di Federico Rampini
L’Iran ha un ruolo centrale nella nuova guerra in Medio Oriente, come protettore di Hamas, Hezbollah, e altre milizie jihadiste in tutta l’area. Ma perché questo paese ha una posizione così antagonista verso Israele, l’America, l’Occidente? Non è sempre stato così, al contrario. Prima che a Teheran prendesse il potere il clero sciita con la rivoluzione khomeinista del 1979, questo paese era un alleato dell’Occidente e ne abbracciava molti valori, anche se non tutti. Ricostruire la storia persiana degli ultimi cent’anni è essenziale per avere una comprensione delle dinamiche attuali. (Persia e Iran sono la stessa cosa e gli iraniani oggi rivendicano orgogliosamente l’eredità dell’impero persiano).
Per capire l’anno tremendo che fu il 1979, è necessario fare un salto all’indietro, nella seconda guerra mondiale. Precisamente nell’agosto 1941, quando l’Iran subisce due invasioni militari in rapida sequenza: dalle truppe britanniche e da quelle sovietiche. È allora che le antichissime vie della seta si trasformano nelle moderne vie del petrolio, implicano l’Occidente nelle vicende politiche del mondo arabo-persiano, con comportamenti predatori e ingerenze golpiste.
Su quell’area del mondo a volte aleggia l’impressione di essere rimasti inchiodati in quel periodo, un passato che non passa mai. A qualcuno fa comodo che sembri così. Le loro classi dirigenti autoritarie si sono prodigate per indottrinare i popoli in quel senso, racchiuderli in una bolla ideologica in cui si ripete all’infinito la storia dei soprusi occidentali.
È un alibi comodo per distrarre l’attenzione dalla corruzione spaventosa, dall’incapacità di diffondere benessere e diritti. Però quei soprusi nel passato ci furono. E la nozione di Occidente va spesso intesa in senso lato, includendo quell’Unione sovietica che era ideologicamente europea in quanto marxista, soprattutto atea. Perciò è simbolico il fatto che l’agosto del 1941 si apra con quelle due invasioni rivali ma solidali, inglese e sovietica.
L’importanza dell’Iran in quel frangente della seconda guerra mondiale – in agosto non c’è ancora stato l’attacco di Pearl Harbor e quindi gli Stati Uniti non sono entrati nel conflitto – è due volte strategica. Per contrastare l’avanzata delle truppe tedesche che sembra travolgente sia in Europa sia in Medio Oriente, inglesi e sovietici hanno bisogno di bloccare l’accesso di Adolf Hitler agli idrocarburi. Il greggio sta diventando la fonte di combustibile più usata a fini militari, soppianta il carbone. L’Iran è già allora uno dei paesi più ricchi di petrolio. Inoltre i suoi porti controllano rotte marittime cruciali anche per collegare altre nazioni petrolifere. Infine il vasto territorio persiano è una via di transito tra l’Europa e l’India, la più vasta colonia britannica.
Gli strateghi nazisti nella fase dell’avanzata trionfale pensano di poter conquistare la parte più vicina dell’impero britannico; l’altra, più orientale, la lasciano agli alleati giapponesi. Le vie della “seta-petrolio” sembrano sul punto di vacillare da un dualismo russo-britannico a un controllo nippo-germanico. È a questo punto che scatta l’offensiva congiunta di Londra e Mosca per blindare il Golfo Persico con l’invasione a tenaglia dell’Iran. Le divergenze tra i due alleati Winston Churchill e Josef Stalin (quest’ultimo è stato fino a poco prima il complice di Hitler) furono messe da parte per promuovere gli interessi comuni in una regione di vitale importanza strategica ed economica. Per molti iraniani una simile interferenza esterna era intollerabile. Nel novembre 1941 ci furono manifestazioni al grido di «Lunga vita a Hitler!».
Nel duello tra l’Occidente e la Russia per il controllo dell’Iran, in questo periodo è in vantaggio il primo. Londra ha messo le mani sulle risorse energetiche del paese. La sua forza è la multinazionale Anglo-Persian Oil Company, poi ribattezzata Anglo-Iranian, cioè la madre dell’attuale Bp (British Petroleum). La pessima fama di quest’azienda tra gli iraniani è giustificata dalla sua avidità. Si tratta di un’azienda privata, però l’intreccio d’interessi con il governo di Londra a quell’epoca è totale. È in questo periodo che sulla scena politica iraniana si affaccia Mohammad Mossadeq: un nazionalista laico, il cui primo obiettivo è l’indipendenza economica, il controllo sulla ricchezza petrolifera.
Dopo Pearl Harbor, con l’ingresso degli Stati Uniti nella guerra l’importanza del petrolio diventa ancora più evidente. La partecipazione americana fa fare un salto di dimensione “industriale”, le sorti del conflitto si giocano sulla produzione di armamenti e sulla logistica intercontinentale, perciò anche sull’accesso alle materie prime. Il presidente Franklin Roosevelt fa irruzione dentro il Grande Gioco per il controllo sulle vie della seta-petrolio, in parte come alleato-fiancheggiatore di Londra, in parte con un disegno autonomo: già s’intravvede l’aspirazione americana a sostituire la Gran Bretagna nel ruolo di potenza globale. In Iran i primi ventimila soldati americani arrivano nel dicembre 1942. A Teheran alla fine del 1942 s’insedia il quartier generale dell’intero comando Usa per il Golfo Persico. Arrivano i petrolieri americani; le loro prime valutazioni rivelano immense potenzialità per l’estrazione dell’oro nero. Gli accordi tra compagnie petrolifere dei due paesi, benedetti da Churchill e Roosevelt, vengono equiparati a una Yalta delle materie prime (il riferimento è al vertice di Yalta dove Stalin e Roosevelt si divisero buona parte del mondo in sfere d’influenza).
Ma questa Yalta delle materie prime giunge quando l’era degli imperi coloniali sta tramontando. Gli Stati Uniti praticano un’egemonia di tipo nuovo; hanno un atteggiamento ambivalente, abbracciano la causa dell’emancipazione dei popoli, non sono interessati a prolungare il colonialismo tradizionale degli inglesi. E poi sulla scena mondiale si affaccia l’Urss con un messaggio anti-imperialista. Ben presto questa diventa – dopo la sconfitta dei nazifascismi – la nuova priorità degli americani: arginare la marea comunista. L’ideologia comunista sostiene le aspirazioni dei popoli arabi e persiano all’indipendenza. Il socialismo di matrice sovietica sembra agli americani una versione moderna dell’Islam, capace di dilagare in una conquista-lampo lungo le vie della seta.
Per fermare l’avanzata dei rossi, l’America oscilla tra diversi approcci: cerca dei compromessi ragionevoli con gli interessi dei petro-Stati; oppure aizza il clero locale contro i pericoli del marxismo ateo; o infine ricalca i metodi inglesi e organizza trame, ingerenze nella politica locale. Comincia un travaso di denaro verso le classi dirigenti del Medio Oriente, che prefigura su scala ridotta quel che accadrà con gli shock petroliferi degli anni Settanta e lo tsunami di petro-dollari. Nuovi flussi di “ricchezza facile” ed enormi rendite parassitarie.
L’episodio più importante per il futuro dell’Iran – l’antefatto per capire la rivoluzione khomeinista del 1979 – avviene dopo la fine della seconda guerra mondiale, ed è segnato dall’allineamento tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Nel 1951 Mossadeq diventa primo ministro. Immediatamente fa quello che aveva promesso: nazionalizza la compagnia petrolifera Anglo-Iranian. Apre una strada maestra verso il controllo sulle ricchezze del sottosuolo, che poi ispirerà Nasser in Egitto, Gheddafi in Libia, e molti altri leader nazionalisti. Il laico Mossadeq trova inizialmente l’appoggio del clero musulmano. L’ayatollah Kashani per sostenerlo nel settembre 1951 proclama una «giornata nazionale di odio contro il governo britannico».
A Londra è il panico. E non solo nel quartier generale dell’Anglo-Iranian. Proprio per l’intreccio fra pubblico e privato, le sorti di quell’azienda si ripercuotono sulle casse dello Stato. Il governo di Sua Maestà è sull’orlo della bancarotta. Le spese militari della seconda guerra mondiale hanno dissanguato il Tesoro britannico. Quattro anni prima ha dovuto accettare la liquidazione della colonia più vasta, l’India. Se perde anche il petrolio persiano, la Gran Bretagna rimane senza la sua fonte più ricca di valuta pregiata. Collasso finanziario e crisi valutaria sono alle porte. È una questione di vita o di morte, così la percepisce la classe dirigente di Londra.
Per bloccare Mossadeq bisogna coinvolgere gli americani. I servizi segreti britannici riescono a convincere la neonata Cia, che si fa complice di questo disegno: bisogna dimostrare che dietro Mossadeq spunterà ben presto il demonio comunista dell’Urss. La tesi non è del tutto infondata: Mosca tesse le sue trame, il partito filo-sovietico Tudeh ha organizzato manifestazioni popolari in Iran contro gli inglesi, a cui hanno partecipato soldati dell’Armata rossa. L’Urss soffia sul fuoco delle rivolte anti-occidentali e potrebbe diventarne la beneficiaria: il precedente più importante è la vittoria di Mao Zedong in Cina nel 1949.
In combutta con gli inglesi la Cia si procura la complicità dello scià Reza Pahlavi; e anche l’appoggio dell’ayatollah Kashani, rapidamente convintosi che il pericolo maggiore è l’avanzata del comunismo ateo. Il 19 agosto 1953 col nome in codice di Operazione Ajax va in porto il primo di una serie di golpe targati Cia. Per le sue conseguenze di lungo termine forse questo è il più nefasto di tutti i colpi di Stato orditi dagli occidentali. Mossadeq viene arrestato, al suo posto lo scià nomina come primo ministro un generale. Per la Gran Bretagna il sollievo è solo temporaneo, il golpe si rivela una vittoria di Pirro. Washington infatti impone la fine del monopolio dell’Anglo-Iranian, sostituta da un consorzio di cui fanno parte ben cinque compagnie petrolifere Usa. Ha inizio una nuova storia, quella dell’Iran come alleato di ferro degli Stati Uniti, piattaforma essenziale per l’influenza americana sulle vie della seta-petrolio.
Dal 1953 al 1979, per un quarto di secolo l’Iran diventa laboratorio per un esperimento di modernizzazione e secolarizzazione di un grande paese a maggioranza musulmana. Qualcosa di simile lo aveva fatto Ataturk in Turchia. A Teheran l’aggancio con l’Occidente è ancora più stretto. Quell’esperimento viene descritto così dallo storico Ervand Abrahamian: «Per decenni l’Iran fu diretto da uomini moderni, ben rasati, capaci di parlare perfettamente l’inglese e il francese, e vestiti da stilisti italiani. Per decenni l’Iran fu ammirato negli Stati Uniti come un alleato indispensabile, un eccellente cliente dell’industria bellica, perfino un gendarme nel Golfo Persico».
L’Iran dello scià era coccolato da Washington come oggi lo è l’Arabia saudita. Con una differenza non marginale. Sotto lo scià ci furono riforme laiche all’avanguardia rispetto ad altri paesi islamici: la parità dei diritti delle donne, insieme con un notevole miglioramento del loro accesso all’istruzione, anche universitaria. Quello che l’Arabia saudita accenna a voler iniziare solo oggi, e timidamente, fu fatto in modo radicale dallo scià di Persia settant’anni prima. Ma proprio lì matura una premessa per l’avvento della teocrazia degli ayatollah. Lo scià che riconosce pieni diritti alle donne, è lo stesso che viene percepito da molti iraniani come un servo dell’America. Respingere l’imperialismo yankee e ripudiare l’emancipazione femminile, volere il riscatto nazionale e il ritorno ai tabù di una società patriarcale, per una parte degli iraniani diventano tutt’uno.
Patriottismo e religiosità retrograda si alleano fino a confondersi. L’eredità di Mossadeq, cioè l’aspirazione all’indipendenza economica, viene raccolta da due forze in competizione tra loro: da una parte la sinistra marxista del partito Tudeh legato a Mosca; dall’altra i mullah. Negli anni Sessanta e Settanta un pezzo del clero sciita diventa il principale concorrente dei comunisti, nella gara per la leadership dell’opposizione allo scià. L’ago della bilancia saranno i mercanti dei bazar: è una borghesia medio-alta di antichissime tradizioni imprenditoriali, per due millenni tra i più attivi intermediari delle vie della seta. I mercanti, e i loro figli diplomati nelle università dello scià come medici o ingegneri, diventano la base sociale di una nuova predicazione sciita che risale a pensatori radicali come Ali Shariati. Quest’ultimo è formato alla Sorbona, in quella Parigi dove l’ayatollah Khomeini vive in esilio negli anni finali dello scià, preparando il terremoto che rovescerà il monarca.
La rivoluzione islamica è sconvolgente, e non solo nella “nostra” prospettiva. Nel 1978-79 esplodono le rivolte e si consuma la fine della monarchia. L’America perde un alleato cruciale, l’Iran le si ritorce contro e diventa un avversario indomabile. L’episodio che rimane più impresso nella nostra memoria (rievocato anche dal film «Argo») è l’occupazione dell’ambasciata americana a Teheran, la lunga odissea dei funzionari americani tenuti in ostaggio. L’irruzione degli studenti militanti espugna la sede diplomatica il 4 novembre 1979. Tra le motivazioni degli studenti c’è la protesta contro l’asilo offerto allo scià fuggiasco in America (Reza Pahlavi morirà di cancro poco tempo dopo). Negli archivi dell’ambasciata i militanti islamici sperano anche di trovare le prove che fu la Cia a organizzare il golpe contro Mossadeq. L’occupazione-sequestro dura 444 giorni. L’impotenza degli Stati Uniti in quel frangente contribuisce alla perdita di credibilità del democratico Jimmy Carter, presidente per un solo mandato: un anno dopo l’irruzione nell’ambasciata di Teheran verrà sconfitto dal repubblicano Ronald Reagan. In mezzo al lungo sequestro ci sta pure un altro episodio tragico per l’America: quando Carter dà il via libera a un’operazione di commando speciali per liberare gli ostaggi (partendo dalla portaerei Uss Nimitz nel Golfo Persico), il blitz fallisce in modo disastroso per la collisione nel deserto fra un elicottero e un aereo Usa, in cui muoiono otto militari.
Fra le vittime della rivoluzione khomeinista ci sono i tanti iraniani uccisi o imprigionati e torturati; più un milione di esuli. A cominciare dai comunisti iraniani filo-sovietici, tra i primi a finire in carcere o uccisi. E poi tutto quel che ne segue: il cocktail esplosivo che dal 1979 alimenta l’idea di uno “scontro di civiltà”. L’antiamericanismo portò molti occidentali a simpatizzare per gli islamismi, senza prevedere le stragi di cui avrebbero disseminato il pianeta. L’obiettivo proclamato dalla teocrazia sciita di distruggere lo Stato d’Israele, il sostegno a milizie di terroristi in tutto il Medio Oriente, va visto in questo scenario più ampio, di una guerra santa contro gli infedeli e l’Occidente.
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