venerdì 24 novembre 2023

POTERE FEMMINILE

 Camillo Langone per “il Foglio”

 

Abramo, patriarca Abramo, padre di popoli, tu che hai la parola “padre” (il semitico “ab”) fin dentro il nome, proteggi noi uomini abramitici. Noi bersagli della caccia al maschio. Le furie femministe, con al fianco gli inevitabili collaborazionisti, ci sono alle calcagna. E’ una “guerra di potere” come ha detto Lucetta Scaraffia. E’ una guerra civile, dunque una guerra senza quartiere.

 

Le donne di potere, le neomatriarche, le Meloni-Gruber-Schlein sono tutte sostanzialmente d’accordo (solo i fessacchiotti che credono ancora nella dicotomia destra/sinistra possono farsi ingannare dalle diverse sfumature). Mentre il fronte maschile è frammentato: gli infemminiti sono milioni.

 

Abramo, patriarca Abramo, Dio ti garantì benedizioni, territori, figli: “Moltiplicherò la tua discendenza come le stelle del cielo”. Il neomatriarcato ci garantisce rieducazione, umiliazione, estinzione. Ai più riottosi la castrazione. Agli esemplari più collaborativi una carriera di fuco al servizio delle umane api regine. Abramo, patriarca Abramo, ricorda a Dio la sua promessa di darti una progenie inestinguibile: noi siamo figli tuoi, non possiamo sparire così.

mercoledì 8 novembre 2023

POLVERIERA ISLAM

 (Pierluigi Panza) Nel 1978-79 furono pubblicati sul «Corriere della Sera» nove reportage del filosofo francese Michel Foucault sulla rivoluzione iraniana, frutto di un accordo tra il quotidiano e la «Équipe Foucault» impegnata a elaborare riflessioni sui problemi internazionali. Il primo reportage, intitolato «L'esercito quando la terra trema» (28/9/1978), precede di tre mesi la fuga dello scià e il successivo ritorno in Iran, da Parigi, dell’ayatollah Khomeini. Lo scià, sostenuto dagli Usa che avevano favorito il colpo di Stato contro il primo ministro Mossadeq, aveva da poco celebrato con sfarzo i 2500 anni dell’impero persiano. I reportage di Foucault illustrano la rivoluzione a Teheran accompagnati dalla riflessione militante del filosofo che, iscritto al Partito comunista francese, vedeva con entusiasmo il «cambio di potere» in Iran, frutto di un’azione rivoluzionaria dal basso, «con le mani nude», di impronta maoista. Progressivamente, però, specie nell’ultimo reportage del 13 febbraio 1979 intitolato «Una polveriera chiamata Islam», Foucault incominciò a intuire che quella non fosse una rivoluzione comunista popolare, bensì una rivoluzione islamica, religiosa. E fu profetico nel temerne lo sviluppo, anche in rapporto alla Palestina. Scrisse che i Paesi arabi non avevano mai ascoltato i «giusti diritti del popolo palestinese» e si chiedeva, con timore, cosa sarebbe potuto accadere in futuro se ad animare la causa palestinese non fosse più stato il marxismo bensì l’islamismo radicale. 

11 febbraio 1979: rivoluzione in Iran. Questa frase ho l’impressione di leggerla nei giornali di domani e nei futuri libri di storia. È vero che in questa serie di strani avvenimenti che hanno caratterizzato gli ultimi dodici mesi della vita politica iraniana una figura nota, infine, appare. Ma questa lunga successione di feste e di lutti, questi milioni di uomini nelle strade per invocare Allah, i mullah nei cimiteri che gridano la rivolta e la preghiera, questi sermoni distribuiti in minicassette, ed il vecchio che ogni giorno attraversava la strada in una cittadina della periferia di Parigi per inginocchiarsi in direzione della Mecca; tutto questo ci era difficile chiamarlo «rivoluzione». 

Oggi ci sentiamo in un mondo più familiare: ci sono state delle barricate; delle riserve di armi saccheggiate; ed un consiglio riunito in fretta ha lasciato ai ministri solo il tempo di dare le dimissioni prima che le pietre spaccassero i vetri e che le porte cadessero sotto la spinta della folla.La storia ha posto in fondo alla pagina il sigillo rosso che autentica la rivoluzione. La religione ha svolto il suo ruolo di sollevare il sipario; i mullah ora si disperderanno in un grande volo di abiti neri e bianchi. La scena cambia. L’atto principale sta per cominciare: quello della lotta di classe, delle avanguardie armate, del partito che organizza le masse popolari, eccetera. Sarà veramente così?

Non c’era bisogno d’essere un gran profeta per vedere che lo Scià, l’estate scorsa, era già politicamente morto; né per rendersi conto che l’esercito non poteva costituire una forza politica indipendente. Non c’era bisogno d’essere veggente per constatare che la religione non era una forma dì compromesso, ma una forza reale: quella che poteva far sollevare un popolo non solo contro il sovrano e la sua polizia, ma contro tutto un regime, tutto un modo di vivere, tutto un mondo. 

Ma le cose appaiono oggi abbastanza chiare, permettono di rintracciare quel che bisogna chiamare la strategia del movimento religioso. Le lunghe manifestazioni — sanguinose talvolta, ma incessantemente ripetute — erano altrettanti atti giuridici e politici ad un tempo che privavano lo Scià della sua legittimità e il personale politico della sua rappresentatività. Il Fronte nazionale si è inchinato. Baktiar ha voluto invece resistere e ricevere dallo Scià una legittimità che avrebbe meritato garantendo la partenza senza ritorno del sovrano. Invano.

Il secondo ostacolo erano gli americani. Questi sembravano veramente temibili. Hanno invece ceduto. Per impotenza, ed anche per calcolo: piuttosto che sostenere con tutte le forze un potere morente e con cui erano troppo compromessi, preferiscono lasciare che si sviluppi una situazione di tipo cileno, che si acuiscano i conflitti interni ed intervenire in seguito. Forse pensano che questo movimento, che in fondo preoccupa tutti ì regimi della regione, quali che siano, accelererà un accordo in Medio Oriente. Questo è stato percepito immediatamente anche dai palestinesi e dagli israeliani: i primi facendo appello all’ayatollah per la liberazione dei Luoghi Santi, i secondi proclamando: ragione di più per non cedere su nulla.

Quanto all’ostacolo dell’esercito, era chiara la sua paralisi provocata dalle correnti che lo attraversavano. Ma questa paralisi che costituiva un vantaggio per l’opposizione finché lo Scià regnava, diventava un pericolo, non appena ciascuna tendenza si fosse sentita libera, in assenza di ogni potere, di agire a suo modo. Perciò: bisognava far aderire l’esercito per settori successivi, senza sfasciarlo troppo presto. Ma la rottura si è prodotta prima di quanto si prevedesse. Provocazione, incidente, poco importa. Un gruppo di «duri» ha attaccato la frazione dell’esercito che era passata dal lato dell’ayatollah precipitando fra questa e la folla un ravvicinamento che andava ben al di là della semplice manifestazione gomito a gomito. Si è passati alla distribuzione delle armi. Classico punto culminante di ogni sollevamento rivoluzionario.

È questa distribuzione che, da sola, ha capovolto tutto, ed ha circoscritto la guerra civile. Lo Stato Maggiore si è reso conto che una parte molto importante delle truppe sfuggiva al suo controllo; e che c’era negli arsenali materiale per armare decine e decine di migliaia di civili. Meglio aderire in blocco, prima che la popolazione sia in armi, e per anni forse. I capi religiosi hanno subito ricambiato la cortesia: hanno dato l’ordine di restituire le armi.

Oggi si è a questo punto: in una situazione che non ha trovato uno sbocco preciso, la «rivoluzione» ha mostrato, a tratti, alcune sue forme familiari. Ma le cose sono ancora stranamente ambigue. 

L’esercito passato dalla parte dei religiosi, senza essersi davvero spaccato, avrà un peso importante: le sue diverse tendenze si scontreranno nell’ombra per determinare chi sarà la nuova «guardia» del regime , quella che lo protegge, che lo sostiene, e che lo tiene fra le mani. 

All’altra estremità, è certo che non tutti restituiranno le armi. I «Marxisti-leninisti», il cui ruolo non è stato del tutto secondario nel movimento, pensano probabilmente che bisogna passare dall’unione delle masse alla lotta di classe. Non essendo stati l’avanguardia, che unifica e solleva, vorranno essere la forza: che decide nell’equivoco e che chiarifica. Scavalcare per meglio dividere. 

La scelta è decisiva per questo movimento che è giunto ad un risultato infinitamente raro nel XX secolo: un popolo senza armi che si solleva tutto intero e rovescia con le sue mani un regime «onnipotente». Ma la sua importanza storica non dipenderà forse dalla sua conformità ad un modello «rivoluzionario» riconosciuto. La dovrà piuttosto alla possibilità che avrà di sconvolgere gli elementi della situazione politica del Medio Oriente, dunque l’equilibrio strategico mondiale. La sua singolarità, che ha fatto fino ad oggi la sua forza, rischia di diventare in seguito la sua potenza di espansione. È infatti come movimento «islamico» che può incendiare tutta le regione, rovesciando i regimi più instabili, ed inquietando i più solidi. L’Islam — che non è semplicemente religione, ma modo di vita, appartenenza ad una storia e ad una civiltà — rischia di costituire una gigantesca polveriera, formata da centinaia di milioni di uomini. Da ieri ogni stato musulmano può essere rivoluzionario dall’interno, a partire dalle sue tradizioni secolari. 

Infatti: bisogna riconoscere che la rivendicazione dei «giusti diritti del popolo palestinese» non ha quasi per niente fatto sollevare i popoli arabi. Che cosa accadrebbe se questa causa ricevesse il dinamismo di un movimento islamico, ben più forte di un riferimento marxista-leninista o maoista? D’altro lato: quale vigore riceverebbe il movimento «religioso» di Khomeini se proponesse la liberazione della Palestina come suo obiettivo?

Il Giordano non scorre più molto lontano da Israele.

lunedì 6 novembre 2023

LE COLPE DI OBAMA

 L’Amministrazione Obama è entrata in funzione dopo la débâcle politica, più che militare, irachena orchestrata da George W. Bush e da una maggioranza bipartisan dopo le stragi islamiste dell’11 settembre 2001. Per allontanarsi da quello schema, Obama si è fatto guidare dall’idea del disimpegno americano, non solo da quel preciso quadrante geopolitico, ma anche da quello più tradizionale europeo e mediorientale.

Obama ha scelto di fare perno sull’Asia («pivot to East Asia») per motivi geopolitici ed economici, ma anche per le ragioni anagrafiche e culturali di una nuova generazione di leader americani, democratici e repubblicani, cresciuta senza quel legame familiare e storico con il vecchio continente europeo forgiato nelle battaglie contro i totalitarismi del Novecento. Il mondo dei cold war warriors sembrava finito ai tempi di Obama, da archiviare, e si credeva illusoriamente che non ci fosse più bisogno di un poliziotto del mondo.

Così Obama ha ridotto il numero dei soldati nelle basi americane in Europa, ha fermato il progetto di scudo missilistico europeo in Polonia e Repubblica Ceca che avrebbe tenuto a bada l’Iran e la Russia, ha abbandonato la Georgia alle grinfie di Mosca non accorgendosi del progetto imperialista di Putin, non ha mosso un dito quando la Russia ha invaso anche la Crimea e il Donbas, ha sottovalutato la nascita e la penetrazione dell’Isis nelle aree abbandonate dal ritiro dell’esercito americano, ha guidato dal sedile posteriore l’intervento militare in Libia e, non intervenendo nemmeno di fronte alle stragi con le armi chimiche, ha consegnato la Siria alla Russia non curandosi delle atrocità commesse da Assad e da Putin, del dramma delle migrazioni in Europa e delle conseguenze populiste e autoritarie che si sarebbero create nei paesi democratici suoi alleati.

Obama, anzi, ha promosso l’idea di un «reset» con la Russia, condonando la strategia imperialista putiniana e di diffusione del caos in Occidente, e soprattutto facendo credere al dittatore di Mosca che le democrazie liberali, deboli e divise al loro interno, non avrebbero mai più avuto la forza morale, civile e militare di affrontare altri conflitti.

La gestione a Washington del declino americano è stata interpretata a Mosca come una resa americana. Tanto più che la Casa Bianca, malgrado ne fosse pienamente al corrente, non ha fatto niente, ma proprio niente, per fermare l’ingerenza russa sul processo democratico americano, lasciandola inquinare fino a far eleggere Trump.

Obama, infine, ha spostato l’asse geopolitico mediorientale dall’Arabia Saudita sunnita all’Iran degli Ayatollah sciiti, con la conseguenza che il regime islamico di Teheran ha ripreso a respirare economicamente, a lavorare alla costruzione di un arsenale atomico, a opprimere la popolazione civile e a riannodare il filo della campagna islamica per la distruzione di Israele (ieri, a proposito, la Guida Suprema della teocrazia iraniana ha ricevuto a Teheran il gran capo di Hamas, e chissà che bell’incontro tra due anziani reazionari, misogini e assassini che vogliono estendere il loro regno delle tenebre ovunque nel mondo).

Fidandosi degli Ayatollah, Obama non solo ha offerto una carota ai nemici dell’Occidente e di Israele, ma ha anche bastonato gli alleati israeliani, i quali per reazione, e per timore di non essere più protetti da Washington, si sono radicalizzati come mai nella storia dello Stato ebraico, con i risultati visti in questi anni. (Trump, invece, nel 2017 ha rimesso nell’angolo l’Iran, consegnando la politica mediorientale ai sauditi chissà per quali interessi personali e lasciando via libera totale agli estremisti israeliani già radicalizzati da Obama).

Quindici anni dopo, le parole di John McCain sulla Georgia, sull’Isis e sull’Afganistan, e poi quelle di Mitt Romney sulla Russia «senza dubbio il nostro nemico geopolitico principale», ridicolizzate come retaggi della Guerra Fredda da Obama e dai suoi giovani consiglieri, risuonano come un’analisi geopolitica più accurata del mondo in cui vivevamo allora e oggi.

La storia ovviamente non si fa col senno di poi, ma non si può nemmeno sorvolare sul fatto che qualcuno queste cose le ha puntualmente previste, avvertendo Obama e i suoi che il rischio sarebbe stato esattamente quello che stiamo vivendo oggi, sia ai confini orientali sia ai confini meridionali dell’Europa.

Il TALMUD

 Chi per curiosità intellettuale si è avvicinato al Talmud (testo normativo ebraico che raccoglie la sapienza e le discussioni delle scuole rabbiniche avvicendatesi nei secoli tra Babilonia, Alessandria d’Egitto e la terra d’Israele) sa che le domande sono più importanti delle risposte.

Il metodo base del dibattito rabbinico muove in genere da una affermazione e, subito dopo, cerca la domanda di cui l’affermazione di partenza è una possibile risposta.
La procedura può sembrare inversa e contorta, come spesso contorto è il Talmud, ma è davvero interessante perché afferma, come dicevo prima, la supremazia della domanda sulla risposta. La domanda è tutto e le domande sono quindi ciò che anima lo sviluppo nei secoli della cultura ebraica.
Nel Talmud, alle risposte normative consolidate e accettate, sono affiancate le note di tutte le discussioni che hanno formulato tesi alternative. Non si butta niente, insomma, men che mai i dubbi e le tesi contrapposte.
Basterebbe questo a segnalare la distanza siderale tra questa mentalità e quella islamica. Nell’Islam vige un determinismo assoluto. Tutto appartiene a Dio / Allah e la realtà stessa, momento per momento, non è determinata dalla mano dell’uomo o chissà da cosa, bensì da Allah e dal suo volere.
Per assurdo che possa sembrare perfino le mostruose efferatezze compiute il 7 ottobre dai miliziani di Hamas contro civili israeliani inermi, potrebbero non essere addebitate alla loro spietata psicopatologia e alle loro armi perché anche quelle sono figlie della volontà di Allah.
Scusate il pistolotto (retaggio di vecchie letture, tra cui,”Cos’è Il Talmud”, di Adin Steinsaltz, Giuntina, e Islam di Alessandro Bausani, Garzanti, entrambi buoni libri per i curiosi) ma queste cosette mi son tornate alla mente leggendo i giornali delle ultime settimane in cui si è realizzato un mesto paradosso.
I commentatori schierati petto in fuori a favore della pesante rappresaglia israeliana su Gaza senza se e senza ma, quelli per capirsi che si sentono liberi di sputare sui “complessisti”, (ultimo il commentatore della Magna Grecia Francesco Merlo su Repubblica con il suo bieco attacco contro Zerocalcare) calpestano con la massima disinvoltura il principio cardine del pensiero ebraico.
Curioso no? Chi si pone qualche domanda, come è accaduto per la guerra della Russia contro l’Ucraina, è considerato un disertore, un nemico dell’Occidente, quello stesso Occidente, peraltro, che insegna il pensiero critico.
Questa patologia intellettuale colpisce con particolare aggressività quelli che una volta si facevano chiamare “i terzisti”, simboleggiando con questo termine un atteggiamento mentale aperto, laico e liberale. I “fu terzisti”, il cui caposquadra è sempre stato il simpatico Paolo Mieli sembrano aver rinunciato a una evidentemente fragile laicità di pensiero in favore di una islamizzazione del cervello, in cui si distingue non solo la destra e la stampa fascio / trash ma, e questo inquieta, anche le voci della destra “would be” conservatrice liberale e i suoi giornali.
Giova ricordare che questo è già successo dopo l’11 settembre, quando gli stessi opinion maker che si agitano oggi inneggiarono all’invasione prima dell’Afghanistan e poi dell’Iraq e alla coalizione dei “willings”, e poi si è visto come è finita. Chi si interrogava sulla sensatezza delle invasioni militari era un complice di Al Qaeda. Oggi i “fu terzisti” ci riprovano, credo, e fortunatamente, con debole fortuna.
Nelle ultime ore, alcuni amici mi hanno girato dei video di ciò che avviene in un ospedale di Gaza. Non entro nei particolari, ma non sono riuscito a andare oltre i trenta secondi di visione. E’ davvero necessario tutto questo? E’ davvero utile alle sacrosante esigenze di sicurezza, e anche di risposta armata, di Israele? Sono sicuro che un consesso di rabbini avrebbe molti dubbi.

domenica 5 novembre 2023

LA CONFESSIONE

 Ci sono, nel decalogo porto da Dio a Mosè sul monte Sinai, due comandamenti di cui, da ragazzino cresciuto nella dottrina cattolica, non capivo appieno il significato, benché lo intuissi. Quando mi fu più chiaro, grazie al passaparola che discende dallo spirito educativo dei ragazzi grandi sui più piccoli come lo Spirito Santo sulle teste dei discepoli di Cristo il giorno delle Pentecoste, ebbi il presentimento che li avrei trasgrediti entrambi.

Erano il sesto e il nono comandamento: non fornicare e non desiderare la donna d’altri. Per il momento mi sentivo quasi al sicuro dalle tentazioni a essi connesse. Non desideravo nessuna donna, avendone già a sufficienza tra mamma e sorelle. Quanto al fornicare, non mi sembrava di averlo mai fatto. E poi che cosa significava? Anche in quel caso mi fu d’aiuto il passaparola. Cionondimeno, quando ebbi l’età per fornicare, fornicai. Salvo essere colto da repentino pentimento. Inginocchiato nel confessionale, che cosa avrei dovuto dire al prete? Mi perdoni, padre per aver fornicato? Uno dei grandi mi suggerì di dirgli, abbassando la voce, che avevo commesso atti impuri. Seguii il consiglio. Il confessore disse di non aver capito e me lo fece ripetere tre volte, costringendomi ad alzare la voce. Mi ero imbattuto in un vecchio sordo. Eravamo tutti collegiali e ci avevano indirizzati in quella chiesa che doveva essere convenzionata con il collegio. Gli altri in attesa dietro di me udirono, sorrisero, uno sghignazzò. Quello che mi aveva detto di sussurrare il peccato in questione: «Guarda che quello lì non è sordo, lo fa». Un doppio scherzo da preti. Ma pure quello educativo.
Da quel giorno la fornicazione la servii solo sussurrata e usando il verbo originale del catechismo: ho fornicato. Se mi il prete chiedeva quante volte, buttavo lì un numero a caso. Penso che molti preti prendessero mentalmente nota di quelle informazioni per sapersi regolare su chi avrebbero potuto avvicinare per poter eventualmente fornicare insieme. Ma allora non si parlava di preti pedofili, neanche si sospettava che esistessero, ed ho avuto la fortuna di passare indenne attraverso il mondo delle tonache nere senza esserne sporcato.
L’uso del verbo fornicare si interruppe, come molte altre cose, nel Sessantotto, quando un giovane prete, facendo lo gnorri, mi chiese che cosa intendessi per fornicare. Glielo spiegai benché lo sapesse. Ne rise da solo, poi ne ridemmo assieme. Era ora di cambiare linguaggio, forse anche idee. Compresi che io e la religione non avevamo più nulla da dirci. Né da confessarci. Lasciai la Chiesa senza traumi, per libera scelta. Fin che vi ero rimasto avevo cercato di cavarmela peccando e confessandomi. Sta in questo la forza numerica e il successo del cattolicesimo rispetto a tutte le altre versioni del cristianesimo. Pecchi in segreto e in segreto vieni mandato a casa con la coscienza monda, pronto a ricominciare. Un’invenzione geniale per chi ha la carne debole e la coscienza a pezzi. Utile sia a te, sia ai preti che hanno così il controllo della tua intimità. Fino a un certo punto, però. La confessione non è una sabbia mobile come il trumeau dell’analista nel quale sprofondi mettendoti in sua balia e dissanguando il portafoglio. È gratis e dura pochi minuti: compili il modulo orale della confessione standard, ti viene impartita un’assoluzione altrettanto standard e avanti un altro. C’è routine e noia in questa pratica che risolve tutto e non rende niente. Immagino che parecchi preti, a sentirsi dire dall’ennesimo adolescente «ho commesso atti impuri», poco manchi che sbottino: «Anch’io figliolo, e sapessi quante volte».
Insomma, la confessione sussurrata altro non è che una suggestiva messinscena teatrale nella penombra di una chiesa. Se le luci e le ombre sono quelle giuste, magari arricchite da una sciabolata di sole morente che taglia la vetrata di un rosone e inquadra il confessionale come farebbe un «occhio di bue», l’effetto è assicurato. Il teatro si fa cinema. È anche grazie alla superiorità scenografica dei riti che i cattolici battono i protestanti. A parte quei protestanti americani che trasformano le confessioni in lavacri corali pubblici. Nel qual caso si tratta di musical, ma non a tutti piacciono i film cantati e coreografati.
Tornando ai comandamenti che mi incuriosivano, c’era poi il nono: non desiderare la donna d’altri. Un peccato che, da ragazzo non correvo il rischio di commettere. A meno che non fosse sanzionabile invidiare il ragazzo più grande di me che aveva desiderato e ottenuto (le attenzioni, beninteso) della ragazzina che io stesso desideravo. Non mi arrabattai più di tanto nel dilemma e comunque non era questione teologica da sottoporre a un prete davanti al colabrodo del confessionale. Molto più avanti negli anni, avrei capito che il divieto di ambire alla donna di un altro («Sei già di un altro» era il titolo di una canzone dell’Equipe 84 del 1966) non poteva nascere che in una terra troppo santa dove le donne erano (e in molto casi ancora sono) proprietà privata e bottino di guerra, non esseri umani liberi. Ne è prova la versione maschilista del comandamento, che prescrive di non desiderare la donna d’altri, mentre non prende in considerazione che una donna possa desiderare l’uomo di un’altra. Anzi, non deve proprio desiderare.
Sulla delicata materia si chiedono e si attendono lumi da teologi ferrati. Mancando i quali, credo sia lecito peccare liberamente in entrambi i sensi di marcia, da parte dei due sessi. (Da «Le confessioni di Renato Turner»)

giovedì 2 novembre 2023

COLONIALISMO

 di Federico Rampini

«Vi chiediamo scusa per il colonialismo arabo e ottomano». No, questa frase non l’ha detta nessun leader islamico in visita in Africa o in Asia. L’ultimo in ordine cronologico, a riconoscere pubblicamente le sofferenze causate dall’imperialismo ad un popolo sottomesso, è stato re Carlo d’Inghilterra durante la sua visita in Kenya ieri. Il suo gesto si è aggiunto alla lunga lista di pentimenti ufficiali che capi di Stato, capi di governo e monarchi di tutto l’Occidente hanno compiuto. 


Dall’elenco di queste giuste ammissioni di responsabilità storica mancano però gli esponenti di altri colonialismi. Gli imperi arabo e ottomano sono importanti alla luce di quel che sta avvenendo in Medio Oriente, e del dibattito sulla questione palestinese che infiamma e lacera anche le nostre società. Nelle università americane, per esempio, è un dogma pressoché universale il fatto che Israele sia una moderna potenza coloniale e i palestinesi le vittime di una occupazione di tipo imperialista. Il fatto che tanti paesi occidentali abbiano solidarizzato con Israele dopo la mattanza di civili e bambini ebrei compiuta il 7 ottobre da Hamas, è stato interpretato nei campus e nelle manifestazioni di piazza come una conferma della diabolica complicità tra le potenze «bianche» colpevoli del colonialismo, e Israele. 

Quella di Hamas viene difesa da tanti giovani americani come una lotta «di resistenza», perciò legittima perfino quando fa stragi di innocenti. Una panoramica sui corsi di storia insegnati in molte università americane ed europee indica che i mali del colonialismo occidentale vengono studiati e denunciati; gli altri no. Ma i palestinesi non parlavano arabo alle origini, né erano destinati necessariamente a praticare la religione islamica. Non sono di etnìa araba i marocchini e gli algerini, i tunisini o gli egiziani. Oggi tutti parlano l’arabo. Perché? Lingua e religione sono state imposte nelle loro terre da uno dei più grandi imperialismi della storia, quello arabo

L’avanzata delle armate arabe ha portato l’Islam in molte parti dell’Africa (dal Sudan alla Nigeria) e, nella direzione opposta, si è spinta fino all’India, l’Indonesia, la Malesia. E’ una religione mondiale perché lo è diventata attraverso le armi e la conquista coloniale. Lo stesso impero arabo è stato un grande profittatore nel business degli schiavi, prima ancora che nel commercio di esseri umani entrassero le potenze bianche. All’impero arabo è poi subentrato quello ottomano, con il suo centro nell’attuale Turchia, ma sempre di religione musulmana. 

L’impero ottomano ha avuto fasi di tolleranza religiosa e di rispetto per le minoranze — inclusi gli ebrei — però ha ereditato un’ampiezza quasi paragonabile alle conquiste arabe, e ha comunque imposto un dominio straniero su vaste aree del Nordafrica e del Medio Oriente fino alla prima guerra mondiale. Quindi il suo dominio intercontinentale (Europa Asia Africa) è arrivato al Novecento. La convivenza tra ebrei e palestinesi conobbe tensioni anche sotto la dominazione ottomana (e sì, gli ebrei in quella terra abitano da millenni, non sono stati «catapultati» nel 1947 da Inghilterra e Stati Uniti per risarcirli dell’Olocausto, come si narra nelle leggende dei campus universitari americani). 

Ma né i monarchi sauditi né Erdogan hanno mai accennato a scusarsi con i popoli sottomessi dai loro imperi, o per il ruolo avuto nella storia dello schiavismo. A dire il vero non risulta che dei leader africani abbiano mai preteso queste scuse, mentre le esigono dai leader occidentali. È solo una questione cronologica, cioè conta solo il fatto che il colonialismo occidentale è più recente quindi fresco nella memoria? «Recente» è una definizione opinabile. La quasi totalità delle ex-colonie dell’Occidente divennero indipendenti negli anni Sessanta. 

Oggi una bambina o un bambino africano nascono con tre generazioni post-coloniali alle spalle. Per molti paesi africani il periodo di sottomissione a imperi occidentali è durato «solo» ottant’anni, quello post-coloniale ormai si avvicina ai settanta. Quel «solo» tra virgolette va messo in relazione con le storie di altre parti del mondo che furono colonie dell’Occidente molto più a lungo, dall’India all’Indonesia. La vera conquista dell’Africa da parte degli europei di fatto cominciò alla fine dell’Ottocento con la conferenza internazionale di Berlino. È opinabile se gli effetti del colonialismo europeo siano stati più profondi, più durevoli, più nefasti rispetto a quelli del colonialismo arabo e ottomano. 

L’idea che il colonialismo infligga danni incancellabili che compromettono le capacità di sviluppo è confutata da storie di miracoli economici asiatici che vanno da Singapore (ex colonia inglese) al Vietnam (ex colonia francese), dall’India (inglese) all’Indonesia (olandese). Negli anni Sessanta, al momento della sua indipendenza, Singapore era più povera di molti paesi africani e mandava delegazioni governative a studiare il modello virtuoso delKenya: il paese dove re Carlo ha riconosciuto ieri le colpe del colonialismo. Se re Carlo andasse a chiedere scusa a Singapore oggi si dubiterebbe della sua salute mentale: quella città-Stato per reddito pro capite è quasi due volte più ricca del Regno Unito. 

Il dibattito non riguarda solo gli storici. L’insegnamento a senso unico che viene impartito nelle università americaneha conseguenze concrete nel clima politico che in questi giorni condiziona Joe Biden. Il suo partito è lacerato sul Medio Oriente, come non lo era stato sull’Ucraina. Quando la Camera dei deputati di Washington ha votato una risoluzione di condanna della carneficina di Hamas, 15 parlamentari dell’ala sinistra del partito democratico si sono dissociati. In seguito, una vasta coalizione di movimenti che si definiscono progressisti ha pubblicato una «Dichiarazione di Gaza» che si riferisce alle elezioni presidenziali del 2024. In questa si legge che gli attivisti radicali non voteranno per Biden «se non cessa il supporto americano per Israele, la sua pulizia etnica e il genocidio in atto a Gaza». 

Tornando all’atmosfera delle università, ho già raccontato la dottrina pro-Hamas che domina fra molti studenti. Continuano episodi raccapriccianti come quello di studentesse pro-Hamas che vanno in giro a strappare e distruggere i manifesti incollati ai muri con le foto degli ostaggi civili di Hamas. Concentrarsi sui giovani però rischia di essere fuorviante. I professori non sono da meno. Questa settimana una lettera aperta di cento docenti della Columbia University di New York ha definito il massacro di Hamas «la risposta militare di un popolo che ha sofferto l’oppressione e la violenza di Stato da parte di una potenza d’occupazione». 

Questo clima ideologico sta già condizionando Biden. Ieri la Casa Bianca ha annunciato «il varo della prima strategia nazionale per combattere l’islamofobia». L’annuncio è apparso come una concessione all’ala sinistra del partito democratico, che denuncia un clima di aggressione, odio razziale e intimidazione unicamente diretto verso i musulmani d’America. È indubbio che la tragedia del 7 ottobre e la guerra di Gaza stiano resuscitando anche nella società americana animosità, razzismi, pulsioni aggressive, crimini di odio, un po’ come accadde dopo l’11 settembre 2001. Il caso più spaventoso è stata l’uccisione di un bambino palestinese-americano di sei anni, a Chicago. Ma secondo i dati forniti dall’Fbi non c’è proporzione tra la crescita dell’islamofobia e quella dell’antisemitismo. Gli ebrei sono solo il 2,4% della popolazione Usa ma sono il 60% delle vittime di crimini di odio.

IL PANE

  Maurizio Di Fazio per il  “Fatto quotidiano”   STORIA DEL PANE. UN VIAGGIO DALL’ODISSEA ALLE GUERRE DEL XXI SECOLO Da Omero che ci eternò ...