(Pierluigi Panza) Nel 1978-79 furono pubblicati sul «Corriere della Sera» nove reportage del filosofo francese Michel Foucault sulla rivoluzione iraniana, frutto di un accordo tra il quotidiano e la «Équipe Foucault» impegnata a elaborare riflessioni sui problemi internazionali. Il primo reportage, intitolato «L'esercito quando la terra trema» (28/9/1978), precede di tre mesi la fuga dello scià e il successivo ritorno in Iran, da Parigi, dell’ayatollah Khomeini. Lo scià, sostenuto dagli Usa che avevano favorito il colpo di Stato contro il primo ministro Mossadeq, aveva da poco celebrato con sfarzo i 2500 anni dell’impero persiano. I reportage di Foucault illustrano la rivoluzione a Teheran accompagnati dalla riflessione militante del filosofo che, iscritto al Partito comunista francese, vedeva con entusiasmo il «cambio di potere» in Iran, frutto di un’azione rivoluzionaria dal basso, «con le mani nude», di impronta maoista. Progressivamente, però, specie nell’ultimo reportage del 13 febbraio 1979 intitolato «Una polveriera chiamata Islam», Foucault incominciò a intuire che quella non fosse una rivoluzione comunista popolare, bensì una rivoluzione islamica, religiosa. E fu profetico nel temerne lo sviluppo, anche in rapporto alla Palestina. Scrisse che i Paesi arabi non avevano mai ascoltato i «giusti diritti del popolo palestinese» e si chiedeva, con timore, cosa sarebbe potuto accadere in futuro se ad animare la causa palestinese non fosse più stato il marxismo bensì l’islamismo radicale.
11 febbraio 1979: rivoluzione in Iran. Questa frase ho l’impressione di leggerla nei giornali di domani e nei futuri libri di storia. È vero che in questa serie di strani avvenimenti che hanno caratterizzato gli ultimi dodici mesi della vita politica iraniana una figura nota, infine, appare. Ma questa lunga successione di feste e di lutti, questi milioni di uomini nelle strade per invocare Allah, i mullah nei cimiteri che gridano la rivolta e la preghiera, questi sermoni distribuiti in minicassette, ed il vecchio che ogni giorno attraversava la strada in una cittadina della periferia di Parigi per inginocchiarsi in direzione della Mecca; tutto questo ci era difficile chiamarlo «rivoluzione».
Oggi ci sentiamo in un mondo più familiare: ci sono state delle barricate; delle riserve di armi saccheggiate; ed un consiglio riunito in fretta ha lasciato ai ministri solo il tempo di dare le dimissioni prima che le pietre spaccassero i vetri e che le porte cadessero sotto la spinta della folla.La storia ha posto in fondo alla pagina il sigillo rosso che autentica la rivoluzione. La religione ha svolto il suo ruolo di sollevare il sipario; i mullah ora si disperderanno in un grande volo di abiti neri e bianchi. La scena cambia. L’atto principale sta per cominciare: quello della lotta di classe, delle avanguardie armate, del partito che organizza le masse popolari, eccetera. Sarà veramente così?
Non c’era bisogno d’essere un gran profeta per vedere che lo Scià, l’estate scorsa, era già politicamente morto; né per rendersi conto che l’esercito non poteva costituire una forza politica indipendente. Non c’era bisogno d’essere veggente per constatare che la religione non era una forma dì compromesso, ma una forza reale: quella che poteva far sollevare un popolo non solo contro il sovrano e la sua polizia, ma contro tutto un regime, tutto un modo di vivere, tutto un mondo.
Ma le cose appaiono oggi abbastanza chiare, permettono di rintracciare quel che bisogna chiamare la strategia del movimento religioso. Le lunghe manifestazioni — sanguinose talvolta, ma incessantemente ripetute — erano altrettanti atti giuridici e politici ad un tempo che privavano lo Scià della sua legittimità e il personale politico della sua rappresentatività. Il Fronte nazionale si è inchinato. Baktiar ha voluto invece resistere e ricevere dallo Scià una legittimità che avrebbe meritato garantendo la partenza senza ritorno del sovrano. Invano.
Il secondo ostacolo erano gli americani. Questi sembravano veramente temibili. Hanno invece ceduto. Per impotenza, ed anche per calcolo: piuttosto che sostenere con tutte le forze un potere morente e con cui erano troppo compromessi, preferiscono lasciare che si sviluppi una situazione di tipo cileno, che si acuiscano i conflitti interni ed intervenire in seguito. Forse pensano che questo movimento, che in fondo preoccupa tutti ì regimi della regione, quali che siano, accelererà un accordo in Medio Oriente. Questo è stato percepito immediatamente anche dai palestinesi e dagli israeliani: i primi facendo appello all’ayatollah per la liberazione dei Luoghi Santi, i secondi proclamando: ragione di più per non cedere su nulla.
Quanto all’ostacolo dell’esercito, era chiara la sua paralisi provocata dalle correnti che lo attraversavano. Ma questa paralisi che costituiva un vantaggio per l’opposizione finché lo Scià regnava, diventava un pericolo, non appena ciascuna tendenza si fosse sentita libera, in assenza di ogni potere, di agire a suo modo. Perciò: bisognava far aderire l’esercito per settori successivi, senza sfasciarlo troppo presto. Ma la rottura si è prodotta prima di quanto si prevedesse. Provocazione, incidente, poco importa. Un gruppo di «duri» ha attaccato la frazione dell’esercito che era passata dal lato dell’ayatollah precipitando fra questa e la folla un ravvicinamento che andava ben al di là della semplice manifestazione gomito a gomito. Si è passati alla distribuzione delle armi. Classico punto culminante di ogni sollevamento rivoluzionario.
È questa distribuzione che, da sola, ha capovolto tutto, ed ha circoscritto la guerra civile. Lo Stato Maggiore si è reso conto che una parte molto importante delle truppe sfuggiva al suo controllo; e che c’era negli arsenali materiale per armare decine e decine di migliaia di civili. Meglio aderire in blocco, prima che la popolazione sia in armi, e per anni forse. I capi religiosi hanno subito ricambiato la cortesia: hanno dato l’ordine di restituire le armi.
Oggi si è a questo punto: in una situazione che non ha trovato uno sbocco preciso, la «rivoluzione» ha mostrato, a tratti, alcune sue forme familiari. Ma le cose sono ancora stranamente ambigue.
L’esercito passato dalla parte dei religiosi, senza essersi davvero spaccato, avrà un peso importante: le sue diverse tendenze si scontreranno nell’ombra per determinare chi sarà la nuova «guardia» del regime , quella che lo protegge, che lo sostiene, e che lo tiene fra le mani.
All’altra estremità, è certo che non tutti restituiranno le armi. I «Marxisti-leninisti», il cui ruolo non è stato del tutto secondario nel movimento, pensano probabilmente che bisogna passare dall’unione delle masse alla lotta di classe. Non essendo stati l’avanguardia, che unifica e solleva, vorranno essere la forza: che decide nell’equivoco e che chiarifica. Scavalcare per meglio dividere.
La scelta è decisiva per questo movimento che è giunto ad un risultato infinitamente raro nel XX secolo: un popolo senza armi che si solleva tutto intero e rovescia con le sue mani un regime «onnipotente». Ma la sua importanza storica non dipenderà forse dalla sua conformità ad un modello «rivoluzionario» riconosciuto. La dovrà piuttosto alla possibilità che avrà di sconvolgere gli elementi della situazione politica del Medio Oriente, dunque l’equilibrio strategico mondiale. La sua singolarità, che ha fatto fino ad oggi la sua forza, rischia di diventare in seguito la sua potenza di espansione. È infatti come movimento «islamico» che può incendiare tutta le regione, rovesciando i regimi più instabili, ed inquietando i più solidi. L’Islam — che non è semplicemente religione, ma modo di vita, appartenenza ad una storia e ad una civiltà — rischia di costituire una gigantesca polveriera, formata da centinaia di milioni di uomini. Da ieri ogni stato musulmano può essere rivoluzionario dall’interno, a partire dalle sue tradizioni secolari.
Infatti: bisogna riconoscere che la rivendicazione dei «giusti diritti del popolo palestinese» non ha quasi per niente fatto sollevare i popoli arabi. Che cosa accadrebbe se questa causa ricevesse il dinamismo di un movimento islamico, ben più forte di un riferimento marxista-leninista o maoista? D’altro lato: quale vigore riceverebbe il movimento «religioso» di Khomeini se proponesse la liberazione della Palestina come suo obiettivo?
Il Giordano non scorre più molto lontano da Israele.
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