lunedì 29 maggio 2017

Calvino

di Paolo Mieli
Colpisce nella vita di Giovanni Calvino l’assoluta precarietà esistenziale. Emanuele Fiume, nella straordinaria biografia, Calvino. Il Riformatore profugo (di imminente pubblicazione per i tipi della Salerno), mette in grande evidenza questa sua caratteristica. Martin Lutero e Huldrich Zwingli, fa osservare Fiume, passarono entrambi gran parte della loro vita «a non più di qualche decina di chilometri dai rispettivi villaggi natii». Calvino, invece, fu l’unico tra i grandi della Riforma ad aver vissuto per la maggior parte della sua esistenza — «e per la quasi totalità della sua vita attiva», sottolinea Fiume — da esule. Ginevra non fu la sua patria e, fino a pochi anni dalla sua morte, Calvino vi dimorò come straniero immigrato, «con il permesso di soggiorno che gli veniva rinnovato di sei mesi in sei mesi». Forse fu per questo, prosegue lo storico, che fornì «una motivazione spirituale e vocazionale» a un gran numero di «profughi per ragione di fede»; così come fu l’unico che vide nella formazione di questo genere di profughi uno «strumento di diffusione della Riforma a livello continentale» e di tessitura di una «rete di contatti teologici e politici che risulterà fondamentale per gli sviluppi internazionali del protestantesimo».

Fiume si interroga sulla demonizzazione di cui Calvino è stato fatto oggetto per secoli («eresiarca per i cattolici, intollerante per gli illuministi, inventore del capitalismo per i marxisti»). Ad integrazione delle opere di tre studiosi italiani novecenteschi — Renato Freschi, Giovanni Calvino (Corticelli); Adolfo Omodeo, Giovanni Calvino e la Riforma in Ginevra, opera curata postuma da Benedetto Croce (Laterza); Giorgio Tourn, Giovanni Calvino. Il riformatore di Ginevra (Claudiana») — offre un saggio dal quale, per sua stessa dichiarazione, non emanano «né olezzo di incenso, né puzza di zolfo».
Calvino, Jehan Cauvin venne alla luce, secondogenito di un notaio, il 10 luglio 1509, a Noyon in Piccardia. La sua prima biografia «autorizzata», scritta dall’allievo e amico Teodoro di Beza, racconta con qualche vaghezza — come già mise in evidenza Jean Cadier in Calvino (Claudiana) — che fu a Parigi all’età di dodici anni. Alister McGrath, in Giovanni Calvino. Il Riformatore e la sua influenza sulla cultura occidentale (Claudiana), ha approfondito la questione del «beneficio ecclesiastico» che gli fu assegnato in quegli anni giovanili senza però dare eccessivo rilievo alla borsa di studio offertagli dalla Chiesa. 
Il futuro riformatore fu poi al Collège de Montaigu dove aveva studiato trent’anni prima Erasmo da Rotterdam e che, dopo di lui, avrebbe avuto tra i suoi allievi Ignazio di Loyola. A proposito di Erasmo va ricordato che — come ha messo in risalto McGrath — il primo libro del ventitreenne Calvino (un commento al De clementia di Seneca pubblicato, a spese dell’autore, nel 1532) fu un’aperta sfida all’edizione critica erasmiana dello stesso testo, data alle stampe appena quindici anni prima. Una sfida che lo stesso Fiume considera «quantomeno eccessiva». Questo libro di Calvino, polemico nei confronti di Erasmo da Rotterdam, fu un fiasco, «l’unico fiasco editoriale» di colui che fu «uno degli autori più letti nel corso del XVI secolo». 
Tema centrale del saggio di Fiume è la ricostruzione di come la Francia (e così gran parte dell’Europa occidentale) fu percorsa da «fremiti di Riforma religiosa» ben prima dell’entrata in scena di Lutero. Calvino entrò in contatto con simpatizzanti della Riforma (tra i quali suo cugino Pierre Robert, detto Olivetano) da giovanissimo, in un periodo che trascorse tra Orléans e Bourges. L’incontro più importante con un riformatore fu senza dubbio quello con il rettore della Sorbona Nicola Cop, alla cui prolusione dell’anno accademico 1533, Calvino diede un apporto notevole (probabilmente ne fu il ghost writer). Quel discorso, che sostanzialmente sposava le tesi di Lutero, causò un’aspra reazione del re di Francia Francesco I. Reazione che costrinse Cop e Calvino a fuggire da Parigi e, sulla loro scia, portò all’incriminazione di una cinquantina di persone.
La tensione con l’autorità francese era destinata a crescere: l’anno successivo (1534), nella notte tra il 17 e il 18 ottobre, a Parigi, Tours, Blois, Rouen e Orléans furono affissi dei placard (manifesti) contro «i grandi, insopportabili e orribili abusi della messa papale». A riprova di quanto fosse articolata e tentacolare la rete cospirativa, due copie di quel manifesto che stroncava la messa tradizionale furono ritrovate nell’anticamera della stanza da letto del re nel castello di Amboise. Una era appesa alla porta d’ingresso alla stanza, l’altra, piegata, nel vaso in cui il sovrano riponeva il suo fazzoletto. Francesco I, grande protettore della Chiesa di Roma, capì al volo la gravità dell’avvertimento e per ritorsione mandò al rogo un discreto numero di evangelici, primo tra tutti Barthélemy Milon. Fiume mette in risalto come Calvino prese subito la distanze da quei ribelli e tenne a esibire, nei loro confronti, un «profondo disprezzo». Per lui il rispetto dell’autorità restava fondamentale.
Quando, nel corso delle sue peregrinazioni, Calvino giunse a Ginevra, si imbatté nell’autorità di Guillaume Farel che aveva vent’anni più di lui ed era stato collaboratore, a Meaux, del vescovo riformatore Guillaume Briçonnet. Dal 1530 Ginevra era governata da un Consiglio cittadino. Nel 1534 arrivò il domenicano Guy Furby che accusò Farel di essere «un pupazzo» in mano ai nemici della Chiesa cattolica, in particolare quelli di Berna, città che aveva aderito alla Riforma. Il risultato dell’azione di Furby fu tuttavia opposto a quello sperato: Ginevra si schierò sempre più dalla parte di Berna. Nell’estate del 1535, dopo una predica di Farel, la città si rivoltò contro la Chiesa di Roma e un’importante reliquia, un presunto frammento del cervello di San Pietro, venne gettata nel Rodano. A quel punto il clero lasciò in tutta fretta la città e il Consiglio incamerò i beni ecclesiastici.
È la rottura. Ha inizio una lunga stagione repubblicana in cui Ginevra sarà alleata della Confederazione svizzera nella quale, però, entrerà solo nel 1815. Nel settembre del 1536 Calvino inizia il suo ministero nei panni di «lettore della Scrittura». Ma dai documenti trovati da Fiume emerge che anche lui è mal tollerato dalla città: lo pagano in ritardo, malvolentieri e lo definiscono «ille gallus», quel francese. Lui reagisce con arroganza. Un difetto che viene alla luce in occasione di una sua polemica con il riformatore alsaziano Martin Bucer, che lo tratta invece con dolcezza. Farel, il pastore cieco Jean Corauld ma soprattutto Calvino si battono da quel momento per una presa di distanze di Ginevra da Berna e per una ricucitura del rapporto con la Francia. Calvino sostiene pubblicamente che il Consiglio della città è ispirato dal diavolo. Corauld definisce i membri del Consiglio «ubriaconi» e viene arrestato. Calvino e Farel sono costretti a emigrare. Strana e per certi versi misteriosa congiura. 
Dopo qualche peregrinazione, nel 1538 Calvino arriva a Strasburgo che ha come riferimento spirituale il testé citato Bucer, che lo accoglie con sé senza dar peso alle polemiche di cui s’è detto. Bucer già nel 1521 s’è avvicinato a Lutero, ha sposato una suora e nel 1523 è stato scomunicato. È una figura importante dell’Europa riformatrice: Enrico VIII lo consulta al momento del divorzio con Caterina d’Aragona. Calvino lo aiuta nella costruzione del progetto di convivenza delle diverse anime del protestantesimo: nel rispetto dei grandi teologi del Medioevo e nel riferimento costante alla figura di Paolo di Tarso. Su spinta dell’imperatore Carlo V tra il 1540 e il 1541 si svolgono colloqui tra protestanti e cattolici per una pacificazione che restituisca serenità alla Chiesa. Papa Paolo III e Martin Lutero però sono diffidenti, Calvino se ne tiene ai margini e l’insuccesso dell’iniziativa brucia Bucer. 
È in questo periodo, 1540, che Calvino decide di prender moglie (una vedova), perché, scrive Fiume, «anche ragioni di immagine richiedevano che i ministri riformati fossero sposati». Ma il rapporto con la sposa — nove anni — fu sostanzialmente casto. L’annotazione alla «castità» del matrimonio di Calvino da parte di Teodoro di Beza ha provocato allusioni, anche in tempi recenti, a una sua possibile omosessualità. In proposito si è fatta menzione di un suo ruolo di imputato a un processo per sodomia in Francia. Ma si tratta di un caso di omonimia. Per giunta imperfetta. E comunque Calvino ai tempi di quel caso giudiziario non poteva essere in Francia. Inoltre, scrive Fiume, «se è vero che il temperamento dello schivo teologo non ci sembra caratterizzato da incontenibili istinti sessuali come poteva esserlo quello di Enrico VIII o Filippo d’Assia, è altrettanto vero che nella sua predicazione i rapporti sessuali tra coniugi costituiscono una parte fondamentale del matrimonio». Nel 1541, nonostante la città di Strasburgo da due anni gli avesse concesso la cittadinanza, decide di tornare a Ginevra dove la cittadinanza l’avrebbe ottenuta solo diciotto anni dopo. Sente che Ginevra è e ancor più sarà la città della sua rivoluzione...
Nel 1545 Ginevra è sconvolta da un’epidemia di peste e Calvino — che è uno strenuo fautore della persecuzione degli «untori» nonché della caccia alle streghe — ne approfitta per sostituire numerosi pastori deceduti a causa del morbo con altri a lui fedeli. Nasce in quel clima, peraltro di progressivo distacco dal luteranesimo, l’homo calvinisticus di cui ha parlato lo storico francese Emile-Guillaume Léonard nella sua monumentale Storia del protestantesimo (il Saggiatore). Unico passo falso la condanna al rogo del teologo antitrinitario spagnolo Michele Serveto (1553) che sarebbe costata a Calvino un marchio d’infamia. Ma Fiume lo assolve, almeno in parte. Perché? Calvino avrebbe potuto denunciare Serveto dal 1547 e non lo fa. Non ci è pervenuto nessun dato storiografico che attesti il compiacimento di Calvino per quell’uccisione. Serveto, poi, non fu condannato da un tribunale ecclesiastico, bensì da uno civile. Per di più, nella Ginevra della Riforma, fu l’unico mandato a morte. Ragion per cui, anche se fosse provato un coinvolgimento di Calvino nella decisione di mandare Serveto al rogo, la sua responsabilità, secondo l’autore, non sarebbe così schiacciante come l’hanno giudicata i critici della Riforma ginevrina. 
Ma la rivoluzione di Calvino fu molto importante. L’abolizione delle festività cattoliche, mette in evidenza Fiume, offrì la disponibilità di un mese e mezzo di giorni lavorativi in più che «costituì un investimento di peso per l’economia familiare e sociale». Le sue «leggi contro il lusso» andrebbero ristudiate ancora oggi dal momento che seppero coniugare moderna efficienza e guerra alle sperequazioni sociali.
Nel libro L’ordine del tempo (Claudiana) lo storico svizzero Max Engammare dimostra come persino la puntualità sia un’invenzione del XVI secolo venuta fuori dalla Ginevra riformata dove iniziarono a diffondersi gli orologi pubblici e «il calvinismo reimpostò il rapporto tra la spiritualità e lo scorrere (o l’incalzare) del tempo». Calvino parlò di «uso responsabile» del tempo e impose la clessidra sui pulpiti per verificare la durata dei sermoni. Riformatore? In realtà Calvino fu un rivoluzionario sotto molti aspetti più importante dello stesso Lutero.

Mediocrità

Sara Ricotta Voza per “la Stampa”

Il mondo è dei mediocri. Sarà che è un assunto non difficile da sperimentare - e anche consolatorio per spiegarsi certi successi o insuccessi ugualmente distanti dalle vette del genio e dagli abissi dell' indegnità - ma il saggio La mediocrazia (Neri Pozza, pp. 239, 18) del filosofo canadese Alain Deneault a un anno dall' uscita è ormai un longseller internazionale. E dire che in centinaia di pagine, dense di pensiero e di citazioni, ne ha davvero per tutti.

In politica, da Trump a Tsipras, vede solo un «estremo centro», nell'impresa la «religione del brand», il «consumatore-credente», la «dittatura del buonumore». Nel lavoro «devitalizzato» individua la skill fondamentale nel «fare propria con naturalezza l'espressione: alti standard di qualità nella governance nel rispetto dei valori di eccellenza».

E, in ogni ambito, rileva certi tic verbali come «stare al gioco», «sapersi vendere», «essere imprenditori di se stessi». Insomma, dice, «non c'è stata nessuna presa della Bastiglia ma l'assalto è avvenuto: i mediocri hanno preso il potere». Lo abbiamo incontrato a Milano dove ha parlato al Wired Fest, il festival dell' innovazione, altra parola che non manca nel vocabolario mediocratico. Oggi sarà al Circolo dei Lettori di Torino.

Professor Deneault, l'ha colpita questo successo? Anche perché a molti che la leggono lei dice in faccia che sono dei mediocri 
«Mi aspettavo un' eco molto più ristretta, ma questo libro parla di un malessere sociale condiviso da molti. Detto ciò, ho cercato di evitare moralismi e di puntare il dito. Lo scopo era indicare la pressione sociale molto forte che incoraggia a restare persone "qualunque"».


Lei è stato particolarmente duro con il mondo accademico a cui appartiene. Qualcuno si è offeso?
«Sì, visto che sono stato bandito. Tengo corsi stagionali, la mia presenza è episodica. Gli ambienti universitari formano sempre meno una élite capace di gettare luce sulla strada giusta da seguire per l' uomo comune. Sono più simili a una corte d'altri tempi, vendono risultati di ricerca a dei finanziatori. Molta autocensura, molti format replicati per far piacere al potere».

Ha avuto critiche «non mediocri»? 
«Nell'era della mediocrazia non si discute più i pensieri seguono dei corridoi, si preferisce ricevere notizie che confortino».

Perché bisogna temere la mediocrazia? 
«Perché fa soffrire. Chiede a persone impegnate nel servizio pubblico di gestire come si trattasse di una organizzazione privata, così si trovano in conflitto perché avevano un'etica diversa; chiede a ingegneri di progettare oggetti che si rompano in maniera deliberata perché vengano sostituiti, chiede ai medici di diagnosticare malattie che potrebbero diventare davvero pericolose a 130 anni. Senza parlare della manipolazione dei consumatori da parte del marketing».

La mediocrazia è anticamera di dittature, anche edulcorate?
«La dittatura è psicotica, la mediocrazia è perversa. Psicotica perché la dittatura non ha alcun dubbio su chi deve decidere. Hitler, Mussolini, Tito sono stati tutti personaggi ipervisibili, affascinanti, che schiacciano con le loro parole; la mediocrazia è perversa perché cerca di dissolvere l'autorità nelle persone facendo in modo che la interiorizzino e si comportino come fosse una volontà loro».

L'inglese standard è la lingua ufficiale della mediocrazia?
«L' inglese manageriale sì, e uccide l'inglese. È un suicidio linguistico parlare questa lingua quando si è anglofoni, non si può pensare il mondo nella sua complessità o qualsiasi fenomeno sociale utilizzando un vocabolario che non è utile se non alla organizzazione privata».

Tecnologia, social, colossi del web. Anche lì domina la mediocrazia? 
«Dobbiamo immunizzarci da un certo lessico che parla di progresso, innovazione, eccellenza. Mi interessa che si utilizzino questi strumenti ma si deve analizzare l' impatto che hanno su pensiero, morale, politica. Un utilizzo mirato dei social media, per esempio durante le elezioni, può rendere le persone estremamente manipolabili».

Il contrario del mediocre è il superuomo, l'eroe? 
«No. L'antidoto è il pensiero critico, perché smaschera l'ideologia, che è un discorso di interessi sotto la parvenza di scienza. E fa subire un trattamento critico analitico a una nozione che qualcuno ci vuole ficcare nel cervello, per esempio l'inevitabilità della vendita di armi o di una nuova autostrada».

È più ottimista sul futuro?
«Qualsiasi impegno politico è a metà tra lo scoraggiamento e la speranza. Ed è proprio quando la situazione è scoraggiante che ci vuole il coraggio».

giovedì 25 maggio 2017

Bandi appalto

Marco Nese per corriere.it
Se in una gara d’appalto un’azienda promette quasi il 50 per cento di sconto, nessun concorrente è in grado di competere. Ma è proprio quello che sta succedendo in un appalto del Ministero della Difesa. La ditta Dsv-Saima ha presentato un’offerta del 45,31 per cento di sconto sulle quote indicate nel cosiddetto “disciplinare di gara”. 
Al dicastero della Difesa conoscono bene la Dsv-Saima, perché questa società detiene un record davvero strabiliante: da almeno una quindicina d’anni non ha rivali e vince regolarmente tutte le gare.
Fino a qualche anno fa concorrevano varie aziende per aggiudicarsi gli appalti della Difesa. Ci provava anche l’Alitalia. Ma siccome gli incarichi se li aggiudicava sempre la Dsv-Saima, i concorrenti si sono stufati e hanno abbandonato la competizione. L’unica società di trasporti che resiste in una sorta di braccio di ferro è la milanese Jas. Ma nella sua proposta di sconto ha offerto solo il 7,55 per cento. Comparato col 45,31 della Saima non c’è partita.
L’attuale bando di gara è stato pubblicato in data 3 aprile 2017. Lo ha emanato Commiservizi, la direzione generale che gestisce acquisti e assistenza di ogni tipo per le Forze armate. L’appalto prevede di assegnare a una società esterna l’incarico di trasportare per i prossimi 4 anni tutti i rifornimenti necessari ai reparti di militari italiani che sono insediati in varie zone all’estero, in particolare in Iraq e in Afghanistan. 
I dettagli dell’appalto sono elencati in 29 cartelle dove viene spiegato che il servizio richiesto comprende il trasporto di jeep, mezzi blindati, armi, ma anche prefabbricati, generi alimentari e materiale classificato. L’azienda che si aggiudicherà la gara non dovrà superare la spesa di 16 milioni e 363.636,36 euro più Iva per l’anno 2018. E’ previsto il rinnovo dell’accordo per altri 3 anni per un totale che supera i 66 milioni di euro. 
La Dsv-Saima si è subito fatta avanti. Stavolta però, quando si sono ritrovata sotto gli occhi la documentazione, gli stessi committenti sono stati assaliti dai dubbi. Qualcosa non quadrava. E hanno sospeso la gara per valutare se l’eccessiva promessa di sconto contempla anomalie.
Si vuole chiarire come è possibile per la Dsv-Saima svolgere il suo compito praticando condizioni così favorevoli ma realizzando al tempo stesso guadagni. I trasporti pesanti chiesti nella gara d’appalto sono effettuati con enormi aerei cargo Ilyushin e Antonov, presi in affitto.
Un cargo Ilyushin 76 consuma carburante per poco più di 7 mila euro all’ora. Applicando uno sconto del 45,31 per cento, la Dsv-Saima incasserebbe circa 4000 euro, con una notevole perdita, che diventerebbe ancora più ampia se si considera il costo per l’affitto dell’aereo.  
Come finirà? La commissione potrebbe anche decidere che l’offerta della Dsv-Saima non presenta alcuna anomalia e assegnare tranquillamente l’appalto. Con l’inevitabile reazione della concorrente Jas.
Non sarebbe la prima volta che le due società si scontrano davanti alla magistratura. Quattro anni fa, la Difesa lanciò un appalto per trasporto navale. La Saima aveva preso in affitto due vecchie navi, l’Altinia e la Maior. Vinse la gara. Ma la Jas fece ricorso sostenendo che il dispositivo d’appalto era stato concepito proprio su misura per le caratteristiche di quelle due navi. La Saima non fece una piega. Però le andò male: la nave Altinia si incendiò mentre navigava nel golfo di Aden con una carico di blindati Lince. 
La storia si potrebbe ripetere perché è in corso anche una gara per il trasporto navale che scade il 29 maggio. E di nuovo le ditte concorrenti insorgono: ritengono che i dati dell’appalto corrispondono precisamente alle navi affittate dalla Dsv-Saima.

domenica 21 maggio 2017

Radical chic

«I RADICAL CHIC IGNORANO I PROBLEMI REALI» - ACCOGLIENZA, IL SOCIOLOGO RICOLFI: I SALOTTI DI SINISTRA LONTANI DALLA GENTE COMUNE
Intervista di Francesco Ghidetti per 'il Giorno'
Luca Ricolfi, sociologo, insegna Analisi dei dati all' Università di Torino. Sostiene Salvini: la marcia di Milano della «sinistra col portafoglio pieno» dimostra che si chiedono più diritti e più accoglienza per i migranti senza conoscere davvero i problemi.
«Spiace doverlo dire, ma mi pare sostanzialmente vero. Aggiungerei però una cosa: spesso chi è per l' accoglienza 'senza se e senza ma', più che non conoscere i problemi, semplicemente non ne ha. A esempio non vive in un quartiere degradato, o non abita in un alloggio popolare in cui il racket delle occupazioni, non di rado gestito da stranieri, la fa da padrone.
O, semplicemente, guadagna abbastanza da potersi permettere un impianto di allarme moderno, o qualche altra forma di protezione personale. Per non parlare dei casi più sgradevoli, tipo i politici che predicano il dovere dell' accoglienza e girano con la scorta. C' è poi una cosa che dimentichiamo troppo spesso.
È vero che molti lavori che fanno gli stranieri (badanti e muratori, ad esempio) gli italiani non li vogliono più fare, ma è altrettanto vero che molti posti di lavoro conquistati da stranieri (commessi, fattorini, pizzaioli ecc.) farebbero gola a una parte dei nostri disoccupati. Questo è un problema ignorato a sinistra, ma la gente lo vede benissimo».
'Sinistra dei salotti', 'al caviale'. Una semplificazione?
«Si tratta di una semplificazione, ma sfortunatamente esiste. Il fatto che un fenomeno non sia riducibile a una formula non ne elimina l' esistenza. Semmai tendo a pensare che la cultura di sinistra (cui dopotutto appartengo anch' io) sia capace di un repertorio di cecità, autoinganni e ipocrisie molto più esteso di quello che si può osservare nei salotti.
La tendenza a dare risposte ideologiche, senza riguardo per la realtà e per punti di vista diversi dai propri, coinvolge anche molte persone che non frequentano i salotti. È un fenomeno, quello del benpensante progressista, molto interessante per un sociologo: non ho resistito alla tentazione di occuparmene in due libri, Perché siamo antipatici e Sinistra e popolo, quest' ultimo appena uscito da Longanesi».
Tema sicurezza: la gauche italiana è così impreparata?
«Sì, con le dovute e purtroppo rare eccezioni, come quella del ministro Minniti».
Linea-Minniti: giusta?
«Dipende. Se per linea-Minniti si intende quel poco che gli lasciano fare, non servirà a recuperare consenso. Se invece si intende una svolta vera, con tanto di autocritica sulle sciagurate scelte del passato, allora forse qualcosa potrebbe muoversi.

Ma una simile svolta è uno degli eventi più improbabili dell' universo, perché qualsiasi politico di sinistra sa perfettamente che, se appena accenna a usare il cervello (il proprio cervello intendo, non quello del partito), o se per caso gli scappa di dire quel che pensa, è pronto il plotone di esecuzione dei difensori dell' ortodossia buonista: vedi la pioggia di contumelie che i vari Saviano hanno riservato alla Serracchiani, che aveva espresso un concetto di puro senso comune morale, ossia che il male che fai a un tuo benefattore è particolarmente spregevole».
Perché la percezione è che a sinistra si sottovaluti il problema dell' integrazione?
«Perché non è una percezione, è la pura verità».

Mino Milani

Un patriota non si arrende. Intervista a Mino Milani

Non mi arrendo. In bella vista tra gli scaffali della libreria di Mino Milani, vitalissimo ottantanovenne, c’è il libro di Iroo Onoda, il penultimo soldato giapponese ad arrendersi, trent’anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Lo studio, in un palazzo d’inizio Novecento («casa Milani» dice una targa), davanti alla chiesa di san Pietro in Ciel d’Oro a Pavia, è il regno di questo scrittore poliedrico, autore di una settantina di libri per ragazzi, saggi storici, sceneggiature di fumetti, che ha lavorato con tutti i più grandi, da Mario Uggeri a Hugo Pratt, da Dino Battaglia a Sergio Toppi. «La casa l’ha fatta mio nonno, la regalò a mio padre e alla sua prima figlia quando si sposarono. Quella di mia madre era una famiglia importante, i Castelli. Qui sono nato e qui sono sempre rimasto».
Le stanze, soprattutto lo studio («dove di me si spende la miglior parte» scherza citando Leopardi) sono piene dei ricordi di una vita e di cimeli risorgimentali, di cui Milani è un cultore. «Sono un vecchio patriota. Mi ritengo di destra, ma di una destra liberale, alla Cavour per intenderci. Non certo fascista. D’altronde nessuno della mia famiglia lo era. Il cattolico vero non poteva esserlo. Mia madre, nata in campagna, era una cattolica liberale; mio padre, nato in città, era un cattolico bigotto. Io sono cristiano». Nel giardino c’è un tiglio enorme che fa ombra alla casa: il padre di Mino lo piantò il 10 giugno 1940, primo giorno di guerra.
«No, non mi arrendo. Sono come questo tiglio e come il mio cane Argo», ribadisce indicando il vecchio barboncino che sonnecchia ai piedi della poltrona su cui è seduto. Milani è stato il creatore, per «Il Corriere dei Piccoli», del ciclo di Tommy River, malinconico cowboy del Kentucky che combatte buone battaglie spesso concluse con sconfitte : «Nacque su commissione. Nel 1958 Giovanni Mosca, direttore del “Corriere dei Piccoli” mi telefonò e mi disse: mi deve fare dei racconti a puntate sul West. Ho pensato al nome. Doveva leggersi come si scriveva: Tommy River. Ha venduto moltissimo». Geniale raccontatore della «realtà romanzesca» (titolo di una sua seguitissima rubrica sulla «Domenica del Corriere»), grande appassionato di Giuseppe Garibaldi a cui ha dedicato una biografia tradotta anche in Cina («Ce ne sono due in Cina: quella di Alexandre Dumas padre e la mia»), Mino Milani continua a lavorare.
Lei ha praticato tutti i generi, dal western alla fantascienza. Ma la letteratura per ragazzi è stata la sua grande passione.
«Ho la presunzione di aver tentato una strada nuova. Quando io ero bambino c’erano i piedini, le manine, e, naturalmente, nei prati cresceva l’erbetta. Ho pensato: e se scriviamo che queste sono mani, che gli uomini sudano, puzzano, vanno al gabinetto, a volte sono cattivi, non è meglio? La scelta è stata vincente. Ho pubblicato il mio primo libro, Il cuore sulla mano, con un titolo orrendo e le illustrazioni di un grande disegnatore, Rino Albertarelli, celebre anche per un fumetto western, Kit Carson. Credo anche di essere stato il primo scrittore italiano a fare un romanzo di fantascienza con protagonista un giornalista del “Corriere della Sera”, La luna nascosta, dopo il volo di Gagarin».
E la letteratura per ragazzi di oggi le piace?
«Ha preso un andamento che non accetto. È diventata didascalica ed ecologista. I ragazzi bisogna divertirli, non dire: ti insegno io. Io amo il romanzo, l’avventura».
A 89 anni continua a scrivere.
«Sì, qualche mese fa mi hanno telefonato dalla Marina militare. Mi hanno chiesto un romanzo, con l’eroe, la ragazza, l’amplesso, il pericolo. L’ho finito 10 giorni fa. È un romanzo d’avventura sulla prima nave italiana che fece il giro del mondo, nel 1866-68. Tra poco uscirà anche un libro con i diari di mio padre. Aveva fatto la Prima guerra mondiale da sottotenente degli alpini, rovistando in casa ho trovato i suoi taccuini. A 22 anni scrive: ho la responsabilità della vita di questi ragazzi. Adesso non si può immaginare un ragazzo di 22 anni che ha la responsabilità della vita di 40 persone».
Com’è la sua giornata?
«Alle 7 sono operativo. Leggo il giornale, mi preparo. Verso le 8.30 inizio a scrivere e lavoro fino alle 11.45. Prima di pranzo bevo un bel Martini dry senza ghiaccio: è fondamentale. Mangio il necessario, prima ero una buona forchetta. Ma sono un grande risottista, ho inventato il risotto mediterraneo, con tutte le erbe. Vivo solo, perché ho portato sfortuna alle mogli. Sono rimasto vedovo due volte: la prima, Eugenia, era una povera ragazza morta di tisi, l’altra, Antonella, un medico, se n’è andata 8 anni fa. Non sono uomo da stare senza donna, e non parlo di sesso».
Che lettore è?
«Leggo di tutto. Conosco bene la poesia inglese contemporanea. Amo Eliot. Lo tradusse mio zio, Alberto Castelli, fratello di mia madre. Era un prete, insegnava Letteratura inglese alla Cattolica. Poi leggo molti saggi di storia, soprattutto militare».
Negli scaffali ci sono molti libri di letteratura marinaresca.
«Sì, ma è Conrad lo scrittore che amo. Ho letto Cuore di tenebra per caso, avevo 18 anni. L’avevo comperato nella collana Romantica Sonzogno. Una sera non riuscivo a dormire e l’ho letto fino all’alba. Sembra una frase fatta ma è un libro che mi ha segnato la vita insieme con Martin Eden di Jack London e La vita semplice di Ernst Wiechert».
«Martin Eden» finisce con il suicidio. Lei lo evoca nel suo libro, «Piccolo destino», parlando del 30 luglio 1986, quando si posò sul petto la bocca della sua calibro 38 e sparò «in direzione del cuore perché il colpo in testa o in bocca devasta e umilia troppo».
«Mi salvai per via dello xifoide, la parte inferiore dello sterno, troppo pronunciato, che bloccò il colpo. Pensare che mi dava fastidio quando giocavo a rugby. Rimasi in ospedale due mesi».
A proposito di quell’episodio e dei motivi che l’avevano causato, lei scrisse: «Credo che certe cose, realmente, non si sapranno mai». Adesso sa che cos’è successo quel giorno?
«Sì, adesso lo so. È tutto superato, sono passati trent’anni. Ero stufo di vivere, in senso che definirei essenziale. Non mi piaceva più, non mi trovavo più in questo mondo. E poi si erano aggiunte alcune banalissime circostanze della vita quotidiana».
Adesso che cosa le dà piacere?
«Scrivere, leggere, ascoltare buona musica, la mia casetta in collina. Andare a camminare in Val Badia a La Villa. Ho fatto qualche escursione anche con Lino Lacedelli: l’Oberau, le Cinque Torri. Rimpianti non ne ho. Ho avuto un’adolescenza molto bella anche se ha coinciso con la guerra, che ho vissuto senza averla combattuta. Al liceo facevamo lezione con paltò, guanti e cappello. In classe avevamo una stufa recuperata non so dove e ogni giorno ci eravamo quotati per portare un po’ di legna in aula. Eravamo fortunati».
La televisione la guarda?
«No, sento le notizie per radio. Però da trent’anni, ogni settimana, di solito il lunedì, con un caro amico guardiamo un vecchio film. In dvd o in cassetta. Recentemente abbiamo visto Sully di Clint Eastwood, Il ponte delle spie di Spielberg. Ma il più gettonato, che avremo visto dieci volte, è Scaramouche con quel bell’attore inglese, Stewart Granger, ed Eleonor Parker. Dei film abbiamo imparato alcune frasi a memoria. Come il dialogo tra John Wayne e il messicano in Sentieri selvaggi : “Salud” dice il messicano. “Y pesetas” risponde John Wayne. E l’altro: “Y tiempo para gustarlas”. “Siempre”».
La politica la segue?
«Ho vissuto un’epoca fortunata, dopo il 1945, in cui il governo italiano era fatto da veri uomini politici, che volevano il bene della nazione. Allora i partiti non erano un’agenzia di collocamento come adesso. Oggi sento parlare di populismo. Per me è una parola che non vuole dire nulla. Io sono contrario a questa Europa, che ha fatto il tetto, la moneta unica, prima di fare le fondamenta. Come si può immaginare che le monete di Spagna, Italia, Grecia abbiano lo stessa forza del marco? Eppure l’Europa era cominciata con buone intenzioni: doveva nascere dal basso. Bisognava partire dai libri di scuola, invece che dalla moneta. Esiste una storia europea: raccontiamola a tutti, magari noi italiani non saremmo stati soltanto pastasciutta e mafia. Se io sono populista, allora questa Europa per cui le banche non si toccano, è capitalista. Sa come ci prenderà l’islam?»
Come?
«Senza combattere, con la demografia. In Europa non facciamo più figli. Ma personalmente c’è una cosa che mi salva: la mia carta d’identità. La guardo, vedo che sono nato nel 1928 e mi dico: Mino, ma cosa te ne frega di quello che sarà l’Europa tra dieci anni? Sarò là tra gli angeli. Avevo un maestro di ginnastica che diceva: a me il paradiso non piace, dando per scontato che ci sarebbe andato. Lo vedeva così: stare seduto in un angolo, da solo, tutto il giorno a guardare il Signore».
Lei invece come se lo immagina?
«Come andare in montagna: tutto il giorno su e giù dalle Dolomiti».

mercoledì 17 maggio 2017

Peste e Prostitute

Agnès Giard per “Libération

Tutto comincia con la grande peste del 14° secolo, la peste nera che arriva dall’Asia e sconvolge l’Europa: 24 milioni di morti, un quarto della sua popolazione. A Firenze dal 1315, la peste non smette di fare vittime, impedendo la ripresa demografica. Muore una persona su tre. Bisogna ripopolare Firenze, il problema è che calano sia i matrimoni che la natalità.

Perché? Colpa dei sodomiti, secondo il clero. Colpa degli uomini che preferiscono andare con gli uomini. Le amicizie virili sono frequenti nella città dei Medici, al punto che in Germania il verbo “florenzen” si traduce “sodomizzare”. In Francia il rapporto anale è qualificato come vizio tutto italiano. Bisogna reagire.


Nell’aprile 1403 Firenze istituisce un Ufficio dell’Onestà una magistratura permanente con il compito esplicito di vegliare e controllare la moralità pubblica e distrarre la passione omosessuale, incoraggiando piuttosto i rapporti venali e favorendo la prostituzione femminile. Bisognava pertanto costruire o comprare un edificio da usare come bordello e reclutare prostitute straniere, dare loro una protezione che le incoraggiasse a restare.

E’ così che Firenze diventò patria delle puttane. Non fu un caso isolato. Nell’antologia “Vénus et Priape” di Charles Senard, appena pubblicata, si legge che tra il 1350 e il 1450 le case chiuse nascono ovunque tra Italia e Francia. Per tutelare la moralità pubblica, la prostituzione viene istituzionalizzata. Le città del Rinascimento fanno edificare un bordello municipale, spesso con i fondi pubblici, teoricamente riservato ai celibi.

Si aggiunsero bagni pubblici che sono l’equivalente di centri massaggi odierni. Alla fine del Medio Evo i giovani di città frequentavano liberamente prostitute, numerose e a buon mercato. La prostituzione era perfettamente integrata nella vita cittadina. La prostituta fu un personaggio-chiave dell’Italia rinascimentale, riconosciuta come tale, da lavoratrice occasionale specializzata in prestazioni sessuali diventò la professionista incaricata della salvaguardia della moralità pubblica.

La frequentazione delle prostitute non portava alcun disonore, soprattutto se erano erudite. Le cortigiane apparse nel 1450, belle, intelligenti e distinte, permettevano ai maschi dell’aristocrazia di distinguersi dal resto della popolazione. La prova sono i tanti poemi dedicati queste donne. Passare una notte con loro era un trionfo sociale. I poemi di questo periodo rivendicano il gusto del sesso in compagnia di ‘esperte’.

I poemi sono scritti in latino, lingua compresa da meno del 3% della popolazione e che autorizza le allusioni più esplicite, perché solo le persone più colte la parlano. Protetti dalla barriera linguistica, gli umanisti elogiano il mestiere delle cortigiane, parlano di gratitudine e d’amore.

Vedi i versi di Giovanni Pontano di Pacifico Massimi o di Antonio Beccadelli (1394-1471): «L’atto carnale non è che il punto di partenza di un sogno d’amore eterno». Il sogno spesso più desiderabile di tutti.

martedì 16 maggio 2017

L'Euro

Alberto Bagnai per www.ilsole24ore.com

L’euro è stato il più grande successo della scienza economica, ma sta diventando la più umiliante sconfitta per la professione economica. Ringrazio il Sole 24 Ore, che mi permette, con apprezzabile spirito di apertura, di esporre e discutere nel quadro di un dibattito autorevole un paradosso che ci riguarda tutti, economisti e non.

L’euro è stato un grande successo della scienza economica: non conosco alcun altro caso in cui essa sia stata in grado di prevedere con una precisione così sconcertante le conseguenze di una decisione politica. Vi fornisco tre esempi. Partiamo dall’ultimo Bollettino economico della Bce, il quale lamenta come la crescita dei salari nell’Eurozona sia molto tenue, il che suggerisce una probabile sottostima dei dati ufficiali sulla disoccupazione.

Siamo quindi nelle condizioni previste nel 1996 da Rudiger Dornbusch, quando avvertiva che l’unione monetaria avrebbe «trasferito al mercato del lavoro il compito di regolare la competitività», rendendo prevalenti condizioni di disoccupazione. È quanto chiamiamo «svalutazione interna», un meccanismo sul quale una unione monetaria deve contare, se vuole sopravvivere (lo mostrò Mundell nel 1961). In secondo luogo, in tutta Europa i partiti euroscettici progrediscono (nonostante le sconfitte), e mettono in causa il modello di integrazione politica europea.

È esattamente quanto Nicholas Kaldor aveva previsto nel 1971, quando ammoniva che «se la creazione di una unione monetaria e il controllo della Comunità sui bilanci nazionali esercitano una pressione tale da portare al crollo del sistema, avrà impedito una unione politica anziché favorirla». Infine, Macron non si era nemmeno insediato, che dalla Germania il rifiuto della proposta francese di Eurobond chiariva come la potenza egemone non intenda deflettere dalla propria intransigenza. Ottimo esempio di quanto Martin Feldstein diceva nel 1997: «l’aspirazione francese all’uguaglianza e l’aspettativa tedesca di egemonia non sono coerenti».


Tutto sta andando come i migliori di noi avevano previsto, e quindi il dibattito sull’euro di un economista intellettualmente onesto starebbe in quattro parole: «ve lo avevamo detto!». Sarebbe, certo, un atteggiamento sterile, ma sempre migliore di quello al quale assistiamo dal 2008 in poi. Invece di delineare vie di uscita da una trappola che aveva descritto così bene, la professione economica si sta screditando, difendendo con argomenti dubbi lo stesso progetto del quale aveva previsto il fallimento (circa la qualità degli argomenti sottoscrivo quanto scritto da Perotti su lavoce.info del 12 maggio scorso).

Questo progetto è incoerente, per un motivo molto semplice, illustrato da Alberto Alesina nel 1997 (quando criticava l’unione monetaria): un mercato comune ha senso solo in quanto sostenga la crescita se dal resto del mondo arrivano shock come la crisi americana del 2008. Purtroppo, siccome in una unione monetaria l’aggiustamento macroeconomico necessariamente passa per la svalutazione interna (taglio dei salari), la moneta unica vanifica i benefici del mercato unico: perché tagliando i salari si reprime la domanda interna proprio quando se ne avrebbe bisogno per sostituire quella estera provvisoriamente insufficiente.
  
Naturalmente è difficile difendere un progetto incoerente restando coerenti coi dati, con la teoria, o anche semplicemente con se stessi. L’euro sta quindi diventando la più cocente sconfitta della professione economica, che propugnando argomenti incoerenti si pone in una luce dubbia agli occhi dell’opinione pubblica. Prendo anche qui tre esempi, tratti da questo dibattito.

L’idea di Paul De Grauwe che Grecia e Spagna abbiano «avviato un processo di svalutazione interna con risultati positivi» è un po’ incoerente coi dati: la disoccupazione nel 2016 è stata al 23.7% in Grecia e al 19.6% in Spagna. Non ci vuole una gran virtù a far scendere i salari quando una persona su cinque è a spasso. Alla luce dei dati, più che un successo di questi paesi l’analisi di De Grauwe evidenzia una perdita di contatto con la realtà quotidiana, che certo non contribuirà a far amare la nostra professione.

L'idea di John Cochrane che la moneta sia irrilevante per la crescita (gli economisti parlano di “neutralità” della moneta) cozza non solo con importanti risultati scientifici, come l’analisi svolta da Dani Rodrik sul ruolo di un tasso di cambio eccessivamente forte nel frenare la crescita di un paese, ma anche con quello che ormai le stesse istituzioni europee ammettono a denti stretti: le riforme stanno causando deflazione, senza riuscire a promuovere l’occupazione in modo decisivo (nota 23 del citato Bollettino economico della Bce).

Anche su questo i migliori economisti si erano espressi: le conseguenze negative delle riforme strutturali sulla produttività del lavoro erano state illustrate da Robert Gordon già nel 2008. Per Cochrane la moneta è come l’olio nel motore di una macchina. La metafora è (involontariamente) corretta. Una pessima gestione dell’olio ha conseguenze di lungo periodo come una pessima gestione della moneta: nel primo caso si brucia la testata, e la macchina si ferma; nel secondo un continente (e l’economia mondiale si ferma).

Se De Grauwe è incoerente coi dati, e Cochrane con le teorie, Feldstein è incoerente con se stesso. La sua idea che i rapporti di debito e credito non sarebbero ridenominabili in nuove unità di conto (cioè che gli italiani, pagati in nuove lire, continuerebbero a pagare in euro i loro mutui), è incoerente con quanto lo stesso Feldstein riconosceva nel 2012, quando, parlando della Grecia su Foreign Affairs, ammetteva che solo i contratti retti da diritto estero non sono ridenominabili (ma i mutui contratti in Italia con banche italiane sono retti dal diritto italiano).

Tutte queste incoerenze sono a senso unico: vanno ad alimentare un project fear insensato, anche perché non credibile in termini comunicativi, dopo i precedenti disastri annunciati (e non pervenuti) in caso di Brexit, di elezione di Trump, di vittoria del “no” al referendum. Spiace vedere proprio Barry Eichengreen, uno dei più brillanti studiosi della fine del gold standard, dire che «la storia non ha la retromarcia».

Questa idea “rettilinea” di progresso farebbe sorridere un qualsiasi studente dei nostri licei, ma, soprattutto, ancora una volta, mette in pessima luce la nostra professione. Il nostro compito, come intellettuali e come economisti, è prospettare e studiare alternative, non chiuderle, trincerandoci dietro al mantra there is no alternative. Se non saremo all’altezza di questa sfida, la società civile ci considererà irrilevanti, e dovremo ammettere di essercelo meritato.

martedì 9 maggio 2017

I Poveri

Milagros Pérez Oliva per “El Paìs

La docente spagnola di filosofia Adela Cortina pubblica il libro “Aporofobia: el rechazo al povre” (aporofobia, il rifiuto del povero) per partecipare al dibattito pubblico e dare un nome a ciò che non si vede. Secondo lei, dietro l’ondata di xenofobia che invade Europa e Stati Uniti, c’è un sentimento di avversione chiamato appunto “aporofobia”: «Quello che dà fastidio degli immigrati e dei rifugiati non è il fatto che siano stranieri, ma che siano poveri».

Tutte le fobie sono patologie sociali che si esprimono in forma di odio verso il diverso, ma questo in particolare è un sentimento molto radicato e manipolato per fini elettorali, trasformatosi in un problema politico: «Si nota chiaramente che non tutti gli stranieri danno noia allo stesso modo. Per quanto diversi da noi, a quelli che arrivano con i petroldollari stendiamo un tappeto rosso, così come ai turisti. Lo stesso Trump vuole costruire un muro con i messicani, non certo con i canadesi».

Da questa approssimazione iniziale è partita la ricerca per il suo libro: «Se i poveri sono per di più stranieri, è facile presentarli come una minaccia per la nostra identità. Ma la avversione è verso tutti i poveri, inclusi quella della nostra famiglia. Il rifiuto del povero implica sempre una attitudine di superiorità e una colpevolizzazione della vittima. Siamo tutti aporofobici, inizialmente lo erano i gruppi tribali per difendere la specie. Oggi lo siamo perché si rompe la regola di coesione interna basata sul rapporto di dare-avere. I poveri non possono dare, da loro non ci aspettiamo nulla.

E’ per questo che i discorsi politici che si appellano a questo tipo di emozioni vengono accolti così bene. Quello che sorprende è che la xenofobia sia cresciuta così repentinamente in una Europa che trovava la sua migliore espressione in una politica pubblica basata sul principio di solidarietà. Il cervello è plastico e possiamo modificarlo, è una buona notizia, ma il discorso pubblico attualmente favorisce la aporofobia e l’ideologia dominante neoliberista, secondo cui il povero è l’unico responsabile della sua povertà».

L’antidoto che la Cortina suggerisce è rafforzare lo stato sociale: «Garantire diritti economici e sociali è il fondamento della socialdemocrazia e cancella le disuguaglianze. L’altro antidoto è l’educazione. Ciò che si studia sui libri, inclusi i valori della solidarietà e del rispetto del diverso, assunti dalla Unione Europea, deve però essere applicato. C’è troppa contraddizione fra ciò che i giovani leggono e il modello di società in cui vivono.

La gente è delusa, non prospera come immaginava, e quindi identifica un capro espiatorio: il messicano in America, il rifugiato in Europa. La società è veloce a dimenticare traumi ed esperienze del passato. Gli americani hanno dimenticato di essere stati immigrati. La nostra capacità di adattamento è tremenda, mettiamo tra parentesi tutto ciò che può esserci da ostacolo».

IL PANE

  Maurizio Di Fazio per il  “Fatto quotidiano”   STORIA DEL PANE. UN VIAGGIO DALL’ODISSEA ALLE GUERRE DEL XXI SECOLO Da Omero che ci eternò ...