domenica 5 novembre 2023

LA CONFESSIONE

 Ci sono, nel decalogo porto da Dio a Mosè sul monte Sinai, due comandamenti di cui, da ragazzino cresciuto nella dottrina cattolica, non capivo appieno il significato, benché lo intuissi. Quando mi fu più chiaro, grazie al passaparola che discende dallo spirito educativo dei ragazzi grandi sui più piccoli come lo Spirito Santo sulle teste dei discepoli di Cristo il giorno delle Pentecoste, ebbi il presentimento che li avrei trasgrediti entrambi.

Erano il sesto e il nono comandamento: non fornicare e non desiderare la donna d’altri. Per il momento mi sentivo quasi al sicuro dalle tentazioni a essi connesse. Non desideravo nessuna donna, avendone già a sufficienza tra mamma e sorelle. Quanto al fornicare, non mi sembrava di averlo mai fatto. E poi che cosa significava? Anche in quel caso mi fu d’aiuto il passaparola. Cionondimeno, quando ebbi l’età per fornicare, fornicai. Salvo essere colto da repentino pentimento. Inginocchiato nel confessionale, che cosa avrei dovuto dire al prete? Mi perdoni, padre per aver fornicato? Uno dei grandi mi suggerì di dirgli, abbassando la voce, che avevo commesso atti impuri. Seguii il consiglio. Il confessore disse di non aver capito e me lo fece ripetere tre volte, costringendomi ad alzare la voce. Mi ero imbattuto in un vecchio sordo. Eravamo tutti collegiali e ci avevano indirizzati in quella chiesa che doveva essere convenzionata con il collegio. Gli altri in attesa dietro di me udirono, sorrisero, uno sghignazzò. Quello che mi aveva detto di sussurrare il peccato in questione: «Guarda che quello lì non è sordo, lo fa». Un doppio scherzo da preti. Ma pure quello educativo.
Da quel giorno la fornicazione la servii solo sussurrata e usando il verbo originale del catechismo: ho fornicato. Se mi il prete chiedeva quante volte, buttavo lì un numero a caso. Penso che molti preti prendessero mentalmente nota di quelle informazioni per sapersi regolare su chi avrebbero potuto avvicinare per poter eventualmente fornicare insieme. Ma allora non si parlava di preti pedofili, neanche si sospettava che esistessero, ed ho avuto la fortuna di passare indenne attraverso il mondo delle tonache nere senza esserne sporcato.
L’uso del verbo fornicare si interruppe, come molte altre cose, nel Sessantotto, quando un giovane prete, facendo lo gnorri, mi chiese che cosa intendessi per fornicare. Glielo spiegai benché lo sapesse. Ne rise da solo, poi ne ridemmo assieme. Era ora di cambiare linguaggio, forse anche idee. Compresi che io e la religione non avevamo più nulla da dirci. Né da confessarci. Lasciai la Chiesa senza traumi, per libera scelta. Fin che vi ero rimasto avevo cercato di cavarmela peccando e confessandomi. Sta in questo la forza numerica e il successo del cattolicesimo rispetto a tutte le altre versioni del cristianesimo. Pecchi in segreto e in segreto vieni mandato a casa con la coscienza monda, pronto a ricominciare. Un’invenzione geniale per chi ha la carne debole e la coscienza a pezzi. Utile sia a te, sia ai preti che hanno così il controllo della tua intimità. Fino a un certo punto, però. La confessione non è una sabbia mobile come il trumeau dell’analista nel quale sprofondi mettendoti in sua balia e dissanguando il portafoglio. È gratis e dura pochi minuti: compili il modulo orale della confessione standard, ti viene impartita un’assoluzione altrettanto standard e avanti un altro. C’è routine e noia in questa pratica che risolve tutto e non rende niente. Immagino che parecchi preti, a sentirsi dire dall’ennesimo adolescente «ho commesso atti impuri», poco manchi che sbottino: «Anch’io figliolo, e sapessi quante volte».
Insomma, la confessione sussurrata altro non è che una suggestiva messinscena teatrale nella penombra di una chiesa. Se le luci e le ombre sono quelle giuste, magari arricchite da una sciabolata di sole morente che taglia la vetrata di un rosone e inquadra il confessionale come farebbe un «occhio di bue», l’effetto è assicurato. Il teatro si fa cinema. È anche grazie alla superiorità scenografica dei riti che i cattolici battono i protestanti. A parte quei protestanti americani che trasformano le confessioni in lavacri corali pubblici. Nel qual caso si tratta di musical, ma non a tutti piacciono i film cantati e coreografati.
Tornando ai comandamenti che mi incuriosivano, c’era poi il nono: non desiderare la donna d’altri. Un peccato che, da ragazzo non correvo il rischio di commettere. A meno che non fosse sanzionabile invidiare il ragazzo più grande di me che aveva desiderato e ottenuto (le attenzioni, beninteso) della ragazzina che io stesso desideravo. Non mi arrabattai più di tanto nel dilemma e comunque non era questione teologica da sottoporre a un prete davanti al colabrodo del confessionale. Molto più avanti negli anni, avrei capito che il divieto di ambire alla donna di un altro («Sei già di un altro» era il titolo di una canzone dell’Equipe 84 del 1966) non poteva nascere che in una terra troppo santa dove le donne erano (e in molto casi ancora sono) proprietà privata e bottino di guerra, non esseri umani liberi. Ne è prova la versione maschilista del comandamento, che prescrive di non desiderare la donna d’altri, mentre non prende in considerazione che una donna possa desiderare l’uomo di un’altra. Anzi, non deve proprio desiderare.
Sulla delicata materia si chiedono e si attendono lumi da teologi ferrati. Mancando i quali, credo sia lecito peccare liberamente in entrambi i sensi di marcia, da parte dei due sessi. (Da «Le confessioni di Renato Turner»)

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