lunedì 29 maggio 2017

Calvino

di Paolo Mieli
Colpisce nella vita di Giovanni Calvino l’assoluta precarietà esistenziale. Emanuele Fiume, nella straordinaria biografia, Calvino. Il Riformatore profugo (di imminente pubblicazione per i tipi della Salerno), mette in grande evidenza questa sua caratteristica. Martin Lutero e Huldrich Zwingli, fa osservare Fiume, passarono entrambi gran parte della loro vita «a non più di qualche decina di chilometri dai rispettivi villaggi natii». Calvino, invece, fu l’unico tra i grandi della Riforma ad aver vissuto per la maggior parte della sua esistenza — «e per la quasi totalità della sua vita attiva», sottolinea Fiume — da esule. Ginevra non fu la sua patria e, fino a pochi anni dalla sua morte, Calvino vi dimorò come straniero immigrato, «con il permesso di soggiorno che gli veniva rinnovato di sei mesi in sei mesi». Forse fu per questo, prosegue lo storico, che fornì «una motivazione spirituale e vocazionale» a un gran numero di «profughi per ragione di fede»; così come fu l’unico che vide nella formazione di questo genere di profughi uno «strumento di diffusione della Riforma a livello continentale» e di tessitura di una «rete di contatti teologici e politici che risulterà fondamentale per gli sviluppi internazionali del protestantesimo».

Fiume si interroga sulla demonizzazione di cui Calvino è stato fatto oggetto per secoli («eresiarca per i cattolici, intollerante per gli illuministi, inventore del capitalismo per i marxisti»). Ad integrazione delle opere di tre studiosi italiani novecenteschi — Renato Freschi, Giovanni Calvino (Corticelli); Adolfo Omodeo, Giovanni Calvino e la Riforma in Ginevra, opera curata postuma da Benedetto Croce (Laterza); Giorgio Tourn, Giovanni Calvino. Il riformatore di Ginevra (Claudiana») — offre un saggio dal quale, per sua stessa dichiarazione, non emanano «né olezzo di incenso, né puzza di zolfo».
Calvino, Jehan Cauvin venne alla luce, secondogenito di un notaio, il 10 luglio 1509, a Noyon in Piccardia. La sua prima biografia «autorizzata», scritta dall’allievo e amico Teodoro di Beza, racconta con qualche vaghezza — come già mise in evidenza Jean Cadier in Calvino (Claudiana) — che fu a Parigi all’età di dodici anni. Alister McGrath, in Giovanni Calvino. Il Riformatore e la sua influenza sulla cultura occidentale (Claudiana), ha approfondito la questione del «beneficio ecclesiastico» che gli fu assegnato in quegli anni giovanili senza però dare eccessivo rilievo alla borsa di studio offertagli dalla Chiesa. 
Il futuro riformatore fu poi al Collège de Montaigu dove aveva studiato trent’anni prima Erasmo da Rotterdam e che, dopo di lui, avrebbe avuto tra i suoi allievi Ignazio di Loyola. A proposito di Erasmo va ricordato che — come ha messo in risalto McGrath — il primo libro del ventitreenne Calvino (un commento al De clementia di Seneca pubblicato, a spese dell’autore, nel 1532) fu un’aperta sfida all’edizione critica erasmiana dello stesso testo, data alle stampe appena quindici anni prima. Una sfida che lo stesso Fiume considera «quantomeno eccessiva». Questo libro di Calvino, polemico nei confronti di Erasmo da Rotterdam, fu un fiasco, «l’unico fiasco editoriale» di colui che fu «uno degli autori più letti nel corso del XVI secolo». 
Tema centrale del saggio di Fiume è la ricostruzione di come la Francia (e così gran parte dell’Europa occidentale) fu percorsa da «fremiti di Riforma religiosa» ben prima dell’entrata in scena di Lutero. Calvino entrò in contatto con simpatizzanti della Riforma (tra i quali suo cugino Pierre Robert, detto Olivetano) da giovanissimo, in un periodo che trascorse tra Orléans e Bourges. L’incontro più importante con un riformatore fu senza dubbio quello con il rettore della Sorbona Nicola Cop, alla cui prolusione dell’anno accademico 1533, Calvino diede un apporto notevole (probabilmente ne fu il ghost writer). Quel discorso, che sostanzialmente sposava le tesi di Lutero, causò un’aspra reazione del re di Francia Francesco I. Reazione che costrinse Cop e Calvino a fuggire da Parigi e, sulla loro scia, portò all’incriminazione di una cinquantina di persone.
La tensione con l’autorità francese era destinata a crescere: l’anno successivo (1534), nella notte tra il 17 e il 18 ottobre, a Parigi, Tours, Blois, Rouen e Orléans furono affissi dei placard (manifesti) contro «i grandi, insopportabili e orribili abusi della messa papale». A riprova di quanto fosse articolata e tentacolare la rete cospirativa, due copie di quel manifesto che stroncava la messa tradizionale furono ritrovate nell’anticamera della stanza da letto del re nel castello di Amboise. Una era appesa alla porta d’ingresso alla stanza, l’altra, piegata, nel vaso in cui il sovrano riponeva il suo fazzoletto. Francesco I, grande protettore della Chiesa di Roma, capì al volo la gravità dell’avvertimento e per ritorsione mandò al rogo un discreto numero di evangelici, primo tra tutti Barthélemy Milon. Fiume mette in risalto come Calvino prese subito la distanze da quei ribelli e tenne a esibire, nei loro confronti, un «profondo disprezzo». Per lui il rispetto dell’autorità restava fondamentale.
Quando, nel corso delle sue peregrinazioni, Calvino giunse a Ginevra, si imbatté nell’autorità di Guillaume Farel che aveva vent’anni più di lui ed era stato collaboratore, a Meaux, del vescovo riformatore Guillaume Briçonnet. Dal 1530 Ginevra era governata da un Consiglio cittadino. Nel 1534 arrivò il domenicano Guy Furby che accusò Farel di essere «un pupazzo» in mano ai nemici della Chiesa cattolica, in particolare quelli di Berna, città che aveva aderito alla Riforma. Il risultato dell’azione di Furby fu tuttavia opposto a quello sperato: Ginevra si schierò sempre più dalla parte di Berna. Nell’estate del 1535, dopo una predica di Farel, la città si rivoltò contro la Chiesa di Roma e un’importante reliquia, un presunto frammento del cervello di San Pietro, venne gettata nel Rodano. A quel punto il clero lasciò in tutta fretta la città e il Consiglio incamerò i beni ecclesiastici.
È la rottura. Ha inizio una lunga stagione repubblicana in cui Ginevra sarà alleata della Confederazione svizzera nella quale, però, entrerà solo nel 1815. Nel settembre del 1536 Calvino inizia il suo ministero nei panni di «lettore della Scrittura». Ma dai documenti trovati da Fiume emerge che anche lui è mal tollerato dalla città: lo pagano in ritardo, malvolentieri e lo definiscono «ille gallus», quel francese. Lui reagisce con arroganza. Un difetto che viene alla luce in occasione di una sua polemica con il riformatore alsaziano Martin Bucer, che lo tratta invece con dolcezza. Farel, il pastore cieco Jean Corauld ma soprattutto Calvino si battono da quel momento per una presa di distanze di Ginevra da Berna e per una ricucitura del rapporto con la Francia. Calvino sostiene pubblicamente che il Consiglio della città è ispirato dal diavolo. Corauld definisce i membri del Consiglio «ubriaconi» e viene arrestato. Calvino e Farel sono costretti a emigrare. Strana e per certi versi misteriosa congiura. 
Dopo qualche peregrinazione, nel 1538 Calvino arriva a Strasburgo che ha come riferimento spirituale il testé citato Bucer, che lo accoglie con sé senza dar peso alle polemiche di cui s’è detto. Bucer già nel 1521 s’è avvicinato a Lutero, ha sposato una suora e nel 1523 è stato scomunicato. È una figura importante dell’Europa riformatrice: Enrico VIII lo consulta al momento del divorzio con Caterina d’Aragona. Calvino lo aiuta nella costruzione del progetto di convivenza delle diverse anime del protestantesimo: nel rispetto dei grandi teologi del Medioevo e nel riferimento costante alla figura di Paolo di Tarso. Su spinta dell’imperatore Carlo V tra il 1540 e il 1541 si svolgono colloqui tra protestanti e cattolici per una pacificazione che restituisca serenità alla Chiesa. Papa Paolo III e Martin Lutero però sono diffidenti, Calvino se ne tiene ai margini e l’insuccesso dell’iniziativa brucia Bucer. 
È in questo periodo, 1540, che Calvino decide di prender moglie (una vedova), perché, scrive Fiume, «anche ragioni di immagine richiedevano che i ministri riformati fossero sposati». Ma il rapporto con la sposa — nove anni — fu sostanzialmente casto. L’annotazione alla «castità» del matrimonio di Calvino da parte di Teodoro di Beza ha provocato allusioni, anche in tempi recenti, a una sua possibile omosessualità. In proposito si è fatta menzione di un suo ruolo di imputato a un processo per sodomia in Francia. Ma si tratta di un caso di omonimia. Per giunta imperfetta. E comunque Calvino ai tempi di quel caso giudiziario non poteva essere in Francia. Inoltre, scrive Fiume, «se è vero che il temperamento dello schivo teologo non ci sembra caratterizzato da incontenibili istinti sessuali come poteva esserlo quello di Enrico VIII o Filippo d’Assia, è altrettanto vero che nella sua predicazione i rapporti sessuali tra coniugi costituiscono una parte fondamentale del matrimonio». Nel 1541, nonostante la città di Strasburgo da due anni gli avesse concesso la cittadinanza, decide di tornare a Ginevra dove la cittadinanza l’avrebbe ottenuta solo diciotto anni dopo. Sente che Ginevra è e ancor più sarà la città della sua rivoluzione...
Nel 1545 Ginevra è sconvolta da un’epidemia di peste e Calvino — che è uno strenuo fautore della persecuzione degli «untori» nonché della caccia alle streghe — ne approfitta per sostituire numerosi pastori deceduti a causa del morbo con altri a lui fedeli. Nasce in quel clima, peraltro di progressivo distacco dal luteranesimo, l’homo calvinisticus di cui ha parlato lo storico francese Emile-Guillaume Léonard nella sua monumentale Storia del protestantesimo (il Saggiatore). Unico passo falso la condanna al rogo del teologo antitrinitario spagnolo Michele Serveto (1553) che sarebbe costata a Calvino un marchio d’infamia. Ma Fiume lo assolve, almeno in parte. Perché? Calvino avrebbe potuto denunciare Serveto dal 1547 e non lo fa. Non ci è pervenuto nessun dato storiografico che attesti il compiacimento di Calvino per quell’uccisione. Serveto, poi, non fu condannato da un tribunale ecclesiastico, bensì da uno civile. Per di più, nella Ginevra della Riforma, fu l’unico mandato a morte. Ragion per cui, anche se fosse provato un coinvolgimento di Calvino nella decisione di mandare Serveto al rogo, la sua responsabilità, secondo l’autore, non sarebbe così schiacciante come l’hanno giudicata i critici della Riforma ginevrina. 
Ma la rivoluzione di Calvino fu molto importante. L’abolizione delle festività cattoliche, mette in evidenza Fiume, offrì la disponibilità di un mese e mezzo di giorni lavorativi in più che «costituì un investimento di peso per l’economia familiare e sociale». Le sue «leggi contro il lusso» andrebbero ristudiate ancora oggi dal momento che seppero coniugare moderna efficienza e guerra alle sperequazioni sociali.
Nel libro L’ordine del tempo (Claudiana) lo storico svizzero Max Engammare dimostra come persino la puntualità sia un’invenzione del XVI secolo venuta fuori dalla Ginevra riformata dove iniziarono a diffondersi gli orologi pubblici e «il calvinismo reimpostò il rapporto tra la spiritualità e lo scorrere (o l’incalzare) del tempo». Calvino parlò di «uso responsabile» del tempo e impose la clessidra sui pulpiti per verificare la durata dei sermoni. Riformatore? In realtà Calvino fu un rivoluzionario sotto molti aspetti più importante dello stesso Lutero.

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