sabato 31 dicembre 2016

Aristotele contro Hawking

La filosofia serve alla scienza?
di Carlo Rovelli
Alcuni mesi fa mi è stato chiesto di tenere una conferenza alla London School of Economics, in Gran Bretagna, sul tema: Serve la filosofia alla scienza? . La conferenza doveva chiudere il congresso europeo di filosofia della fisica, e implicitamente rispondere a una serie di recenti commenti pubblici molto negativi sulla filosofia, da parte di miei colleghi assai noti: Stephen Hawking, per esempio, ha scritto che la filosofia è morta perché ora abbiamo la scienza; e un capitolo di un libro del premio Nobel Steven Weinberg si intitola appunto Contro la filosofia . Ho accettato. Per simpatia verso i filosofi. Senza sapere bene che cosa avrei detto. E ho cominciato a studiare. Ma sono incappato in un colpo di fortuna. Come un ragazzino che copia un compito difficile, ho trovato il tema già svolto in maniera eccellente in un inedito di un giovane senza dubbio molto più bravo di me: Aristotele.
Nel IV secolo prima dell’era volgare, all’Accademia di Platone studiavano rampolli delle migliori famiglie ateniesi. Ma l’Accademia non era l’unica scuola della città. Altre scuole ne contendevano il primato e fra queste eccelleva quella di Isocrate. Fra la scuola di Platone e quella di Isocrate vi era fiera rivalità. Non tanto sulla qualità, quanto sul metodo. L’educazione all’Accademia era basata sulle idee di Platone, che riteneva che di ogni cosa fosse opportuno studiare i fondamenti. Non imparare a fare i giudici, scolpire statue o governare città, ma chiedersi che cosa siano giustizia, bellezza, o la città ideale. Platone aveva trovato un nome destinato a lungo destino, per questo modo originale di educare i giovani e sviluppare conoscenza: l’aveva chiamava, appunto, «filosofia».
Isocrate, dal canto suo, riteneva questo approccio «filosofico» al sapere inutile e infruttuoso. Scrive per esempio: «Coloro che fanno filosofia magari qualcosa sanno fare, ma in ogni caso molto peggio di chi prende parte direttamente alle attività pratiche. Chi invece non si occupa di argomenti filosofici ed è educato direttamente in un’attività pratica, risulta in ogni caso migliore. Quindi per le arti e le scienze la filosofia è del tutto inutile». Più o meno, sono le stesse parole usate da Hawking e da Weinberg per criticare la filosofia, oggi.
A queste critiche, risponde un giovane brillante studente dell’Accademia: Aristotele, appunto. La risposta, in forma di dialogo, lo stile di Platone, è intitolata Protrepticus, che significa più o meno «invito» (alla filosofia). Aristotele risponde alle critiche di Isocrate e discute perché la filosofia, lo studio dei fondamenti e dei concetti astratti, sia utile alle arti e alle scienze concrete. Il tema della mia conferenza.
Il Protrepticus era un testo ben conosciuto nell’antichità, citato da molti autori. Fino a poco tempo fa era considerato perduto. Di Aristotele ci resta un corpus di opere consistente, ma tutte molto più tarde, scritte dopo che Aristotele lascia l’Accademia e Atene, passa del tempo sull’isola di Lesbo, studiando pesci e altri animali, e fondando la biologia, si occupa di fare da tutore al giovane futuro padrone del mondo, Alessandro Magno, e alla sua banda di amici che più tardi si divideranno l’impero e formeranno le famiglie regnanti del mondo ellenistico (riempiendolo di idee e valori aristotelici); e infine torna ad Atene, dove apre la sua scuola, il Liceo.
I testi di Aristotele che ci restano sono probabilmente manuali del Liceo, nessuno in forma di dialogo. Il dialogo giovanile sull’utilità della filosofia, il Protrepticus, invece, si è perso nell’immenso disastro culturale che è stata la cristianizzazione dell’impero, con la distruzione sistematica e brutale del sapere pagano, iniziata con i decreti dell’imperatore Teodosio nel IV secolo (con la conseguente distruzione della biblioteca di Alessandria, probabilmente dovuta al patriarca Teofilo e al suo successore Cirillo, santo) e continuata fino a Giustiniano, che nel 529 ad Atene chiude l’ultima incarnazione dell’Accademia.
O almeno, pensavamo che il Protrepticus fosse perso. Diversi sono i tentativi di ricostruirlo sulla base dei frammenti. In Italia il Professor Enrico Berti dell’Università di Padova ne ha pubblicato una ricostruzione presso la UTET. Recentemente, due studiosi americani, Douglas Hutchinson, dell’Università di Toronto, e Monte Ransome Johnson, dell’Università della California a San Diego, lo stanno ricostruendo in forma di dialogo, e ritengono di esservi già parzialmente riusciti. La ricostruzione è basata principalmente su un esteso testo di Giamblico, autore greco della tarda antichità (250-330 d.C. circa). Giamblico copia sistematicamente intere pagine dell’autore di cui sta esponendo le idee, e questo ha permesso a Johnson e Hutchinson di estrarre dai suoi testi una plausibile ricostruzione del dialogo di Aristotele. Il testo è online, a disposizione di tutti (Aristotle’s Protrepticus, http://www.protrepticus.info).
Un po’ per gioco e un po’ per curiosità ho provato a leggerlo. Ed è stata una sorpresa: gli argomenti di Aristotele sull’utilità della filosofia per la scienza sono attuali. Per la mia conferenza, bastava copiarli e aggiornarli un po’.
Il primo argomento è il più divertente, ma è sottile. Coloro che criticano l’utilità della filosofia per le scienze — nota Aristotele — non stanno facendo scienza: stanno facendo filosofia. Quando Hawking e Weinberg scrivono che la filosofia è inutile alla scienza, non stanno risolvendo un problema di fisica: stanno riflettendo su cosa sia utile, quale metodologia e struttura concettuale siano opportune, per fare scienza. Riflettere su questo è ciò che fa la filosofia. Lo stesso atteggiamento spavaldamente pragmatico e «anti-filosofico» di Hawking e Weinberg ha origine proprio nella filosofia. Lo si può facilmente far risalire ai filosofi della scienza che hanno influenzato quella generazione di scienziati: il positivismo logico, con la sua retorica anti-metafisica, poi Karl Popper e Thomas Kuhn. Hawking e Weinberg enunciano idee che provengono dalla filosofia della scienza. E neanche idee aggiornate, perché nel frattempo la filosofia della scienza ha fatto utili passi avanti…
Il secondo argomento di Aristotele è il più diretto: l’analisi dei fondamenti ha di fatto influenza sulla scienza. Se nel IV secolo questo poteva forse essere un auspicio, oggi è un’evidenza storica: l’influenza del pensiero filosofico sulla migliore scienza occidentale è stata pesante e persistente: Isaac Newton non sarebbe esistito senza René Descartes, Albert Einstein ha imparato direttamente da Gottfried Wilhelm von Leibniz, George Berkeley ed Ernst Mach, e dai testi filosofici di Henri Poincaré; per non parlare del fatto che leggeva Arthur Schopenhauer la sera prima di dormire. L’influenza del positivismo su Werner Karl Heisenberg, lo scopritore della meccanica quantistica, è trasparente nei suoi articoli. E la fisica americana del dopoguerra non sarebbe concepibile senza l’influenza del pragmatismo. E così via, l’elenco è lunghissimo. Il pensiero filosofico apre possibilità, libera da pregiudizi, svela incongruenze e salti logici, suggerisce nuovi approcci metodologici, e, in generale, apre la mente degli scienziati a possibilità nuove. È sempre successo in passato, e continua a succedere.
Il motivo di questa importanza del pensiero filosofico è nel fatto che lo scienziato non è un essere razionale puro con un bagaglio concettuale fisso che lavora su dati e teorie: è un essere reale il cui bagaglio concettuale è in evoluzione continua, a mano a mano che il sapere cresce. L’elaborazione della struttura concettuale generale è ciò di cui i filosofi sanno occuparsi. È soprattutto sulla metodologia, che è tutt’altro che statica nella scienza, che la filosofia interferisce con la scienza: «La filosofia — scrive Aristotele — offre una guida su come la ricerca deve essere condotta».
Il terzo argomento di Aristotele è una semplice notazione: le scienze hanno bisogno della filosofia in particolare là «dove le perplessità sono maggiori». Quando la scienza attraversa periodi di forte cambiamento, in cui concetti di base sono rimessi in discussione, ha più bisogno della filosofia. Un esempio è proprio il momento attuale, in cui la fisica fondamentale affronta il problema della gravità quantistica, su cui lavoro, dove le nozioni di spazio e tempo sono ancora una volta rimesse in discussione, e le vecchie argomentazioni sullo spazio e sul tempo, da Aristotele a Kant, fino a David Lewis, tornano attuali.
No, la filosofia non è inutile per la scienza. Ne è fonte vivissima di ispirazione, critica e idee. Ma se la grande scienza del passato si è nutrita di filosofia, è anche vero che la grande filosofia del passato si è appassionatamente abbeverata di scienza. David Hume e Immanuel Kant sono incomprensibili senza l’opera di Newton. O Cartesio senza Niccolò Copernico, o Aristotele senza i fisici presocratici, o Willard Van Orman Quine senza la relatività di Einstein. Perfino filosofi come Edmund Husserl e Georg Wilhelm Friedrich Hegel, che sembrano più lontani dalla scienza contemporanea, prendevano la scienza del loro tempo come modello di riferimento.
Chiudere gli occhi al sapere scientifico attuale, come fa oggi, ahimè, parte della filosofia di alcuni Paesi europei, è, a mio giudizio, solo ignoranza. Ancora peggiore è l’atteggiamento di quelle correnti filosofiche che considerano il sapere scientifico «inautentico» o di serie B, oppure una forma di organizzazione dei pensieri arbitraria e non più efficace di altre. Mi ricordano i due vecchietti pensionati sulle panchine dei giardini: uno borbotta: «Che presuntuosi gli scienziati: pensano di poter capire la coscienza, o l’origine dell’universo!», e l’altro: «Che presuntuosi. È ovvio che non possono arrivarci! Noi invece sì che le capiamo!».
Il nostro sapere è incompleto, ma è organico: cresce in continuazione e ogni parte ha influenza su ogni altra. Una scienza che chiude le orecchie alla filosofia appassisce per superficialità; una filosofia che non presta attenzione al sapere scientifico del suo tempo è ottusa e sterile. Tradisce la sua stessa radice profonda, quella della sua etimologia: l’amore per il sapere.

Aristotele contro l'Isis




Globalizzazione e capitalismo, colpe dell’America e religione Perché il dibattito sulle cause non regge a un’analisi filosofica

Dal 1945 si sono succedute tre ondate di terrorismo di origine mediorientale: quella legata, ad esempio, a Settembre nero; Al Qaeda; lo Stato islamico. Per comprendere gli scenari dobbiamo tornare al pensatore greco
Nel caldo estivo, in vacanza sui monti ungheresi, una delle più grandi voci contemporanee decide di trascorrere il suo tempo mettendosi al lavoro per aiutare gli studi di una ricercatrice universitaria interessata a indagare i falsi ragionamenti sul fondamentalismo e sul terrorismo di matrice islamica. È accaduto proprio così con Ágnes Heller, filosofa ungherese nata nel 1929, esponente della «Scuola di Budapest», una corrente filosofica del cosiddetto «dissenso dei Paesi dell’Est europeo». La Heller è stata anche allieva e assistente del filosofo e critico letterario György Lukács, rappresentante del marxismo umanistico.
Nella Heller si ritrova tutta l’attenzione all’umanità fragile ma onesta, quella di cui parla anche nella Bellezza della persona buona (Diabasis), quando propone di ritornare alla categoria classica di unione fra Bello e Buono che così violentemente è stata scissa dalla filosofia moderna. La brutalità dell’età postmoderna, continuamente in ansia per la precarietà del quotidiano a causa del terrore che colpisce ovunque, segnala, secondo la Heller, la necessità di un individuo che manifesti le sue azioni buone, affinché queste azioni, una volta evidenti, espandano vera bellezza. Nei successivi dialoghi con Ágnes Heller, da Budapest, abbiamo parlato di un’umanità che sente l’esigenza dei grandi gesti di Papa Francesco, come quello in cui si è posto in contemplazione silenziosa dinanzi al campo di sterminio di Auschwitz. Occorre tornare a un metodo di discernimento aristotelico, srotolare le varie argomentazioni e rendersi conto, con spirito critico, di quanti errori di ragionamento ci portiamo dietro. Abbiamo la necessità di un Aristotele che ci aiuti a leggere la realtà.
La riflessione è questa, ma fatta con la competenza di una delle più autorevoli voci della cultura europea, che in passato ha dedicato alcune sue pagine, quasi del tutto ignote in Italia, ad Aristotele e al mondo greco (un piccolo scritto che andrebbe tradotto e pubblicato per la sua bellezza). La filosofa sarà ospite della Società Filosofica di Verbania il 7 settembre per parlare delle grandi utopie dei nostri tempi.
La Heller ha voluto proporre un testo, ragionato negli anni e aggiornato nei giorni scorsi, al pubblico de «la Lettura», anche per consentirci di comprendere, da questo scenario di terrore, a quale idea di progresso andiamo incontro. Di recente è stato pubblicato il volume di Carlo Altini Progresso (Edizioni della Normale), che ci aiuta a riflettere su questa categoria moderna che non si lega esclusivamente al ciclo naturale della vita, ma è indirizzata al perfezionamento del genere umano.
Ora, che cosa può accadere al «progresso», se da un processo di autoaffermazione della ragione ci si ritrova nello spazio vuoto dei fondamentalismi? E la filosofia che ruolo dovrebbe avere? A questa domanda la Heller ha risposto affermando che la filosofia oggi appare indebolita nel suo ruolo di formazione della coscienza civile: per alcuni sta diventando un gioco. Eppure ha ribadito: «Non diventerà mai uno svago come alcuni vorrebbero. Sarà sempre potente, farà sempre paura ai fondamentalismi. Questo però non vuol dire che i filosofi possono dar vita a una visione o a una moralità di Stato, altrimenti si darebbe origine all’intolleranza e a un’altra forma di terrore, quella promossa dagli intellettuali. Nelle nostre democrazie non potrà mai più tornare una moralità di Stato come accadde con Robespierre, il quale immaginava un’unica morale per tutto il popolo francese. Non è quello il compito della filosofia e della politica; inoltre la volontà giacobina non aveva nulla a che fare con lo Stato immaginato da Platone: un’utopia reazionaria più che rivoluzionaria». L’invito della Heller, oggi come ieri, è quello di mantenersi più fedeli alla linea aristotelica anche per la morale: rispettare in questo campo il dovere dell’immanenza.
Quando mi trovai a vivere da vicino l’11 settembre, mi dedicai ad analizzare questa nuova ondata di terrorismo dopo la Seconda guerra mondiale. La prima ondata aveva caratterizzato gli anni Settanta con diversi dirottamenti aerei e altri atti terroristici, per esempio, da parte dei palestinesi di Settembre nero. La terza ondata, quella odierna, riguarda l’Isis e si differenzia da quelle precedenti (per esempio da Al Qaeda) per due motivi. In primo luogo, i terroristi conducono una guerra su un vasto territorio, che pretendono di identificare come «Stato» e che loro stessi chiamano «islamico». In secondo luogo, identificano la loro ideologia totalitaria come una sorta di fondamentalismo islamico. È da questa terra che essi stabiliscono i loro nemici: tutte le altre religioni, inclusa una parte dell’islam, e la «cultura occidentale totalmente marcia». In questo modo l’Isis crede di avere diritto a compiere atti terroristici in ogni momento e ovunque, colpendo per primi gli Stati europei più vulnerabili, come la Francia e il Belgio.
Questi Stati sono i più esposti perché la loro popolazione musulmana è un terreno fertile di radicalizzazione. I terroristi di oggi sono anche sul suolo europeo, ma questo purtroppo genera molta confusio- ne, poiché alcuni politici (che devono preoccupare molto noi cittadini) parlano dei rifugiati come se fossero terroristi. Questa correlazione è il frutto di un modo di accostarsi alla realtà approssimativo e ignorante. Per quanto ne so, nessun profugo siriano ha preso parte agli attacchi terroristici più letali. Sarebbe una vergogna per l’Europa negare ospitalità a uomini e donne sopravvissuti alla violenza, accusandoli di violenze che non hanno mai commesso!
I fatti di queste ore ci stanno mostrando che l’Isis sarà sconfitto presto. Ma il terrorismo non lo sarà affatto. I totalitarismi riappaiono con nuove ideologie, propagandate da Stati, da movimenti e da gruppi. Il mondo è sempre stato un luogo pericoloso e lo è ancora.
Alcuni anni fa, scrivendo un testo per Oxford, dopo aver assistito direttamente all’ondata del secondo terrorismo — quella seguita agli attacchi alle Torri gemelle — ho provato a enucleare degli elementi critici per cercare di capire le radici del fenomeno e smascherare i falsi ragionamenti in materia. Quello che oggi vediamo ai confini con la Turchia, in Iraq, gli scenari in Libia, tutto questo fa parte di un mondo diverso dalla prima ondata di terrorismo e dalla seconda. Ci fa gioire l’arretramento dell’Isis, ma non capiamo quali scenari di terrore si possono aprire, quali si stanno chiudendo, in che cosa vanno a confluire.
Quando si parla di terrorismo, generalmente, si gira intorno sempre ai soliti argomenti. In primo luogo c’è la questione della «globalizzazione», cioè la distribuzione scandalosamente diseguale dei beni, il crescente divario tra ricchi e poveri e la povertà nel mondo, che rende furiose le persone svantaggiate. Il terrore, per alcuni, è una risposta alle ingiustizie, proprio come hanno mostrato le argomentazioni portate nelle grandi manifestazioni di Seattle o di Genova di qualche anno fa. È ovviamente, aggiungono, una risposta insensata.
Potremmo aggirare il terrorismo, dicono alcuni, soltanto ponendo fine alla globalizzazione, rompendo il potere del business internazionale e provando a ripristinare i mercati locali. Inoltre il terrorismo è una risposta al capitalismo, dicono altri, e si tratta di un assurdo «sistema» anticapitalista (anche se è clamorosamente sbagliato). Il capitalismo distrugge le forme tradizionali di vita, la religione e la morale. È edonista e decadente. Avvelena l’ambiente. Partendo da questo punto di vista, l’idea è che si possa porre fine al terrore con l’introduzione di tecnologie alternative.
In secondo luogo, vi è un altro argomento usato spesso: «L’America colpevole». Quest’argomentazione è buona per tutte le stagioni. Si dice: a) l’America è stata sempre storicamente colpevole, in particolare nelle sue relazioni con il mondo arabo e musulmano, che è stato costantemente umiliato dagli Stati Uniti. L’America, infatti, volle difendere in passato i dittatori militari del Pakistan; volle sostenere i fondamentalisti (Bin Laden compreso) in Afghanistan contro i sovietici; condusse un’indimenticabile (in negativo) guerra contro l’Iraq; continua ad aiutare i regimi reazionari del mondo arabo e non ha mai smesso di supportare Israele contro i palestinesi. Inoltre: b) l’America è fonte di abominio morale, poiché tollera l’omosessualità, l’amoralità delle donne, la droga, l’alcolismo e favorisce la cultura di massa.
In terzo luogo, c ’è l’argomento del «fondamentalismo islamico». Questo ragionamento è molto complesso, anche alla luce di ciò che fu Al Qaeda e di ciò che è l’Isis. Questo argomento presuppone che la guerra principale nella modernità sia una guerra culturale. Le culture europee e quelle musulmane non possono coesiste-
re. L’islam è inferiore alla cultura europea, ma sostiene, dal canto suo, di essere superiore. La furia, il risentimento e l’odio dell’islam sono componenti essenziali degli attacchi terroristici.
Nessuno degli argomenti appena citati spiega davvero gli atti terroristici, perché non è corretto partire esclusivamente con l’enumerazione delle cause. Cioè, spiegano l’evento (che è l’attacco terroristico), un evento contingente, con le sue cause sufficienti. Questo procedimento è ovviamente una sciocchezza filosofica, già ripudiata da Aristotele nella Metafisica. Anche se si potessero enumerare le cause sufficienti di un evento storico, cosa peraltro impossibile, l’evento rimarrebbe ancora contingente e del tutto non-com- preso. Aristotele diceva che uno ha bisogno di conoscere la causa finale e la causa formale, vale a dire l’essenza e la funzione di qualcosa, al fine di spiegare o di capire.
Le diverse argomentazioni appena fornite dunque non reggono. Aristotele le avrebbe subito confutate. Ad esempio, dubito che la globalizzazione sia responsabile di tutti questi mali. Il divario tra Paesi poveri e ricchi è davvero un problema generale ed è per questo che dovrebbe essere affrontato a livello globale — e non anti-globale. È evidente che solo una sorta di politica democratica e di redistribuzione sociale sarebbe in grado di affrontare la questione, anche se con una minima speranza di successo. Inoltre, non i poveri, ma alcuni tra i più ricchi sono le menti dietro il terrorismo globale e anche quelli che eseguono materialmente gli attacchi sono spesso figli delle classi medie.
Ora, che il capitalismo distrugge molte precedenti forme di vita è vero. Ad esempio, distrugge le monarchie tradizionali, le aristocrazie tradizionali, oltre che l’autosufficienza del mondo rurale. Eppure, se si getta uno sguardo attento ai leader e ai membri delle organizzazioni terroristiche, soprattutto al secondo tipo di terrorismo — quello seguito all’11 settembre —, si resta immediatamente colpiti nel notare che essi sono i veri beneficiari del capitalismo: essi devono la loro posizione alla decostruzione delle strutture tradizionali. Andando con la mente un po’ indietro negli anni, non credo che abbiamo dimenticato il fatto che il padre di Bin Laden, ad esempio, non era un principe o il figlio di un principe, ma un self-made man, un borghese, come lo era Atta, numero tre del terrorismo globale, protagonista degli attentati del 2001.
In una fase precedente, i migliori amici dei terroristi erano i dittatori, come quelli della Siria, dell’Iraq e della Libia. All’epoca gli attentatori erano leninisti, cioè fondamentalisti laici (e alcuni di loro lo sono ancora); oggi sono diventati quasi tutti musulmani fondamentalisti, compresi i terroristi del terzo tipo fra cui inseriamo l’Isis. Dalla nostra prospettiva attuale però è lo stesso, non cambia niente. C’è il fondamentalismo solo quando non ci sono più fondamenti.
Ovviamente anche l’argomentazione dell’America colpevole può essere tranquillamente confutata (e l’ho fatto dettagliatamente in altre sedi).
Ma cos’è il fondamentalismo alla base del terrorismo? Veniamo alla concretezza di Aristotele. Bisogna procedere in maniera logica e non avventurarsi in previsioni. Non sappiamo che tipo di estremismo si manifesterà in futuro. Ora dobbiamo affrontare la virulenza dell’Isis, che come tutti i terrorismi ha un nemico comune: non è il capitalismo, né è la tecnologia moderna. È la democrazia liberale, con i diritti umani e la laicità. Con laicità intendo la possibilità di scegliere tra avere una fede e non averla. Il nemico insito nella democrazia e nella laicità è la libertà. La modernità si basa sulla libertà, ma essa è un fondamento che non rientra nei fondamentalismi. In libertà si può optare di andare contro la libertà, si può scegliere liberamente la non-libertà. Tale è la scelta dei fondamentalisti. Essi non rinunciano alla modernità; essi non rinunciano al capitalismo o alla tecnologia moderna, anzi l’Isis ne fa uno strumento di potere. Rinunciano alla libertà e ai valori dell’Illuminismo. Il fondamentalismo è un fenomeno moderno, offre fondamenti in un mondo dove non ce ne sono. Ma i fondamentalismi sono presenti ovunque nel mondo moderno, anche tra i liberali. Il fondamentalismo appartiene anche alla storia (passata e presente) degli Stati Uniti. Un sistema chiuso di credenze (laiche o religiose) è un presupposto del terrorismo moderno, ma è solo uno tra i tanti.
La seconda condizione è un’organizzazione totalitaria. L’organizzazione totalitaria è stata inventata da Lenin nel 1903, al Congresso del Partito socialdemocratico russo in cui fondò la fazione bolscevica. Lenin creò un sistema-partito capace di operare come un esercito. Il centro emette comandi e ogni unità gerarchicamente strutturata dell’organizzazione, a tutti i livelli, obbedisce. Un tale partito, ha sostenuto Lenin, è in grado di operare in modo sicuro e underground, illegalmente. L’organizzazione è una totalità, perché si basa su una verità condivisa. Nella visione di Lenin, ogni membro deve accettare l’insegnamento marxista come la Verità assoluta. Egli ha aggiunto altre due caratteristiche importanti per l’immagine del suo potere. La democrazia e il liberalismo sono nemici assoluti, tra le altre ragioni, perché i liberali parlano soltanto di ideali, mentre i rivoluzionari sanno e devono agire. Il partito totalitario di Lenin è stato, infatti, una invenzione completamente nuova, ed è diventato, nella storia, il modello per i totalitarismi e i fondamentalismi successivi, come i partiti comunisti dell’Europa o dell’Asia, il nazismo e i partiti fascisti in Europa, in Medio Oriente e in America Latina.
È terribilmente difficile oggi per noi — con gli scenari complicati e le reti complesse del terrorismo — barcamenarci tra il fondamentalismo e il nichilismo, tra il fanatismo e il cinismo, tra le visioni del mondo completamente chiuse e il relativismo totale. Non v’è dubbio però che una solida base per il terrorismo è una visione nichilista del mondo e dell’umanità. Perché abbiamo — noi democratici e liberali — la necessità di scusarci per essere assolutamente convinti che la possibilità aperta per una navigazione in un mondo più rispettoso dei diritti individuali è il tesoro della vita moderna? Perché abbiamo così spesso bisogno di rifuggire dal dire semplicemente «no!», in modo non sofisticato e intellettualistico, ogni volta che questo tesoro, come la democrazia e la libertà, diventa un bersaglio di chi sceglie l’odio, ogni volta che redentori autoproclamati cercano di distruggere questi valori?

Come risposta alla sfida del terrore globale possiamo ancora una volta tornare all’Illuminismo. Di fronte a un atto di omicidio motivato da fanatismo religioso, Voltaire si rivolse ai suoi connazionali con l’ingiunzione: «Écrasez l’infâme!», schiacciate l’infame.

sabato 24 dicembre 2016

Tirannide

Tirannide indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)

giovedì 22 dicembre 2016

Esorcisti

Possessione o psicosi? Ritornano gli esorcisti
La Lettura9 Oct 2016Di ANDREA NICOLOTTI
La morte di Gabriele Amorth, esorcista di fama internazionale, ha riacceso i riflettori sul fenomeno della possessione diabolica. Secondo le statistiche ogni anno in Italia mezzo milione di persone si rivolge a un esorcista; fra queste il 65% è costituito di donne di livello culturale medio-basso provenienti dalle regioni meridionali; infine, quasi la metà di tutti gli esorcisti cattolici sono italiani. Emerge una realtà: nella penisola il numero di coloro che ritengono di essere posseduti dal demonio è particolarmente alto. Poiché il diavolo non dovrebbe avere preferenze geografiche, giova domandarsi il perché di una tale concentrazione: la risposta appare chiara non appena si sollevi la testa dal contesto italiano e si esamini il fenomeno con uno sguardo globale. Quasi ogni cultura, infatti, contempla l’idea della possessione, cioè che qualcuno — un demonio, una divinità, uno spirito, un defunto — possa invadere il corpo di una persona e assumerne il controllo. Diversa però è l’identità che si attribuisce all’entità che possiede, la quale rispecchia le credenze condivise dal gruppo di riferimento. Se nella declinazione cristiana la possessione è sempre di natura maligna, in altre religioni e culture può essere anche benigna, e in quanto tale ricercata e ritualizzata, capace di assumere un valore positivo e a volte terapeutico. È dunque più che naturale che nei Paesi cattolici la possessione diabolica sia molto diffusa, in quanto è l’ambiente stesso a favorire tale credenza.
Sul fatto che la possessione abbia caratteristiche inquadrabili fra i disturbi di natura psicologica — isteria, schizofrenia, epilessia, delirio, allucinazione, psicosi e nevrosi — c’è ormai pieno accordo. La compresenza all’interno di un individuo di distinte personalità che assumono alternativamente il controllo del soggetto (i diavoli, in questo caso) è un caso classico di disturbo da personalità multipla, che può associarsi a uno stato alterato di coscienza. È un disturbo generalmente spiegato come meccanismo di difesa messo in atto per rimuovere un disagio prodotto da esperienze traumatiche del passato. L’accostamento fra possessione e psichiatria non scandalizza più nessuno, dal momento che gli stessi esorcisti cattolici oggi dichiarano che la quasi totalità dei sedicenti indemoniati soffre in realtà di disturbi psichici. Tutto si gioca però su quel quasi. Alcuni ritengono che la possessione diabolica, pur in percentuale ridottissima, sia un fenomeno reale. Chi discerne allora fra il disturbo psichico e quello satanico? L’esorcista stesso, con risultati per forza di cose soggettivi e legati alle sensibilità personali. E qui il discorso si complica, perché non tutti gli esorcisti sono molto propensi a riconoscere lo zampino di Satana; nel 2001, denunciava sdegnato lo stesso Amorth, su un centinaio di esorcisti francesi solo cinque credevano al demonio e celebravano gli esorcismi.
La Chiesa, a dire il vero, nel suo Rituale propone alcuni criteri per riconoscere la presenza di un demonio: «Parlare correntemente lingue sconosciute o capire chi le parla; rivelare cose occulte e lontane; manifestare forze superiori all’età o alla condizione fisica»; e, infine, mostrare avversione al sacro. Certuni chiamano in causa episodi di preveggenza e psicocinesi. Ma l’interpretazione dei «segni» è controversa: alcuni sono spiegabili anche in termini naturali, altri sono rarissimi e mal documentati. Manca infatti una sistematica campagna di osservazione controllata dei fenomeni, in genere riferiti in modo aneddotico: sarebbe questo l’unico criterio oggettivo di verificabilità capace di mettere al riparo da simulazioni involontarie (messe in atto dai pazienti) e da interpretazioni personali dei fatti. Anche l’eventuale efficacia terapeutica dell’esorcismo non può essere adottata come criterio, in quanto potrebbe spie- garsi come il risultato di autosuggestione o di effetto placebo: l’efficacia del rimedio sta nel fatto che l’esorcismo, agli occhi di chi si sente indemoniato, può sembrare l’unica terapia percorribile.
Il quadro teologico non è meno complesso. La possessione presume la fede nell’esistenza dei demoni come esseri personali e invisibili, a cui Dio permette di agire sugli uomini fino al punto di impadronirsi dei loro corpi. Gesù stesso ha compiuto esorcismi, e ciò sembrerebbe sufficiente a renderli un dato intangibile per i cristiani; eppure diversi studiosi della Bibbia hanno interpretato quegli episodi sotto una prospettiva diversa, attribuendo a Gesù una errata percezione della realtà o una consapevole scelta di adattarsi alle credenze e al linguaggio di chi lo circondava, pur senza condividerli. D’altra parte nell’antichità anche ebrei e pagani esorcizzavano come i cristiani, e stando ai racconti usavano il loro carisma come strumento di propaganda: dunque come spiegare i successi all’interno di gruppi religiosi in concorrenza fra loro?
Da allora molte cose sono cambiate, anche fra i cristiani: fino a buona parte del III secolo l’esorcismo non era riservato né ai sacerdoti né a un particolare gruppo di operatori autorizzati, ma veniva praticato da qualsiasi battezzato, senza distinzioni. A rileggere oggi certi racconti di esorcismo, che nelle loro caratteristiche fondamentali si ripropongono fino a tempi relativamente recenti, l’uomo moderno prova una forte sensazione di sconcerto e di rifiuto.
Nel secolo scorso, prima in ambiente protestante e poi, dopo il Concilio Vaticano II, anche in quello cattolico, diversi teologi hanno tentato di rivedere la demonologia tradizionale, reinterpretando il diavolo come simbolo o metafora del male operante nel mondo. Ad altri ciò è sembrato un temerario rifiuto dell’autorità delle Sacre Scritture e della Tradizione. Qualcosa è certamente mutato: guardando alla riforma dei testi liturgici della Chiesa cattolica latina, non si può non notare quanto essa abbia ridotto al minimo la presenza del tema demonologico. Il rito dell’iniziazione cristiana in vigore dal 1969 ha eliminato, sfumato e ammorbidito i molti riferimenti al diavolo, rinunciando alla forza drammatica e realistica degli antichi esorcismi battesimali. Il nuovo rituale degli esorcismi, pubblicato nel 1999, ha riformato pesantemente il vecchio formulario dell’VIII secolo, sfrondandolo di quasi tutti gli scongiuri imperativi. Le nuove disposizioni, poi, vietano di compiere esorcismi diagnostici (riguardanti casi incerti) e impediscono di esorcizzare chi asserisce di essere vittima di maleficio: «Un incredibile legaccio che rischia di impedirci di operare contro il demonio», aveva commentato Amorth. Ecco perché molti esorcisti hanno respinto l’innovazione e continuano a usare il vecchio rituale.
Papa Francesco sul tema demonologico ha rifiutato ogni lettura relativizzante: «Hanno fatto credere che il diavolo fosse un mito, una figura, un’idea, l’idea del male. Ma il diavolo esiste e noi dobbiamo lottare contro di lui». E parlando degli esorcismi di Gesù ha affermato: «È vero che in quel tempo si poteva confondere un’epilessia con la possessione del demonio; ma è anche vero che c’era il demonio! E noi non abbiamo diritto di fare tanto semplice la cosa». Un’esplicita presa di posizione: in questo, almeno, non si attirerà gli strali dei tradizionalisti.

mercoledì 21 dicembre 2016

Il futuro è già qui

Le masse saranno sempre al di sotto della media. La maggiore età si abbasserà, la barriera del sesso cadrà e la democrazia arriverà all'assurdo rimettendo la decisione intorno alle cose più grandi ai più incapaci. Sarà la punizione del suo principio astratto dell'Uguaglianza, che dispensa l'ignorante di istruirsi, l'imbecille di giudicarsi, il bambino di essere uomo e il delinquente di correggersi.
Il diritto pubblico fondato sull'uguaglianza andrà in pezzi a causa delle sue conseguenze. Perché non riconosce la diseguaglianza di valore, di merito, di esperienza, cioè la fatica individuale: culminerà nel trionfo della feccia e dell'appiattimento. L'adorazione delle apparenze si paga.
Henri-Frédérick Amiel
Frammenti di diario intimo
12 giugno 1871

Satanismo

Lo sdoganamento di Satana


In grande crescita il satanismo ufficiale che vuole essere riconosciuto a pieno titolo come religione. Per i più curiosi ricordiamo che da anni ne esiste una filiale anche in Italia.

Marco Ventura

Lo sdoganamento di Satana



Una tipica casa vittoriana di Salem, nella contea di Essex, sulla baia del Massachusetts. Tetto scuro a punta, pareti d’assi orizzontali in legno bianco, portico con colonne. Sul cartello nero, la scritta «The Satanic Temple». Il Tempio di Satana. È qui il quartier generale mondiale di un’organizzazione che vanta 40 mila aderenti nei soli Stati Uniti, la maggior parte a Detroit. Appena inaugurato. Per chi subisce il fascino del diavolo, per chi è contro la religione dei più, Salem è la città giusta. La sede del Tempio di Satana si trova a un chilometro da Gallows Hill, dove a fine Seicento morirono sul patibolo in 19, i più sfortunati tra i quasi 300 inquisiti e imprigionati per stregoneria. Nella Salem puritana della caccia alle streghe, dove apparivano ancora impensabili l’Illuminismo, le rivoluzioni francese e americana, la tolleranza e la libertà, il diavolo era il nemico della comunità e se ne sapeva riconoscere la presenza.

Ereditava un lungo passato, la gente di Salem che trascinava gli amanti del demonio sulla collina del patibolo. Per secoli di storia cristiana, gli adoratori di Satana sono stati l’antitesi del credente. Il diavolo combattuto dai cristiani riassumeva in sé tutte le divinità nemiche dell’unico vero Dio. Gli idoli dei popoli nemici di Israele, il vitello d’oro degli Ebrei fedifraghi, il culto dell’imperatore di Roma, le statuine sugli altari privati dei Romani, le divinità naturali di Britanni e Germani. Sbaragliati i quali, l’Inquisizione aveva ritrovato il nemico di sempre in eretici e streghe: diverse le forme d’espressione, identica l’impronta della Bestia.

Nel lungo percorso verso la tolleranza, la mappa era ancora cambiata. Il diavolo papista e il satana luterano erano divenuti, l’uno per l’altro, sempre meno diabolici. Poco a poco, i cristiani avevano smesso di vedere lo zampino del demonio nelle difformi dottrine di altri battezzati. Satana si spostava nei territori di missione, nelle colonie. Uscito dal corpo di cattolici e luterani, era entrato nelle statue dei templi taoisti e nel ghigno rosso fuoco di una delle tante facce del Buddha; nelle maschere ancestrali del Congo e nell’inferno del Punjab; nelle possessioni degli schiavi neri di Bahia. Lo riconoscevamo, sempre spaventoso, sempre temibile, in quelle nuove forme.

Sono diavoli dalla pelle scura, sulla stampa britannica, gli indiani che ammazzano migliaia di inglesi nell’ammutinamento del 1857. Pensavamo che grazie a noi, alla nostra civilizzazione, anche i popoli del mondo potessero riconoscere la potenza diabolica, abbandonare la superstizione e abbracciare la nostra fede nell’unico Dio. Invece no. Proprio allora, quando tutto sembrava di nuovo chiaro, il diavolo si rimetteva in viaggio. Per tenere le colonie, gli occidentali imparavano ad accettare le braccia di Kali e il sorriso del Bodhisattva, a leggere i Veda e la Gita. Ne beneficiò Gandhi, che a Londra comprese la religione dell’India e incontrò il nuovo avatar di Satana: sul marciapiede di una stazione, quel giorno di gennaio del 1891, quando vide un sacerdote aggredito da militanti atei.


Dall’altra parte dell’Atlantico era appena stata costruita la casa di Salem in cui oggi ha sede il Satanic Temple; dopo due anni, a Chicago, si sarebbe riunito per la prima volta il Parlamento mondiale delle religioni. A Gandhi il diavolo era sembrato farsi ateo, ma durante la lotta moderna tra i credenti e i materialisti il principe delle tenebre parve piuttosto eclissarsi. Se era morto Dio, perché non sarebbe dovuto morire il suo Nemico? Poi vennero Khomeini e Wojtyla, i mujaheddin pagati dai protestanti americani cacciarono i sovietici. Tirammo giù il muro; e dietro le macerie c’era lui.

Fin dagli anni Sessanta il diavolo era apparso anzitutto ai cristiani che ritrovavano la fede antica e popolare, spronati dall’energia carismatica. Per tanti nuovi battezzati il demonio non apparteneva più a una religiosità negativa e isterica, da riscattare nella modernità cristiana positiva e razionale. L’inferno esisteva davvero, e non era certo vuoto. Il ritorno del diavolo divise i cristiani buoni da quelli che militavano per i diritti gay, le donne prete e il dialogo ecumenico, quelli che facevano guerra alla verità e al matrimonio, quelli, appunto, che non credevano più a Belzebù, agli inferi, all’Apocalisse.

Il ritorno del diavolo, tuttavia, fu molto più ampio. Fiorì l’interesse per il demonio di teologi e letterati. Sadik al-Azm scrisse fin da metà anni Sessanta che il rinnovamento religioso islamico dipendeva da una rilettura del rapporto tra Satana e Allah basata su fonti sufi. Salman Rushdie pubblicò i suoi dirompenti Versi satanici . Vi fu poi la protesta generazionale di chi percorreva all’inverso le scale verso il paradiso dei Led Zeppelin, ascoltava i Black Sabbath, simpatizzava con il diavolo dei Rolling Stones. Crebbe inoltre il pubblico interessato all’occultismo e alla magia. Per l’opinione pubblica tutto si esauriva nel settarismo satanista, nei suoi riti blasfemi e nei suoi atti criminali. Eppure le sette sataniche erano solo un pezzetto di un fenomeno molto più grande.


L’occasione per comprenderlo capita il 13 novembre 2007. Al club Ucho di Gdynia, a nord di Danzica, si esibiscono i Behemoth, band metal polacca affascinata dal diavolo. Il leader Adam Darski, noto come Nergal, canta il suo pezzo più celebre, Lucifero , poi straccia una Bibbia e ne getta frammenti al pubblico. È un libro di bugie, grida, è sterco, ipocrisia, la Chiesa cattolica è la religione più assassina del pianeta. Ne nasce un caso che tiene occupati i giudici polacchi fino al 2012, quando la Corte suprema risparmia la condanna a Darski per ragioni procedurali. Non è un caso eccentrico, isolato. Come tanti altri, Nergal usa il diavolo per aggredire il cattolicesimo nazionalista e conservatore. E usa la denuncia del cattolicesimo retrivo di Radio Maryja e dei fratelli Kaczynski per costruire intorno al diavolo un credo polimorfo. C’è identità, visibilità mediatica, politica, commercio. C’è il collegamento con pezzi di società. C’è la resistenza in tribunale che si tramuta in indiretto riconoscimento.

Stentiamo a crederci, ma è proprio così. Stanno diventando una religione i seguaci del demonio. Imparano da chi negli ultimi decenni ha fatto la stessa strada: da chi era un’associazione criminale, e poi non riconosciuta, e gode ora dello statuto di religione. Come i mormoni, i testimoni di Geova, i seguaci di Scientology e, quasi quasi, gli atei. Come il movimento Wicca dei neo-pagani e delle neo-streghe. Anche il satanismo sta diventando una delle tante religioni organizzate che lottano per la propria legittimità, e persino per il proprio diritto a essere eguali alle altre. La società è propizia.

I satanisti organizzati seguono il flusso della corrente che porta al mare sempre più vasto delle organizzazioni di religione o di credo. Mitigano gli eccessi, si mostrano socialmente impegnati, propugnano il dialogo, curano la comunicazione, proclamano i diritti dell’uomo, si compromettono col mercato. Cambia di conseguenza la percezione della dimensione criminale del fenomeno satanico. Non c’è differenza, per il giudice, tra il bambino di Satana che stupra un’adolescente e un prete reo di pedofilia. Per i gruppi satanici, come per la Chiesa di Scientology e la Santa Sede, l’importante non è non delinquere, in ogni organizzazione c’è un delinquente, ma è schivare l’accusa di associazione a delinquere.


Il Tempio satanico di Salem, come gran parte del satanismo americano rifugiatosi sotto l’ombrello della libertà religiosa, è l’esempio perfetto. I cittadini di Salem non hanno niente da temere, sostengono i rappresentanti «della maggiore organizzazione satanista al mondo», hanno anzitutto da guadagnare da un’associazione di gente onesta, dedita all’interesse sociale, all’emancipazione dall’oscurantismo, alla libertà individuale, al pluralismo e al progresso. La corrente trascina i gruppi satanici verso il mare della religione.

Adorare il diavolo può catalizzare significati diversissimi, e al contempo avere senso per molti. La prova più significativa, e più drammatica, viene la notte del 13 novembre 2015. Al Bataclan di Parigi, la nostra migliore gioventù canta «bacia il diavolo» in un gesto di libertà, di evasione, di sfogo, di energia, e viene ammazzata dalla peggiore gioventù islamica, nichilista e omicida, persuasa che non meriti altro chi inneggia a Satana. Si è capovolto l’ordine di un tempo. 

Il Tempio del Massachusetts non è un’americanata, Salem e Parigi sono connesse. Si è allargato il mare delle religioni e del credere: c’è spazio per tutti, e per ogni contraddizione; per far festa col diavolo, e per morirne. Parigi e Salem si chiamano. Anche in Europa, tra pochi giorni, si celebra Halloween. A Salem si preparano le zucche: in 250 mila visiteranno la città dove per il diavolo si finiva impiccati.


Il Corriere della sera /La Lettura – 9 ottobre 2016

martedì 20 dicembre 2016

Paganesimo al tramonto

 I tentativi d’incontro e le persecuzioni nel rapporto tra l’impero e i cristiani

Paolo Mieli

La memoria, sostiene Giancarlo Rinaldi nell’introduzione a Pagani e cristiani. La storia di un conflitto (secoli I – IV) di imminente pubblicazione per i tipi dell’editore Carocci, «condanna gli sconfitti». È capitato alla vasta produzione pagana di contenuto anticristiano, che pure ha avuto una parte fondamentale nella cultura dei quattro secoli iniziali del primo millennio. I documenti della «reazione pagana» sono scomparsi e quella che era la «voce della parte soccombente», all’indomani del trionfo della Chiesa, fu «deliberatamente ostracizzata e cancellata perché ritenuta perniciosa». Sicché gli storici sono costretti a lavorare su frammenti e citazioni «tutte punte di iceberg che ci fanno intravedere la profondità e la vivacità di un dibattito» che in quei quattrocento anni fu «ampio e serrato».

Ma, a dispetto di questa ricchezza, nei manuali si è soliti ricavare un misero capitoletto nel quale vengono confusamente ricordati i principali polemisti anticristiani, relegandoli così «in una sorta di circoscritta riserva indiana». Per di più in «note avulse dal complesso della ricostruzione storica generale la quale è invece ricavata di norma da fonti cristiane». A guardar bene, però, molte delle argomentazioni anticristiane messe in campo, secoli dopo, dall’Illuminismo fino ai nostri giorni, «possono considerarsi alla stregua di ombre sbiadite delle riflessioni di un Celso, un Porfirio o un Giuliano imperatore».

Il libro davvero importante di Rinaldi costituisce, perciò, un doveroso tentativo di avviare una ricostruzione dell’identità pagana. E, nel contempo, di comprendere come fu possibile che una forma di cultura religiosa così ben radicata del mondo antico, sia potuta soccombere di fronte all’avanzata di un nuovo credo religioso. Il cristianesimo era allora «una variante marginale della religione del popolo giudaico», il quale, a sua volta, veniva considerato «un’etnia esotica e circoscritta prodotta dalla piccola provincia della Giudea, detta poi Siria Palestina, terra estremamente periferica mortificata dal fallimento delle insurrezioni del 66-70, del 115-117 e del 132-135». In più, quella cristiana, a differenza della religione giudaica, non «ebbe carattere di liceità», se non dall’epoca dell’imperatore Gallieno (260) e poi da Galerio (311) e, in modo più definitivo, dall’editto di Costantino (313) in poi.



Che cosa fu allora che rese a tal punto fragili i culti pagani da farli soccombere sotto i colpi di una religione all’epoca minoritaria e praticata fuori dalle leggi? E che cosa fu in sé il paganesimo? Questi temi sono stati ben affrontati, tra gli altri, da Pierre Chuvin in Cronaca degli ultimi pagani (Paideia) e, in tempi più remoti, da Pierre De Labriolle, da Wilhelm Nestle nella Storia della religiosità greca (La Nuova Italia) e da Robert Louis Wilken in I cristiani visti dai romani (Paideia). Ma è solo con il saggio di Rinaldi che si tenta di dare una risposta definitiva e compiuta agli interrogativi di cui sopra.

Ai pagani, scrive l’autore, parve che la religione predicata da Gesù e tramandata dai suoi seguaci fosse una proiezione del giudaismo. I cristiani furono «schiacciati dall’ingente coacervo di giudizi e pregiudizi antigiudaici diffusi nel mondo ellenistico romano e dalla loro carenza del requisito dell’antichità che i giudei invece possedevano». Giudei nei confronti dei quali la polemica pagana era stata reiterata nei tre secoli che precedettero la nascita di Cristo. Da parte di Ecateo di Abdera all’epoca di Tolomeo I Sotere (323-283 a.C.), da Manetone, sacerdote di Eliopoli e collaboratore dello stesso Tolomeo per la promozione del culto di Serapide. E ancora da Lisimaco, che descrisse gli ebrei come un popolo di accattoni malati dediti all’assassinio e alla profanazione. Da Timagene, un personaggio influente nella Roma augustea.

I cristiani avrebbero potuto non essere contagiati da quel pregiudizio. Secondo l’ Apologeticum del cartaginese Tertulliano (155-230), l’imperatore Tiberio avrebbe ricevuto da Ponzio Pilato una relazione quasi rivoluzionaria in margine proprio al processo a Gesù. Pilato che, secondo Tertulliano, «già nel suo intimo era divenuto cristiano», avrebbe spiegato all’imperatore che i seguaci di Gesù non avevano, a differenza dei giudei, atteggiamenti antiromani e lo esortava, di conseguenza, a sottoporre al Senato un parere di legittimità a favore del nuovo culto. Tiberio avrebbe fatto sua l’iniziativa suggerita da Pilato, ma il Senato avrebbe respinto la proposta, ritardando di due secoli e mezzo la conciliazione di Roma con il cristianesimo. Una grande quantità di storici ha preso le distanze da questa ricostruzione ritenendola «inficiata da una finalità apologetica». Ma altri si sono spesi a favore della credibilità di queste tesi: Giovanni Papini, Luigi Pareti, Carlo Cecchelli, Edoardo Volterra e, in modo assai argomentato, in I cristiani e l’impero romano (Jaca Book), Marta Sordi.



Pilato «divenuto cristiano»? Come si concilia quel che scrisse Tertulliano con il processo a Gesù? E perché sarebbe stato deciso di incolpare gli israeliti? In un notevole libro appena pubblicato, Ponzio Pilato. Un enigma tra storia e memoria (Einaudi), Aldo Schiavone scrive che Tertulliano probabilmente sapeva del processo a Gesù cose che non ci sono state tramandate. In particolare, che gli fosse nota una tradizione secondo la quale il comportamento di Pilato veniva spiegato come «un arrendersi alla potenza della profezia di Gesù su se stesso, all’inevitabilità della morte del prigioniero». Era, sostiene Schiavone, una verità complicata da raccontarsi, che poteva essere facilmente fraintesa, e «spezzare quel delicato bilanciamento tra libero arbitrio e precognizione del disegno di Dio». Un equilibrio fra natura umana e divina di Gesù, che faceva del sacrificio del Figlio «una tragedia senza confronti e non la recita di un copione prestabilito». E qui si giunge alle «colpe» degli ebrei.

Perché il rischio di cui sopra venisse evitato, prosegue Schiavone, occorreva che fossero indicati chiaramente e senza dubbi i responsabili della morte di Cristo, che erano stati liberi di decidere: fra Pilato e i sacerdoti la scelta non poteva che restare ambiguamente aperta; senza dire dell’idea, maturata subito, di spostare sull’intero popolo di Giudea la colpa per quanto era accaduto. Se si fosse ammesso che il prefetto aveva ceduto a quel che aveva ritenuto la manifesta volontà di Gesù, si sarebbe aperta la strada a mille interpretazioni, tutte potenzialmente fuorvianti rispetto all’impianto teologico della nuova religione. Interpretazioni che avrebbero potuto sminuire il valore di quel gesto letteralmente senza eguali: il martirio del Figlio di Dio per la salvezza dell’intera umanità. Sarebbe insomma venuta alla luce una «tacita intesa» tra Pilato e Gesù, «favorita dalla stessa asimmetria fra i due interlocutori». In seguito le due tradizioni, quella pagana e quella cristiana, avrebbero fatto di tutto per occultare questa intesa «anche se al prezzo di rendere l’intera vicenda quasi inspiegabile e di gettare su di essa l’ombra dell’enigma e dell’incomprensibilità». Convincente.

Tanto più che, ricorda Schiavone, la decifrazione di questa vicenda aveva continuato «a rimanere per un certo tempo nell’aria, invisibile per la sua stessa trasparenza, ma non del tutto cancellata». La prova? Alla fine del IV secolo la Chiesa stabilì di aggiungere al ricordo della morte di Gesù una curiosa menzione del nome del prefetto — «fu crocefisso per noi sotto Ponzio Pilato» — senza peraltro indicarlo come responsabile dell’uccisione del figlio di Dio. Schiavone giustamente ritiene che ciò non sia accaduto per fissare una cronologia (nel caso sarebbe stato indicato Tiberio), ma «per qualcosa di più sostanziale». In quella scelta «c’era l’eco ormai lontana di un ricordo, di un conto da chiudere, di una verità da non perdere del tutto». Quei nomi «dovevano stare insieme, come in quella mattina in cui si consumò l’indicibile».



Convinto da Pilato, riprende Rinaldi sulla scia degli studi di Marta Sordi, Tiberio avrebbe voluto favorire la diffusione del pacifico «movimento gesuano», conferendogli uno status di religio licita . Ma il Senato si sarebbe opposto. C’è una prova logica della plausibilità di questa tesi? Sì. Tertulliano era un apologeta cristiano e non gli avrebbe fatto comodo rievocare una «bocciatura da parte del Senato della religione che difendeva». Marta Sordi ha inoltre ipotizzato che Tertulliano avrebbe derivato le notizie di cui qui si parla dagli Atti del martire Apollonio, il quale nell’età di Commodo sarebbe stato messo a morte proprio in virtù del senatoconsulto negativo.

Dopo questo mancato incontro iniziale la storia dei rapporti tra pagani e cristiani si è tradotta in una complicata partita durata appunto quattro secoli, nella quale era parso a lungo che gli antichi culti fossero destinati a prevalere. Persino all’epoca di Costantino, cioè all’inizio del quarto secolo. Costantino infatti non represse i culti pagani, ma si limitò a disciplinarli. L’ excursus di Rinaldi degli anni che precedettero la svolta costantiniana è davvero accurato nella descrizione dei dettagli di questo tortuoso tragitto, tra persecuzioni, tolleranza, accettazione.

Dalla dichiarata ostilità di Marco Aurelio (161-180) del quale Rinaldi scrive eufemisticamente che «non nutrì soverchia simpatia nei riguardi del fenomeno cristiano». All’aggressione del filosofo platonico Celso, che (intorno al 178) prese di mira la pluralità dei Vangeli: «Alcuni dei fedeli poi, come se in seguito all’ubriachezza arrivassero ad azzuffarsi tra loro, riscrivono tre, quattro, tante volte la primitiva stesura della buona novella e la rimaneggiano al fine di poterla rinnegare di fronte alle confutazioni», ironizzò. Dall’apertura di Settimio Severo (193-211), ingiustamente consegnato alla memoria di un editto che vietava le conversioni al giudaismo e al cristianesimo ma che, in realtà, si avvalse della collaborazione del cristiano Marco Aurelio Pròsene. Alla «cordialità» dei rapporti tra cristiani e domus imperiale ai tempi di Alessandro Severo (222-235). Per concludersi con un singolare punto di convergenza che si ebbe al momento della battaglia di Adrianopoli (378), allorché i goti sconfissero sul campo i romani e uccisero il loro imperatore, Valente.

In questa occasione cristiani e pagani ebbero un’identica reazione alla tragedia. Gli uni e gli altri si persuasero, a un tempo, che si trattasse di un castigo divino. Una vendetta, ritennero i seguaci di Cristo, contro chi aveva favorito la fazione ariana. Una punizione per non aver ostacolato la «novità cristiana», sostennero i pagani. Che insistettero su questa tesi nel 410, quando Alarico, alla testa degli stessi Goti, mise a ferro e fuoco Roma. «Il sacco di Roma», precisa Rinaldi, «in sé e per sé non sembra aver avuto alcun effetto di spartiacque nella storia». Ma, se si esaminano le riflessioni dei pagani, ci si può rendere conto che l’avvenimento «fece emergere un fiume carsico di paure e polemiche che partivano tutte dalla convinzione che l’abbandono dei culti tradizionali aveva comportato per Roma (e il suo impero) la rottura della pax deorum , dando la stura a un declino che si stava trasformando in catastrofe». Catastrofe per Roma. E anche, pressoché definitiva, per il mondo pagano.

Corriere della sera – 29 marzo 2016

Bizantini, come si adattarono ai barbari

L’arte di adattarsi ai «barbari» fu l’arma segreta dei Bizantini

di Giovanni Brizzi - 04/12/2016

La Lettura - Corriere della Sera


Strutturato secondo un impianto cronologico-narrativo, il volume di Gastone Breccia Lo scudo di Cristo (Laterza) sulle guerre bizantine copre il periodo compreso tra la disfatta subita da Valente ad Adrianopoli (378 d.C.) e il fallito attacco del khan bulgaro Krum contro Costantinopoli (813); i secoli, cioè, che videro l’Impero romano d’Oriente opporsi a successive ondate di invasori sempre diversi, reprimere incursioni e razzie, proteggere i confini e persino riconquistare territori da tempo perduti. Gli aspetti chiave su cui l’autore insiste sono sia la situazione politico-militare dell’Impero, sia la struttura, l’organizzazione e l’impiego dei suoi eserciti. Due i momenti fondamentali: la creazione di un nuovo sistema difensivo da parte di Teodosio I, dopo Adrianopoli, e la grande «riforma tematica» della seconda metà del VII secolo. La prima svolta interessò soltanto le forze armate; la seconda trasformò completamente lo Stato.
Dal punto di vista strategico la Nuova Roma poté giovarsi della posizione centrale della sua inespugnabile capitale. Come si sarebbe poi visto, fino a che questa sopravviveva, sopravviveva l’Impero… Da Costantinopoli, per linee interne, le forze scelte di riserva potevano raggiungere in fretta, lungo buone strade, i territori sotto attacco. Paradossalmente, però, quella centralità era anche un elemento di debolezza, poiché la più splendida delle città esercitava, nei confronti degli invasori, un’irresistibile attrazione; sicché le forze imperiali potevano trovarsi a fronteggiare attacchi simultanei dalle opposte frontiere, nel settore balcanico-danubiano e in quello mesopotamico.
Tra gli elementi più interessanti emersi dallo studio delle fonti figura la riflessione teorica sui vari aspetti dell’arte bellica. Se non si può parlare di una manualistica strategica in senso moderno, emerge però l’elaborazione di norme tattiche flessibili: vengono codificati i diversi tipi di schieramento e manovra, viene ribadito un principio che rappresenta una parziale rottura col passato e, insieme, una valida alternativa, quello di «adattarsi al nemico», analizzando i punti di forza e debolezza di ogni «barbaro» per contrastarli o sfruttarli a proprio vantaggio. Le legioni della prima Roma tendevano ad imporre il loro modo di combattere, confidando in una superiorità che credevano assoluta; le armate d’Oriente, spesso inferiori di numero, debbono invece di volta in volta adattarsi, utilizzando formazioni differenti.
Dal punto di vista tattico i secoli dal IV al IX vedono una trasformazione completa dell’arte bellica. Dalle grandi armate di fanteria pesante dell’antica Roma si passa a eserciti più snelli, compresi in genere tra i 15 e i 20 mila effettivi. L’esercito di Costantinopoli resta però, nel suo momento migliore, una forza basata, come quelle antiche, sull’impiego coordinato di specialità diverse, che affianca fanti e cavalieri, «portatori di scudo» pesantemente armati, adatti allo scontro frontale e alla difesa di postazioni fisse, ai cavalleggeri unni, formidabili nella ricognizione e nelle imboscate, e agli hippotoxotai , gli arcieri a cavallo tratti soprattutto da Anatolia e Tracia, e dispone persino di un’artiglieria da campo e di sistemi di segnalazione acustica e visiva. Celebri restano le imprese di riconquista volute da Giustiniano, quella africana contro i Vandali del 533, che (contro ogni aspettativa) si risolse in una sorta di «guerra lampo»; e quella, ben più lunga e difficile (535-553), contro i Goti in Italia.
Giustificate con l’intento di ripristinare l’ orbis Romanus et christianus , le guerre per la restauratio imperii dimostrarono la forza delle armate orientali. Giustiniano sconfisse «gli unici popoli che, fino a quel momento, erano riusciti a insediarsi nei territori romani», perché «gli eserciti e le flotte coordinate da Costantinopoli avevano dato un’impressionante dimostrazione di forza militare», ma non riuscì «a garantire ai suoi sudditi il bene più prezioso, “la dolcezza della pace”».
Questo ci porta ad un’ultima considerazione: benché sempre più militarizzato , l’impero non diventò mai militarista . Pur costretto a combattere guerre incessanti, utilizzando fino al 95 per cento delle proprie risorse per le spese belliche, lo Stato romano e cristiano non elaborò mai, a sostegno di questo sforzo immane, un’ideologia positiva della guerra, che rimase il peggiore dei mali, da evitare ad ogni costo, facendo ricorso anche alla corruzione o al tradimento, all’assassinio mirato o al pagamento di tributi… Solo eccezionalmente la guerra venne vista come una «missione» dai connotati religiosi: Eraclio, quando l’Impero era sull’orlo della catastrofe, fece appello anche alla fede per respingere un nemico «alieno» al cristianesimo, ma solo perché era in gioco la sopravvivenza della res publica . La guerra fu sempre, altrimenti, un disvalore, che solo i popoli «barbari» affrontavano con gioia.
L’eccellente saggio di Breccia raggiunge appieno entrambi gli scopi che si prefigge. Destinato non solo agli specialisti (il linguaggio è di esemplare chiarezza), è scritto per raggiungere (e raggiungerà, io spero…) un vasto pubblico; e riesce a confutare la communis opinio secondo cui «la Roma che non cadde» (Williams-Friell) avrebbe avuto in sé e nei suoi ordinamenti militari i caratteri della «decadenza». La fine della prima Roma si deve «all’emergere di un differente tipo di cultura e di vita» (Gabba). Con tale modello Costantinopoli e l’Impero orientale, in fondo, si identificavano; sicché sopravvissero...

I Fugger


Le penne nei calamai, qualche pergamena in disordine, la sedia discosta dalla scrivania come se il patron si fosse appena assentato dall’ufficio. Ma in effetti Herr Fugger è via da cinque secoli. Ad Almagro, in Spagna, ne hanno ricostruito lo studio dentro il palazzo gentilizio che fu una delle innumerevoli filiali europee della più potente dinastia plutocratica del Rinascimento e forse non solo.

Inventori della finanza moderna o clan di lobbysti, tangentari e pescecani affamapopolo? Prima multinazionale o Spectre politico-affaristica? Spietati mercatisti o antesignani di un’imprenditoria dal cuoricino sociale?

Da vivi come da morti i Fugger hanno scatenato una rissa di valutazioni contrapposte. Ripercorrerne la saga non significa solo tuffarsi in una vicenda altamente romanzesca, ma risalire alle favoleggiate sorgenti del capitalismo. È quanto fa Greg Steinmetz in Il creatore di re (Baldini e Castoldi), biografia spigliata del più audace della progenie: Jacob II (1459-1525) detto il Ricco per distinguerlo dal padre Jacob I che pure povero non era.

Da contadini a commercianti di tessuti a banchieri in grado di tenere sotto schiaffo imperatori e papi: che l’ascesa dei Fugger si sia realizzata nell’arco di appena tre generazioni dà già la misura di un’epoca in turbolenta mutazione. Epoca nella quale l’Italia centro-settentrionale giocava ancora un ruolo economico di punta.

I primi trucchi dell’arte mercantile il giovane Jacob li aveva imparati durante uno stage a Venezia. Da Augusta – l’operoso capoluogo svevo che diverrà la Camelot della schiatta – i genitori l’avevano spedito a farsi le ossa nella Serenissima. Nel Fontego dei Tedeschi, quartier generale dei traffici con l’area germanica, il tirocinante prende tra l’altro dimestichezza con due strumenti che in seguito gli sarebbero tornati utilissimi e dei quali avrebbe perfezionato l’uso: le cambiali (quelle timbrate Fugger avranno l’affidabilità di una valuta forte) e i registri a partita doppia – su una colonna i pagamenti, sull’altra le riscossioni – che oggi sono una banalità contabile ma ai tempi non erano ancora ragioneria diffusa.

Aiutato da un capitale familiare in espansione e dai redditizi legami che i predecessori avevano stabilito con gli Asburgo in materia di forniture tessili, Jacob sgancia i primi prestiti a Sigismondo d’Austria, sovrano spendereccio. In cambio ottiene lo sfruttamento dei giacimenti d’argento in Tirolo. Ma gli affari grossi cominciano con Massimiliano, futuro Kaiser del redivivo Sacro Romano Impero; l’uomo che – anche coi soldi dei Fugger – catapulterà la casata asburgica al centro delle lotte per l’egemonia europea. 

Pare che con Jacob si fossero conosciuti alla fiera di Francoforte. Location per niente casuale: sul finire del Quattrocento le fiere sono in piena metamorfosi. Da mercati dove si scambiano merci vanno trasformandosi in posti dove si compravende quella super-merce chiamata denaro. Diremmo delle proto-borse. Così, dopo l’argento, i Fugger si ritrovano a controllare per decreto imperiale pure le miniere ungheresi di rame. Metallo altrettanto remunerativo, se non altro perché fuso con lo stagno diventa il bronzo con cui si sfornano cannoni e moschetti.

Come nessun altro in precedenza, il cosiddetto Secolo dei Fugger (1450-1550) è contrassegnato dal massiccio ricorso dei governi al credito sborsato da private famiglie. Se il Palazzo ha uno smisurato bisogno di quattrini è perché, sin dai primi vagiti, lo Stato moderno è ingordo. Costoso.

C’è da mantenere l’incipiente apparato amministrativo; c’è da potenziare lo sfarzo delle corti; e soprattutto ci sono da pagare le costanti imprese belliche. Quelle tentate da Massimiliano d’Asburgo saranno marcate da ripetuti flop. Molto più efficace si dimostrerà invece la sua politica matrimoniale culminata nelle nozze del figlio Filippo il Bello con Giovanna di Castiglia, l’erede dei Re cattolici di Spagna che, morto il consorte, uscirà di senno passando alla cronache come la Pazza.

Dall’unione nascerà Carlo V e i Fugger ne saranno i principali tutori finanziari. A partire dalla sua designazione a Imperatore nel 1519. Un capolavoro politico-corruttivo che costò ai banchieri mezzo milione di fiorini ripartiti in maxi-bustarelle per i grandi elettori: 113 mila a quello di Magonza; 184 mila a quello del Palatinato; 70 mila a Federico di Sassonia...

Diventare il bancomat del padrone di mezza Europa, più le colonie americane, è un colpaccio, ma non esente da rischi. I crediti vengono rimborsati con rendite fondiarie, nuove concessioni minerarie e con le entrate fiscali. Però la tassazione è un utensile difettoso: aggravare le imposte scatena rivolte e su domini tanto vasti la raccolta dei tributi è operazione macchinosa. Oltretutto l’Imperatore è in guerra contro tutti: la Francia, gli ottomani, i pirati musulmani nel Mediterraneo, i principi tedeschi... Le spese militari gonfiano il debito pubblico.

Incatenato ai banchieri, Carlo è in affanno sulle rate. E i Fugger gli battono cassa senz’ombra di timori reverenziali. «Maestà, se faccio sapere che lei è insolvente,col mercato dei prestiti ha chiuso» gli scrive Jacob. «Lei sta parlando all’Imperatore» risponde piccato il Sovrano. E il finanziere gli ricorda una cosetta semplice semplice: «È ben noto che senza di noi Vostra Maestà non avrebbe potuto ottenere la corona imperiale». Ergo: «La nostra rispettosa richiesta è... che venga calcolato l’ammontare che vi abbiamo procurato, compresi gli interessi, e che ci sia restituito senza ulteriori ritardi».

Sebbene strozzato dagli alti interessi dei prestiti a breve termine, alla fine «Carlo si rivelò solvibile» assicura Steinmetz nel libro. Peggior cliente sarebbe stato suo figlio Filippo II, che da re di Spagna inaugurerà la politica delle bancarotte allegre.

All’epoca i default funzionavano all’incirca così: gli impagati venivano convertiti d’autorità in titoli di debito pubblico; scadenza lunga, interessi bassi. E buonanotte ai creditori. La finanza creativa fa collassare i banchieri, mentre il re, lui, rimane in sella. Ma a differenza di altre famiglie i Fugger non finirono in rovina. Il loro fu casomai un prolungato declino. Merito di Jacob che aveva corazzato la baracca differenziando il business. Tramite i portoghesi s’era infilato nel giro delle spezie, e «con ogni probabilità finanziò la circumnavigazione del globo di Magellano».

Dai papi che aveva sovvenzionato – Giulio II e Leone X – ottenne la gestione della zecca pontificia e del primo reggimento di guardie svizzere, nonché una posizione di riguardo nei mercati delle cariche ecclesiastiche, delle indulgenze, delle reliquie: traffici che avrebbero dato fuoco alle polveri della Riforma. Cattolico indefettibile, Fugger è la bestia nera di Lutero e, nelle invettive, l’umanista Ulrich von Hutten lo ribattezza Re di denari. Tutto mentre con formidabili stratagemmi teologici la Chiesa sdogana le pratiche del prestito dal peccato di usura.

Nella Guerra dei contadini tedeschi – che, allargandosi troppo, Steinmetz definisce «il primo grande conflitto tra capitalismo e comunismo» – Jacob finanzia la repressione anche perché con coltellacci e forconi la sommossa gli è arrivata in casa. E poco importa che nel frattempo lui avesse fatto costruire ad Augusta la Fuggerei, ossia il primo nucleo europeo di case popolari dove ancora oggi gli inquilini pagano una pigione di 88 centesimi di euro l’anno, equivalente simbolico di un fiorino d’allora.

Nel sito web della cittadella – ricostruita dopo i bombardamenti del ‘44  – Jakob der Reiche è naturalmente ricordato come un filantropo. Non lo fu. Ma che tipo era? Nessuno ce l’ha mai raccontato meglio di Albrecht Dürer, suo protetto, che lo ritrasse intorno al 1520. Zucchetto, stola di pelliccia sopra il vestito scuro, occhio fisso sull’obiettivo: riteneva che Dio l’avesse paracadutato in Terra per far soldi.

Non amava il lusso ma ne capì la forza di suggestione. Si spostava su carrozze trainate da 24 cavalli e gli ospiti facevano Ooh! visitando la sua dimora provvista di acqua corrente e riscaldamento, vetri veneziani, broccati francesi, sete cinesi. In trasferta, persino Montaigne ne rimase abbagliato.

Per i servigi resi, Jacob si guadagnò titoli nobiliari, ma non fu mai tentato dalla politica: preferiva telecomandarla dal retro. Difese il libero mercato con più ostinazione di un economista della scuola di Chicago. Diceva che concedere prestiti procura «solo pene, fatica e ingratitudine».

Però le angustie non gli rovinarono mai il sonno: «Quando vado a letto, assieme alla tunica, mi spoglio di tutte le preoccupazioni». Modernizzò la finanza intuendo la potenza dell’informazione. Che si trattasse d’una crisi di Palazzo, dell’esito di una battaglia o della morte di un pezzo grosso, attraverso una fitta rete di corrieri, emissari, spie veniva a sapere le news prima dei concorrenti, ricalibrando le strategie di conseguenza.

La quantità di uffici e liquidità gli consentirono «di creare un circolo chiuso dove poteva addebitare una cifra sul conto di una filiale e accreditarne l’importo in un’altra, senza un reale trasferimento di denaro». Così evitava il rischio di rapine lungo il tragitto. «Come un’odierna società di carte di credito prende una piccola percentuale su ogni uso della carta, Fugger incassava il 3 per cento su ogni transazione».

Mediante arcigni revisori ridusse al minimo le approssimazioni di bilancio e quando gli fu possibile sorvegliò le casse dei governi debitori come un bulldog dell’Fmi. Fu il primo milionario della storia, ma non derogò mai alla prudenza contadina e alla morte il suo profitto complessivo ammontava a un tutto sommato ragionevole 12 per cento.

Con la moglie Sybille ebbe una relazione glaciale e nessun figlio. I Fugger si estinsero un secolo dopo la dipartita di Jacob incrociandosi con famiglie dell’aristocrazia e preferendo via via agli affari la vita devota o intellettuale.

Ancora oggi i discendenti risiedono in Svevia: «i conti Fugger-Kirchberg nel castello di Oberkirchberg presso Ulm, i principi Fugger von Glött nel castello di Kirchheim e i principi Fugger-Babenhausen nel castello di Babenhausen e nel castello di Wellenburg presso Augusta» riferisce il sito www.fugger.de sempre efficiente, aggiornato e tedeschissimo come il suo ispiratore.

IL PANE

  Maurizio Di Fazio per il  “Fatto quotidiano”   STORIA DEL PANE. UN VIAGGIO DALL’ODISSEA ALLE GUERRE DEL XXI SECOLO Da Omero che ci eternò ...