di Federico Rampini
«Vi chiediamo scusa per il colonialismo arabo e ottomano». No, questa frase non l’ha detta nessun leader islamico in visita in Africa o in Asia. L’ultimo in ordine cronologico, a riconoscere pubblicamente le sofferenze causate dall’imperialismo ad un popolo sottomesso, è stato re Carlo d’Inghilterra durante la sua visita in Kenya ieri. Il suo gesto si è aggiunto alla lunga lista di pentimenti ufficiali che capi di Stato, capi di governo e monarchi di tutto l’Occidente hanno compiuto.
Dall’elenco di queste giuste ammissioni di responsabilità storica mancano però gli esponenti di altri colonialismi. Gli imperi arabo e ottomano sono importanti alla luce di quel che sta avvenendo in Medio Oriente, e del dibattito sulla questione palestinese che infiamma e lacera anche le nostre società. Nelle università americane, per esempio, è un dogma pressoché universale il fatto che Israele sia una moderna potenza coloniale e i palestinesi le vittime di una occupazione di tipo imperialista. Il fatto che tanti paesi occidentali abbiano solidarizzato con Israele dopo la mattanza di civili e bambini ebrei compiuta il 7 ottobre da Hamas, è stato interpretato nei campus e nelle manifestazioni di piazza come una conferma della diabolica complicità tra le potenze «bianche» colpevoli del colonialismo, e Israele.
Quella di Hamas viene difesa da tanti giovani americani come una lotta «di resistenza», perciò legittima perfino quando fa stragi di innocenti. Una panoramica sui corsi di storia insegnati in molte università americane ed europee indica che i mali del colonialismo occidentale vengono studiati e denunciati; gli altri no. Ma i palestinesi non parlavano arabo alle origini, né erano destinati necessariamente a praticare la religione islamica. Non sono di etnìa araba i marocchini e gli algerini, i tunisini o gli egiziani. Oggi tutti parlano l’arabo. Perché? Lingua e religione sono state imposte nelle loro terre da uno dei più grandi imperialismi della storia, quello arabo.
L’avanzata delle armate arabe ha portato l’Islam in molte parti dell’Africa (dal Sudan alla Nigeria) e, nella direzione opposta, si è spinta fino all’India, l’Indonesia, la Malesia. E’ una religione mondiale perché lo è diventata attraverso le armi e la conquista coloniale. Lo stesso impero arabo è stato un grande profittatore nel business degli schiavi, prima ancora che nel commercio di esseri umani entrassero le potenze bianche. All’impero arabo è poi subentrato quello ottomano, con il suo centro nell’attuale Turchia, ma sempre di religione musulmana.
L’impero ottomano ha avuto fasi di tolleranza religiosa e di rispetto per le minoranze — inclusi gli ebrei — però ha ereditato un’ampiezza quasi paragonabile alle conquiste arabe, e ha comunque imposto un dominio straniero su vaste aree del Nordafrica e del Medio Oriente fino alla prima guerra mondiale. Quindi il suo dominio intercontinentale (Europa Asia Africa) è arrivato al Novecento. La convivenza tra ebrei e palestinesi conobbe tensioni anche sotto la dominazione ottomana (e sì, gli ebrei in quella terra abitano da millenni, non sono stati «catapultati» nel 1947 da Inghilterra e Stati Uniti per risarcirli dell’Olocausto, come si narra nelle leggende dei campus universitari americani).
Ma né i monarchi sauditi né Erdogan hanno mai accennato a scusarsi con i popoli sottomessi dai loro imperi, o per il ruolo avuto nella storia dello schiavismo. A dire il vero non risulta che dei leader africani abbiano mai preteso queste scuse, mentre le esigono dai leader occidentali. È solo una questione cronologica, cioè conta solo il fatto che il colonialismo occidentale è più recente quindi fresco nella memoria? «Recente» è una definizione opinabile. La quasi totalità delle ex-colonie dell’Occidente divennero indipendenti negli anni Sessanta.
Oggi una bambina o un bambino africano nascono con tre generazioni post-coloniali alle spalle. Per molti paesi africani il periodo di sottomissione a imperi occidentali è durato «solo» ottant’anni, quello post-coloniale ormai si avvicina ai settanta. Quel «solo» tra virgolette va messo in relazione con le storie di altre parti del mondo che furono colonie dell’Occidente molto più a lungo, dall’India all’Indonesia. La vera conquista dell’Africa da parte degli europei di fatto cominciò alla fine dell’Ottocento con la conferenza internazionale di Berlino. È opinabile se gli effetti del colonialismo europeo siano stati più profondi, più durevoli, più nefasti rispetto a quelli del colonialismo arabo e ottomano.
L’idea che il colonialismo infligga danni incancellabili che compromettono le capacità di sviluppo è confutata da storie di miracoli economici asiatici che vanno da Singapore (ex colonia inglese) al Vietnam (ex colonia francese), dall’India (inglese) all’Indonesia (olandese). Negli anni Sessanta, al momento della sua indipendenza, Singapore era più povera di molti paesi africani e mandava delegazioni governative a studiare il modello virtuoso delKenya: il paese dove re Carlo ha riconosciuto ieri le colpe del colonialismo. Se re Carlo andasse a chiedere scusa a Singapore oggi si dubiterebbe della sua salute mentale: quella città-Stato per reddito pro capite è quasi due volte più ricca del Regno Unito.
Il dibattito non riguarda solo gli storici. L’insegnamento a senso unico che viene impartito nelle università americaneha conseguenze concrete nel clima politico che in questi giorni condiziona Joe Biden. Il suo partito è lacerato sul Medio Oriente, come non lo era stato sull’Ucraina. Quando la Camera dei deputati di Washington ha votato una risoluzione di condanna della carneficina di Hamas, 15 parlamentari dell’ala sinistra del partito democratico si sono dissociati. In seguito, una vasta coalizione di movimenti che si definiscono progressisti ha pubblicato una «Dichiarazione di Gaza» che si riferisce alle elezioni presidenziali del 2024. In questa si legge che gli attivisti radicali non voteranno per Biden «se non cessa il supporto americano per Israele, la sua pulizia etnica e il genocidio in atto a Gaza».
Tornando all’atmosfera delle università, ho già raccontato la dottrina pro-Hamas che domina fra molti studenti. Continuano episodi raccapriccianti come quello di studentesse pro-Hamas che vanno in giro a strappare e distruggere i manifesti incollati ai muri con le foto degli ostaggi civili di Hamas. Concentrarsi sui giovani però rischia di essere fuorviante. I professori non sono da meno. Questa settimana una lettera aperta di cento docenti della Columbia University di New York ha definito il massacro di Hamas «la risposta militare di un popolo che ha sofferto l’oppressione e la violenza di Stato da parte di una potenza d’occupazione».
Questo clima ideologico sta già condizionando Biden. Ieri la Casa Bianca ha annunciato «il varo della prima strategia nazionale per combattere l’islamofobia». L’annuncio è apparso come una concessione all’ala sinistra del partito democratico, che denuncia un clima di aggressione, odio razziale e intimidazione unicamente diretto verso i musulmani d’America. È indubbio che la tragedia del 7 ottobre e la guerra di Gaza stiano resuscitando anche nella società americana animosità, razzismi, pulsioni aggressive, crimini di odio, un po’ come accadde dopo l’11 settembre 2001. Il caso più spaventoso è stata l’uccisione di un bambino palestinese-americano di sei anni, a Chicago. Ma secondo i dati forniti dall’Fbi non c’è proporzione tra la crescita dell’islamofobia e quella dell’antisemitismo. Gli ebrei sono solo il 2,4% della popolazione Usa ma sono il 60% delle vittime di crimini di odio.
Nessun commento:
Posta un commento