispetto sociale e anche una certa aridità, la difficoltà a comunicare e un umanesimo di marca cristiana, una sensualità viva ma che si vorrebbe innocente; il rispetto della norma vi si unisce alla ricerca della spontaneità».

Come spesso gli capita quando indossa i panni del saggista, Sartre mette il dito nella piaga. Non parla esplicitamente dei romanzi di Gide, ma allude al suo modo dialettico di porsi di fronte all’arte e alla vita. Gide sta sempre in mezzo, tituba, sospetta. Balzac no: chi sceglie di raccontare, non dubita mai.

Papiro Derveni


Aristotele prima di Platone



Il contenuto del papiro di Derveni precede i «Dialoghi»
ma anticipa temi trattati nella «Metafisica» dal filosofo di Stagira

di MAURO BONAZZI


Serve l’intervento del caso, a volte, per rivelare affinità inattese e giustificare gli accoppiamenti più improbabili. Per una coincidenza editoriale, sui banchi delle librerie i lettori troveranno presto accostati due studi, dedicati rispettivamente al libro più antico e a quello, tra i libri antichi, più famoso e importante. La Metafisica di Aristotele, di cui Enrico Berti offre una nuova traduzione commentata per Laterza, è il più famoso. Il più antico, il primo libro vero e proprio giunto a noi, è un rotolo di papiro (così erano fatti i primi libri) trovato a Derveni, nella Macedonia greca, durante la costruzione di un’autostrada, nel 1962. Il rotolo di pregevole fattura, scritto con eleganza, faceva parte del corredo funebre di un importante generale della corte macedone, vissuto nel IV secolo a. C.. Doveva essere bruciato con tutto il resto, gioielli, armi, materiali preziosi; un colpo d’aria lo aveva spinto in un angolo e si era salvato: carbonizzato e ancora perfettamente leggibile. Leggibile, ma non facile da capire: si evocavano i supplizi dell’Ade, si raccontava di storie terribili, di combattimenti tra gli dèi e della creazione dell’universo. Un testo misterioso, così complicato che si sono dovuti attendere anni prima di avere un’edizione attendibile (2006) e studi come quello di Valeria Piano, edito da Olschki, per apprezzarne l’importanza. Il papiro intanto è diventato patrimonio dell’Unesco.
Se il problema del papiro era il fuoco, quello della Metafisica fu l’umido: si racconta (ma è una storia troppo avventurosa per essere tutta vera) che i trattati di Aristotele, dopo la sua morte nel 323 a. C., fossero finiti in una cantina di Scepsi, cittadina della Troade; e lì erano rimasti a lungo, preda della muffa, fino a che li trovò Apellicone, un personaggio opaco, ma un vero bibliomane, per fortuna. Li portò ad Atene, proprio quando i Romani la assediavano. Ancora rischi: sono gli anni in cui fu distrutta l’Accademia di Platone (86 a. C.). Ma i libri si salvarono. Li prese Silla, il generale, come bottino di guerra, e finirono a Roma. Dove tutti li guardavano perplessi: che cosa significassero quelle pagine, in cui si attaccava Platone, si parlava dell’essere e si descriveva Dio come un motore, non era chiaro a nessuno (e Cicerone infatti, grande esperto di filosofia greca, si guardò bene dal farne menzione). Ma il fascino che emanavano era troppo forte, e col tempo tutti si misero a leggere. Stava per essere dimenticato, Aristotele, invece è diventato «il maestro di color che sanno».
Due libri enigmatici, arrivati fino a noi grazie all’interesse di due generali. Ma non è solo questa curiosità a unirli. La Macedonia era considerata una terra di frontiera; le radici greche dei suoi abitanti venivano messe in dubbio; i suoi sovrani erano additati come barbari. I ritrovamenti archeologici più recenti mostrano che non è così: e infatti molti tra i più raffinati intellettuali di Atene — Euripide, Agatone, il pittore Zeusi, Tessalo di Cos, figlio di Ippocrate — risposero solleciti agli inviti dei re macedoni. Con Platone che orchestrava tutto da lontano. A controllare la vita di corte era un suo allievo, Eufreo: aveva proibito l’accesso alla mensa del re per chi non sapesse di geometria e filosofia. È in questo mondo che il giovane Aristotele, il figlio del medico di corte, iniziò i suoi studi; ritornandovi poi tante volte, come quando fu incaricato di educare Alessandro Magno, il futuro dominatore del mondo. Erano altri tempi, quando generali, politici e pensatori ancora stavano insieme, discutendo di teologia, scienza e filosofia.

Perché un generale volesse essere seppellito proprio con quel libro rimane oscuro. O forse no: i miti e le tradizioni di cui si parla nel papiro di Derveni sono quelli dell’orfismo, un culto misterico che prometteva la felicità eterna ai suoi adepti. Tanti scavi, in diverse parti del mondo greco, hanno riportato alla luce delle laminette dorate che si lasciavano vicino ai defunti: contenevano indicazioni precise sul percorso che l’iniziato avrebbe dovuto compiere per arrivare alla fonte dell’immortalità. Era un culto incoraggiante per chi, come i soldati, con la morte aveva a che fare tutti i giorni.
Ad Aristotele, invece, il papiro avrebbe potuto interessare per un’altra ragione: per lo sforzo di spiegare e chiarire, per il tentativo di fare ordine nel mondo caotico del mito e delle credenze religiose. Con ogni probabilità il rotolo di Derveni precede i Dialoghi di Platone ed è quindi il più antico trattato di filosofia a noi pervenuto. Il mondo che ci circonda, la natura con i suoi cicli di nascita e morte, ha un qualcosa di misterioso e potente: la credenza nel divino, con tutto il suo corredo di miti e riti, nasce come un primo tentativo di risposta. Lo sforzo, a volte titanico, dell’anonimo autore è mostrare che c’è una logica dietro l’apparente follia dei miti. Nei miti si celano dei «segni», scrive, che bisogna saper interpretare con l’aiuto di filosofi e scienziati. La realtà non è caos; nasce dal caos ma è ordine e forma, perché tutto è governato da una mente divina. I miti di questo parlano, della trama divina che innerva la realtà, e le dà vita.
Con altre parole e uno stile diverso, è la storia della Metafisica . «Gli uomini per natura desiderano sapere». Vogliono capire il senso di ciò che accade. E questo è possibile solo quando si comprendono le cause dei fenomeni. La filosofia, spiega molto bene Berti, è per Aristotele prima di tutto questo, un sapere che spiega la ragione delle cose. Ma affinché il discorso abbia senso, bisogna individuare le cause prime da cui tutto dipende; una ricerca che si perdesse in un’infinita catena causale sarebbe vana. Anche Aristotele, come gli iniziati orfici, deve così compiere un viaggio, seguendo segni e indizi. Il nostro è un mondo in cui tutto cambia e si trasforma: in cui c’è movimento. Ma qual è la causa di questo movimento? Per tutto ciò che viene mosso ci deve essere un motore che lo muove; e se non si vuole procedere all’infinito bisogna ammettere che all’origine c’è un motore che muove senza essere mosso. Un motore immobile, dunque; privo di materia, perché la materia è sempre trasformazione e movimento; ma se non è materia, sarà per forza pensiero. Una mente, allora, un intelletto. Dio, tutti i pensieri del mondo. Il Dio dei filosofi, che muove «come un oggetto amato»: non è lui a imprimere il movimento, sono gli altri esseri che si muovono per desiderio di lui, per cercare di raggiungere e imitare la sua perfezione. L’universo, nella sua irripetibile bellezza e unicità, si rivela in questa tensione, nello sforzo di organizzarsi intorno al suo principio. Come il girasole di Montale: «impazzito di luce», dimentico del «terreno bruciato dal salino», sempre rivolto agli «azzurri specchianti del cielo», «dove vapora la vita come essenza».

«Più sono vecchio e più trovo consolazione nel mito», scriveva Aristotele, ormai anziano. Le convergenze con il papiro in effetti non mancano. Ma la filosofia lo aveva ormai condotto altrove. La teologia orfica raccontava di un uovo primordiale, in cui tutto era contenuto e da cui tutto proveniva — una curiosa anticipazione del nostro Big Bang. Un’idea sbagliata per il grande filosofo: dietro ogni movimento c’è un motore, prima di ciò che è imperfetto c’è sempre ciò che è perfetto, già realizzato. L’atto precede sempre la potenza. E la gallina l’uovo. Viene sempre prima la gallina: l’ordine è eterno, ed eternamente si rinnova. Chi avrà ragione? Durerà per sempre l’universo (Aristotele) o verrà il giorno in cui Zeus, come un enorme buco nero, inghiottirà tutto (papiro)? Difficile rispondere, come spiegava Paolo de Bernardis su «la Lettura» #263. Le ricerche continuano. Una cosa però è certa: non erano poi così barbari quei Macedoni.

MORIRE

  www.leggo.it  del 5 aprile 2024   JULIE MCFADDEN- 1 Julie McFadden è un'infermiera molto famosa sui social perché condivide le sue esp...