Un patriota non si arrende. Intervista a Mino Milani
Non mi arrendo. In bella vista tra gli scaffali della libreria di Mino Milani, vitalissimo ottantanovenne, c’è il libro di Iroo Onoda, il penultimo soldato giapponese ad arrendersi, trent’anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Lo studio, in un palazzo d’inizio Novecento («casa Milani» dice una targa), davanti alla chiesa di san Pietro in Ciel d’Oro a Pavia, è il regno di questo scrittore poliedrico, autore di una settantina di libri per ragazzi, saggi storici, sceneggiature di fumetti, che ha lavorato con tutti i più grandi, da Mario Uggeri a Hugo Pratt, da Dino Battaglia a Sergio Toppi. «La casa l’ha fatta mio nonno, la regalò a mio padre e alla sua prima figlia quando si sposarono. Quella di mia madre era una famiglia importante, i Castelli. Qui sono nato e qui sono sempre rimasto».
Le stanze, soprattutto lo studio («dove di me si spende la miglior parte» scherza citando Leopardi) sono piene dei ricordi di una vita e di cimeli risorgimentali, di cui Milani è un cultore. «Sono un vecchio patriota. Mi ritengo di destra, ma di una destra liberale, alla Cavour per intenderci. Non certo fascista. D’altronde nessuno della mia famiglia lo era. Il cattolico vero non poteva esserlo. Mia madre, nata in campagna, era una cattolica liberale; mio padre, nato in città, era un cattolico bigotto. Io sono cristiano». Nel giardino c’è un tiglio enorme che fa ombra alla casa: il padre di Mino lo piantò il 10 giugno 1940, primo giorno di guerra.
«No, non mi arrendo. Sono come questo tiglio e come il mio cane Argo», ribadisce indicando il vecchio barboncino che sonnecchia ai piedi della poltrona su cui è seduto. Milani è stato il creatore, per «Il Corriere dei Piccoli», del ciclo di Tommy River, malinconico cowboy del Kentucky che combatte buone battaglie spesso concluse con sconfitte : «Nacque su commissione. Nel 1958 Giovanni Mosca, direttore del “Corriere dei Piccoli” mi telefonò e mi disse: mi deve fare dei racconti a puntate sul West. Ho pensato al nome. Doveva leggersi come si scriveva: Tommy River. Ha venduto moltissimo». Geniale raccontatore della «realtà romanzesca» (titolo di una sua seguitissima rubrica sulla «Domenica del Corriere»), grande appassionato di Giuseppe Garibaldi a cui ha dedicato una biografia tradotta anche in Cina («Ce ne sono due in Cina: quella di Alexandre Dumas padre e la mia»), Mino Milani continua a lavorare.
Lei ha praticato tutti i generi, dal western alla fantascienza. Ma la letteratura per ragazzi è stata la sua grande passione.
«Ho la presunzione di aver tentato una strada nuova. Quando io ero bambino c’erano i piedini, le manine, e, naturalmente, nei prati cresceva l’erbetta. Ho pensato: e se scriviamo che queste sono mani, che gli uomini sudano, puzzano, vanno al gabinetto, a volte sono cattivi, non è meglio? La scelta è stata vincente. Ho pubblicato il mio primo libro, Il cuore sulla mano, con un titolo orrendo e le illustrazioni di un grande disegnatore, Rino Albertarelli, celebre anche per un fumetto western, Kit Carson. Credo anche di essere stato il primo scrittore italiano a fare un romanzo di fantascienza con protagonista un giornalista del “Corriere della Sera”, La luna nascosta, dopo il volo di Gagarin».
E la letteratura per ragazzi di oggi le piace?
«Ha preso un andamento che non accetto. È diventata didascalica ed ecologista. I ragazzi bisogna divertirli, non dire: ti insegno io. Io amo il romanzo, l’avventura».
A 89 anni continua a scrivere.
«Sì, qualche mese fa mi hanno telefonato dalla Marina militare. Mi hanno chiesto un romanzo, con l’eroe, la ragazza, l’amplesso, il pericolo. L’ho finito 10 giorni fa. È un romanzo d’avventura sulla prima nave italiana che fece il giro del mondo, nel 1866-68. Tra poco uscirà anche un libro con i diari di mio padre. Aveva fatto la Prima guerra mondiale da sottotenente degli alpini, rovistando in casa ho trovato i suoi taccuini. A 22 anni scrive: ho la responsabilità della vita di questi ragazzi. Adesso non si può immaginare un ragazzo di 22 anni che ha la responsabilità della vita di 40 persone».
Com’è la sua giornata?
«Alle 7 sono operativo. Leggo il giornale, mi preparo. Verso le 8.30 inizio a scrivere e lavoro fino alle 11.45. Prima di pranzo bevo un bel Martini dry senza ghiaccio: è fondamentale. Mangio il necessario, prima ero una buona forchetta. Ma sono un grande risottista, ho inventato il risotto mediterraneo, con tutte le erbe. Vivo solo, perché ho portato sfortuna alle mogli. Sono rimasto vedovo due volte: la prima, Eugenia, era una povera ragazza morta di tisi, l’altra, Antonella, un medico, se n’è andata 8 anni fa. Non sono uomo da stare senza donna, e non parlo di sesso».
Che lettore è?
«Leggo di tutto. Conosco bene la poesia inglese contemporanea. Amo Eliot. Lo tradusse mio zio, Alberto Castelli, fratello di mia madre. Era un prete, insegnava Letteratura inglese alla Cattolica. Poi leggo molti saggi di storia, soprattutto militare».
Negli scaffali ci sono molti libri di letteratura marinaresca.
«Sì, ma è Conrad lo scrittore che amo. Ho letto Cuore di tenebra per caso, avevo 18 anni. L’avevo comperato nella collana Romantica Sonzogno. Una sera non riuscivo a dormire e l’ho letto fino all’alba. Sembra una frase fatta ma è un libro che mi ha segnato la vita insieme con Martin Eden di Jack London e La vita semplice di Ernst Wiechert».
«Martin Eden» finisce con il suicidio. Lei lo evoca nel suo libro, «Piccolo destino», parlando del 30 luglio 1986, quando si posò sul petto la bocca della sua calibro 38 e sparò «in direzione del cuore perché il colpo in testa o in bocca devasta e umilia troppo».
«Mi salvai per via dello xifoide, la parte inferiore dello sterno, troppo pronunciato, che bloccò il colpo. Pensare che mi dava fastidio quando giocavo a rugby. Rimasi in ospedale due mesi».
A proposito di quell’episodio e dei motivi che l’avevano causato, lei scrisse: «Credo che certe cose, realmente, non si sapranno mai». Adesso sa che cos’è successo quel giorno?
«Sì, adesso lo so. È tutto superato, sono passati trent’anni. Ero stufo di vivere, in senso che definirei essenziale. Non mi piaceva più, non mi trovavo più in questo mondo. E poi si erano aggiunte alcune banalissime circostanze della vita quotidiana».
Adesso che cosa le dà piacere?
«Scrivere, leggere, ascoltare buona musica, la mia casetta in collina. Andare a camminare in Val Badia a La Villa. Ho fatto qualche escursione anche con Lino Lacedelli: l’Oberau, le Cinque Torri. Rimpianti non ne ho. Ho avuto un’adolescenza molto bella anche se ha coinciso con la guerra, che ho vissuto senza averla combattuta. Al liceo facevamo lezione con paltò, guanti e cappello. In classe avevamo una stufa recuperata non so dove e ogni giorno ci eravamo quotati per portare un po’ di legna in aula. Eravamo fortunati».
La televisione la guarda?
«No, sento le notizie per radio. Però da trent’anni, ogni settimana, di solito il lunedì, con un caro amico guardiamo un vecchio film. In dvd o in cassetta. Recentemente abbiamo visto Sully di Clint Eastwood, Il ponte delle spie di Spielberg. Ma il più gettonato, che avremo visto dieci volte, è Scaramouche con quel bell’attore inglese, Stewart Granger, ed Eleonor Parker. Dei film abbiamo imparato alcune frasi a memoria. Come il dialogo tra John Wayne e il messicano in Sentieri selvaggi : “Salud” dice il messicano. “Y pesetas” risponde John Wayne. E l’altro: “Y tiempo para gustarlas”. “Siempre”».
La politica la segue?
«Ho vissuto un’epoca fortunata, dopo il 1945, in cui il governo italiano era fatto da veri uomini politici, che volevano il bene della nazione. Allora i partiti non erano un’agenzia di collocamento come adesso. Oggi sento parlare di populismo. Per me è una parola che non vuole dire nulla. Io sono contrario a questa Europa, che ha fatto il tetto, la moneta unica, prima di fare le fondamenta. Come si può immaginare che le monete di Spagna, Italia, Grecia abbiano lo stessa forza del marco? Eppure l’Europa era cominciata con buone intenzioni: doveva nascere dal basso. Bisognava partire dai libri di scuola, invece che dalla moneta. Esiste una storia europea: raccontiamola a tutti, magari noi italiani non saremmo stati soltanto pastasciutta e mafia. Se io sono populista, allora questa Europa per cui le banche non si toccano, è capitalista. Sa come ci prenderà l’islam?»
Come?
«Senza combattere, con la demografia. In Europa non facciamo più figli. Ma personalmente c’è una cosa che mi salva: la mia carta d’identità. La guardo, vedo che sono nato nel 1928 e mi dico: Mino, ma cosa te ne frega di quello che sarà l’Europa tra dieci anni? Sarò là tra gli angeli. Avevo un maestro di ginnastica che diceva: a me il paradiso non piace, dando per scontato che ci sarebbe andato. Lo vedeva così: stare seduto in un angolo, da solo, tutto il giorno a guardare il Signore».
Lei invece come se lo immagina?
«Come andare in montagna: tutto il giorno su e giù dalle Dolomiti».
Le stanze, soprattutto lo studio («dove di me si spende la miglior parte» scherza citando Leopardi) sono piene dei ricordi di una vita e di cimeli risorgimentali, di cui Milani è un cultore. «Sono un vecchio patriota. Mi ritengo di destra, ma di una destra liberale, alla Cavour per intenderci. Non certo fascista. D’altronde nessuno della mia famiglia lo era. Il cattolico vero non poteva esserlo. Mia madre, nata in campagna, era una cattolica liberale; mio padre, nato in città, era un cattolico bigotto. Io sono cristiano». Nel giardino c’è un tiglio enorme che fa ombra alla casa: il padre di Mino lo piantò il 10 giugno 1940, primo giorno di guerra.
«No, non mi arrendo. Sono come questo tiglio e come il mio cane Argo», ribadisce indicando il vecchio barboncino che sonnecchia ai piedi della poltrona su cui è seduto. Milani è stato il creatore, per «Il Corriere dei Piccoli», del ciclo di Tommy River, malinconico cowboy del Kentucky che combatte buone battaglie spesso concluse con sconfitte : «Nacque su commissione. Nel 1958 Giovanni Mosca, direttore del “Corriere dei Piccoli” mi telefonò e mi disse: mi deve fare dei racconti a puntate sul West. Ho pensato al nome. Doveva leggersi come si scriveva: Tommy River. Ha venduto moltissimo». Geniale raccontatore della «realtà romanzesca» (titolo di una sua seguitissima rubrica sulla «Domenica del Corriere»), grande appassionato di Giuseppe Garibaldi a cui ha dedicato una biografia tradotta anche in Cina («Ce ne sono due in Cina: quella di Alexandre Dumas padre e la mia»), Mino Milani continua a lavorare.
Lei ha praticato tutti i generi, dal western alla fantascienza. Ma la letteratura per ragazzi è stata la sua grande passione.
«Ho la presunzione di aver tentato una strada nuova. Quando io ero bambino c’erano i piedini, le manine, e, naturalmente, nei prati cresceva l’erbetta. Ho pensato: e se scriviamo che queste sono mani, che gli uomini sudano, puzzano, vanno al gabinetto, a volte sono cattivi, non è meglio? La scelta è stata vincente. Ho pubblicato il mio primo libro, Il cuore sulla mano, con un titolo orrendo e le illustrazioni di un grande disegnatore, Rino Albertarelli, celebre anche per un fumetto western, Kit Carson. Credo anche di essere stato il primo scrittore italiano a fare un romanzo di fantascienza con protagonista un giornalista del “Corriere della Sera”, La luna nascosta, dopo il volo di Gagarin».
E la letteratura per ragazzi di oggi le piace?
«Ha preso un andamento che non accetto. È diventata didascalica ed ecologista. I ragazzi bisogna divertirli, non dire: ti insegno io. Io amo il romanzo, l’avventura».
A 89 anni continua a scrivere.
«Sì, qualche mese fa mi hanno telefonato dalla Marina militare. Mi hanno chiesto un romanzo, con l’eroe, la ragazza, l’amplesso, il pericolo. L’ho finito 10 giorni fa. È un romanzo d’avventura sulla prima nave italiana che fece il giro del mondo, nel 1866-68. Tra poco uscirà anche un libro con i diari di mio padre. Aveva fatto la Prima guerra mondiale da sottotenente degli alpini, rovistando in casa ho trovato i suoi taccuini. A 22 anni scrive: ho la responsabilità della vita di questi ragazzi. Adesso non si può immaginare un ragazzo di 22 anni che ha la responsabilità della vita di 40 persone».
Com’è la sua giornata?
«Alle 7 sono operativo. Leggo il giornale, mi preparo. Verso le 8.30 inizio a scrivere e lavoro fino alle 11.45. Prima di pranzo bevo un bel Martini dry senza ghiaccio: è fondamentale. Mangio il necessario, prima ero una buona forchetta. Ma sono un grande risottista, ho inventato il risotto mediterraneo, con tutte le erbe. Vivo solo, perché ho portato sfortuna alle mogli. Sono rimasto vedovo due volte: la prima, Eugenia, era una povera ragazza morta di tisi, l’altra, Antonella, un medico, se n’è andata 8 anni fa. Non sono uomo da stare senza donna, e non parlo di sesso».
Che lettore è?
«Leggo di tutto. Conosco bene la poesia inglese contemporanea. Amo Eliot. Lo tradusse mio zio, Alberto Castelli, fratello di mia madre. Era un prete, insegnava Letteratura inglese alla Cattolica. Poi leggo molti saggi di storia, soprattutto militare».
Negli scaffali ci sono molti libri di letteratura marinaresca.
«Sì, ma è Conrad lo scrittore che amo. Ho letto Cuore di tenebra per caso, avevo 18 anni. L’avevo comperato nella collana Romantica Sonzogno. Una sera non riuscivo a dormire e l’ho letto fino all’alba. Sembra una frase fatta ma è un libro che mi ha segnato la vita insieme con Martin Eden di Jack London e La vita semplice di Ernst Wiechert».
«Martin Eden» finisce con il suicidio. Lei lo evoca nel suo libro, «Piccolo destino», parlando del 30 luglio 1986, quando si posò sul petto la bocca della sua calibro 38 e sparò «in direzione del cuore perché il colpo in testa o in bocca devasta e umilia troppo».
«Mi salvai per via dello xifoide, la parte inferiore dello sterno, troppo pronunciato, che bloccò il colpo. Pensare che mi dava fastidio quando giocavo a rugby. Rimasi in ospedale due mesi».
A proposito di quell’episodio e dei motivi che l’avevano causato, lei scrisse: «Credo che certe cose, realmente, non si sapranno mai». Adesso sa che cos’è successo quel giorno?
«Sì, adesso lo so. È tutto superato, sono passati trent’anni. Ero stufo di vivere, in senso che definirei essenziale. Non mi piaceva più, non mi trovavo più in questo mondo. E poi si erano aggiunte alcune banalissime circostanze della vita quotidiana».
Adesso che cosa le dà piacere?
«Scrivere, leggere, ascoltare buona musica, la mia casetta in collina. Andare a camminare in Val Badia a La Villa. Ho fatto qualche escursione anche con Lino Lacedelli: l’Oberau, le Cinque Torri. Rimpianti non ne ho. Ho avuto un’adolescenza molto bella anche se ha coinciso con la guerra, che ho vissuto senza averla combattuta. Al liceo facevamo lezione con paltò, guanti e cappello. In classe avevamo una stufa recuperata non so dove e ogni giorno ci eravamo quotati per portare un po’ di legna in aula. Eravamo fortunati».
La televisione la guarda?
«No, sento le notizie per radio. Però da trent’anni, ogni settimana, di solito il lunedì, con un caro amico guardiamo un vecchio film. In dvd o in cassetta. Recentemente abbiamo visto Sully di Clint Eastwood, Il ponte delle spie di Spielberg. Ma il più gettonato, che avremo visto dieci volte, è Scaramouche con quel bell’attore inglese, Stewart Granger, ed Eleonor Parker. Dei film abbiamo imparato alcune frasi a memoria. Come il dialogo tra John Wayne e il messicano in Sentieri selvaggi : “Salud” dice il messicano. “Y pesetas” risponde John Wayne. E l’altro: “Y tiempo para gustarlas”. “Siempre”».
La politica la segue?
«Ho vissuto un’epoca fortunata, dopo il 1945, in cui il governo italiano era fatto da veri uomini politici, che volevano il bene della nazione. Allora i partiti non erano un’agenzia di collocamento come adesso. Oggi sento parlare di populismo. Per me è una parola che non vuole dire nulla. Io sono contrario a questa Europa, che ha fatto il tetto, la moneta unica, prima di fare le fondamenta. Come si può immaginare che le monete di Spagna, Italia, Grecia abbiano lo stessa forza del marco? Eppure l’Europa era cominciata con buone intenzioni: doveva nascere dal basso. Bisognava partire dai libri di scuola, invece che dalla moneta. Esiste una storia europea: raccontiamola a tutti, magari noi italiani non saremmo stati soltanto pastasciutta e mafia. Se io sono populista, allora questa Europa per cui le banche non si toccano, è capitalista. Sa come ci prenderà l’islam?»
Come?
«Senza combattere, con la demografia. In Europa non facciamo più figli. Ma personalmente c’è una cosa che mi salva: la mia carta d’identità. La guardo, vedo che sono nato nel 1928 e mi dico: Mino, ma cosa te ne frega di quello che sarà l’Europa tra dieci anni? Sarò là tra gli angeli. Avevo un maestro di ginnastica che diceva: a me il paradiso non piace, dando per scontato che ci sarebbe andato. Lo vedeva così: stare seduto in un angolo, da solo, tutto il giorno a guardare il Signore».
Lei invece come se lo immagina?
«Come andare in montagna: tutto il giorno su e giù dalle Dolomiti».
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