venerdì 15 dicembre 2017

Oscar Wilde

Oscar Wilde è riuscito a diventare – purtroppo per lui – Dorian Gray. Quando Il ritratto di Dorian Gray è pubblico, nel 1890, Oscar Wilde è bello come un Gray, ha 36 anni, il cappotto con le maniche di pelliccia, il bastone, una cascata di capelli, il foulard e gli occhi magnetici. Nato a Dublino come Oscar Fingal O’Flahertie Wills Wilde, il più scandaloso e discusso scrittore inglese del XIX secolo, il dio dei dandy, il guru degli esteti, un manganello nel deretano dei vittoriani imparruccati di perbenismo, morì dieci anni dopo aver scritto il suo capolavoro. Povero in canna. Pingue. Stempiato. Senza denti. A elemosinare pennies ai passanti. A mendicare vitto&alloggio agli inglesi in Italia, in Svizzera, a Parigi. Negli ultimi anni di vita, Oscar Wilde si tramutò nel ritratto di Dorian Gray, sfatto, ulcerato, lacerato. L’uomo invecchia e deperisce; l’icona dell’uomo è immortale, immortalata dall’opera. Nicholas Frankel, professore al Virginia Commonwealth University con patentino wildiano, ha compiuto una bella variazione sulle (spesso stucchevoli) biografie del fantomatico Oscar. In Oscar Wilde: The Unrepeant Years (Harvard University Press, pp.384, euro 27,00), Frankel comincia a narrare la vita di Wilde dalla fine, dagli anni al Reading Goal, tra il 1895 e il 1897, in carcere per la relazione ‘sodomita’ con Lord Alfred Douglas. L’uscita dalla prigione suscita in Wilde una reazione duplice. Da un lato si premura di lottare per migliorare la condizione dei prigionieri nelle carceri inglesi, “mi schiero con loro, ora, d’altronde, appartengo alla loro classe”, scrive al direttore del carcere di Reading. Al Daily Chronicle invia un paio di reportage al vetriolo, promuovendo “riforme per alleviare fame, insonnia, malattie” ai carcerati. D’altro canto, “Wilde vuole godere con euforia della nuova libertà” (Frankel). “Mi sento come fossi risorto dai morti, stordito dalla meraviglia del mondo”, scrive lo scrittore a Fanny Bernard Beere, una attrice; e poi rimarca la dose, “sono votato a una esistenza dedita allo scandalo”. A onor del vero, appena uscito di gabbia, Wilde, andato in bancarotta, cerca di farsi accettare in un ricovero di gesuiti. In effetti, nella lunga lettera indirizzata a ‘Bosie’ Douglas dal carcere, il suo catastrofico De profundis, Wilde scrive che “il posto di Cristo è veramente tra i poeti. La sua intera concezione dell’umanità scaturisce nettamente dall’immaginazione e solo dall’immaginazione può essere capita… Cristo andrebbe annoverato tra i poeti, è vero. Shelley e Sofocle appartengono alla stessa schiera. Ma anche tutta la sua vita è la più stupenda poesia. Nulla nell’intero ciclo della tragedia greca può uguagliare la sua vita in ‘pietà e terrore’”.
I religiosi non vogliono saperne del sodomita. Allora Wilde emigra in Francia e fa della sua casa postribolo, un groviglio di verghe in fiore. Con la moglie i rapporti furono chiari e, per così dire, ‘castranti’: Constance Lloyd, sposata Wilde nel 1884, gli offre una indennità annuale di 150 sterline a patto di non avere più contatti con lei e con i loro due figli, Cyril e Vyvyan, e di non avere più rapporti con Alfred Douglas. A Oscar va bene la prima parte del programma. Quanto all’amato Douglas… tre mesi dopo essere uscito di prigione lo incontra a Parigi, poi viaggiano insieme, direzione Napoli, dimorando a Villa Giudice, Posillipo. L’evento, come si sa, è storicizzato: Matilde Serao ne scrive su Il mattino, le fa ammattire la bile “quell’infelice”, quella “calamità e flagello” intruppata nel girone degli “odiosamente pervertiti”. In effetti, la gita in Sud Italia ebbe epilogo terribile: pur celandosi dietro la maschera di Sebastian Melmoth, gli inglesi riconoscono lo ‘scandaloso’ Wilde e il suo boy, “a Capri, a fine ottobre, furono espulsi dall’albergo perché alcuni compatrioti si alzarono disgustati al loro ingresso in sala da pranzo, e minacciarono di andarsene”. Quando l’ennesima ‘scappatella’ di Wilde balzò alle orecchie della moglie, lei chiuse i rubinetti delle finanze. Lo stesso fecero i genitori di ‘Bosie’. Così tramonta “una grande tragica storia d’amore sventata dalle forze oscure… una delle più affascinanti storie d’amore gay di sempre” (così Colm Tóibín sul Guardianqui). Con arguzia english – cioè, scrivendo un saggio insaporito dal genio narrativo – Frankel legge gli ultimi, deliranti, dolorosi anni della vita di Wilde come l’apoteosi di un genio eccentrico. “Tutti si stancano di avere a che fare con un sacco vuoto”, sbottò Frank Harris, di fronte all’ennesima promessa dell’ennesimo capolavoro dell’esteta. Wilde, ormai, non scandalizza più nessuno: rompe solo le palle. “Beveva pesantemente, era disperatamente senza soldi, passava i giorni a ideare stratagemmi sempre più elaborati per spillare soldi al prossimo”. Finalmente, Wilde, mutatosi nel ritratto di Dorian Gray, un uomo di talento che si scoprì pezzente, muore, il 30 novembre del 1900 in un albergo di Parigi. In punto di morte non riusciva a parlare. Tuttavia, si convertì. Gli amici residui lo inumarono nel cimitero di Bagneaux. Nove anni dopo fu traslato al Père Lachaise: fu l’artista americano Jacob Epstein, stella del ‘vorticismo’, ennesima avanguardia fondata da Ezra Pound, a dare giustizia a Wilde sbalzandogli il monumento funebre.

Nessun commento:

Posta un commento

IL PANE

  Maurizio Di Fazio per il  “Fatto quotidiano”   STORIA DEL PANE. UN VIAGGIO DALL’ODISSEA ALLE GUERRE DEL XXI SECOLO Da Omero che ci eternò ...