Nicola Mirenzi - Huffington Post
A Carate Brianza, si sentiva in esilio: "Mio padre e mia madre erano emigrati dalla Sicilia poco prima che nascessi. Andavo a scuola in provincia di Monza e già quando i professori facevano l'appello in classe sentivo che c'era qualcosa che non andava. Io mi chiamo Vito Mancuso. Il mio nome e cognome evocano prepotentemente il sud. Invece, crescevo nella Brianza bianchissima degli anni sessanta. Mi sentivo fuori posto e diverso. Avvertivo su di me il razzismo, la diffidenza di certa gente. Credo che dalla lacerazione tra ciò a cui appartenevo e il luogo in cui mi trovavo sia nato in me il bisogno di pensare".
Per rifondare la fede cristiana su una base laica e universale, Vito Mancuso ha affrontato duemila anni di dottrina della Chiesa, armato di Tommaso d'Aquino e Albert Einstein, di filosofia e di scienza, del suo corpo e della sua mente: tutti uniti nella lotta. Teologo, ha scritto che il peccato originale è "un'offesa alla creazione, un insulto alla vita, uno sfregio all'innocenza e alla bontà della natura". Ha definito l'inferno "un concetto teologicamente indegno, logicamente inconsistente, moralmente deprecabile". Ha incuriosito il mondo secolare e procurato allarme in quello religioso. "Svuota di significato circa una dozzina di dogmi della Chiesa"(La Civiltà Cattolica). "Ha suscitato in me un senso di profondo disagio"(Osservatore Romano) .
Leggendo il suo ultimo libro – "Il bisogno di pensare" (Garzanti) – si ha l'impressione che il margine sia per Mancuso il luogo da cui può sentire più forte l'appartenenza, come lo sradicamento è all'origine del suo bisogno di radicarsi: "Non ho mai tenuto a essere iscritto a una scuola, fosse quella hegeliana, kantiana, martiniana. Preferisco coltivare l'indipendenza, anche nei confronti dei maestri".
Lei si occupa di Dio, ma richiama sempre la carne. Perché?
Nietzsche diceva che non bisogna mai prestare ascolto a un pensiero che viene in mente quando non si è in cammino. E che avere il "sedere di pietra" – cioè, stare sempre seduti – è un peccato contro lo spirito santo. La parte del corpo con cui penso di più sono i piedi. Essi mi fanno sentire la concretezza delle cose. Giacché il pensiero è sempre immerso nel materiale.
Anche le idee lo sono?
Le idee sono delle visioni, non sono concetti che si pensano e che si elaborano: sono qualcosa che si impone alla vista, anche se li si guarda con gli occhi interiori. È questo ciò che connota le grandi intuizioni dei musicisti, dei poeti, degli artisti, degli scienziati.
Gli scienziati non lo fanno con gli esperimenti?
Quando nel 1964 Peter Higgs teorizzò l'esistenza di un bosone oltre le particelle elementari, non aveva nessun dato per sostenerlo. Lo vide. Quarant'anni dopo, al Cern di Ginevra, verificarono che c'era davvero. Fu così anche per la teoria della relatività. Einstein aveva da una parte la meccanica quantistica, dall'altra le leggi dell'elettromagnetismo: due teorie che prese singolarmente erano vere, ma insieme erano inconciliabili. La sua visione della relatività le univa. Finché non fu verificata, anch'essa era pura immaginazione.
La sua fantasia di cosa si è nutrita?
Mio padre era un muratore, mia madre cominciò facendo la sartina. A casa mia c'erano solo due libri: un vangelo con la copertina bianca e le pagine sottilissime, e un libro di preghiere. Quando mio padre ebbe un piccolo successo economico, cominciò a comprare a rate delle enciclopedie. I volumi arrivavano una volta al mese. Io sfogliavo Le Scienze, Universi, perdendomi nelle parole e nelle illustrazioni. E poi c'erano i romanzi d'avventura di Emilio Salgari.
Fece il liceo negli anni settanta. Com'era?
Studiavo a Desio, a dieci chilometri da Milano. Era una zona operaia, vicino agli stabilimenti dell'Autobianchi. Democrazia proletaria era fortissima, come gli altri gruppi dell'estrema sinistra. Desio, però, aveva anche una grande tradizione cattolica. È la città di Don Luigi Giussani, il fondatore di Comunione e Liberazione. E ogni manifestazione finiva nella piazza che ospita la statua di Pio XI – anch'egli nato lì – con una bandiera rossa inforcata tra le tre dita benedicenti.
Lei da che parte stava?
In mezzo agli extraparlamentari di sinistra e ai ragazzi di Cielle. Ero vicino al cattolicesimo democratico, ma sopratutto ero lontano, anzi provavo allergia nei confronti di quei miei coetanei che sapevano già tutto della vita, che avevano in tasca una verità rossa, bianca oppure nera. Sentivo in loro una falsità. Avevo l'impressione che rimuovessero le contraddizioni dell'esistenza, nascondendosi dietro una citazione ritagliata dai loro testi di riferimento. Io, invece, cercavo la verità che c'era dentro ogni posizione: la verità della tesi, e quella dell'antitesi. Quando scoprii Hegel, sentii una grande affinità con la sua dialettica.
Così giovane lesse Hegel?
No, a diciassette anni lessi Dio esiste? di Hans Küng, un libro di più di mille pagine che si interroga sul rapporto tra il pensiero moderno e l'idea di Dio, dove c'era una parte dedicata ad Hegel. Quando lo finii, mi dissi: "A questo voglio dedicarmi: a pensare Dio filosoficamente". Fu una lettura decisiva. Mi cambiò la vita.
Come?
Ne parlai al prete del mio oratorio, che mi consigliò di fare dei colloqui in seminario: "Può essere un segno di vocazione sacerdotale", mi disse. Andai. Incontrai il direttore spirituale in una stanza piena di libri, a cui si accedeva percorrendo dei corridoi pieni di luci. Mi sentii nel posto giusto. Mi convinsi ed entrai in seminario.
Divenne prete?
A ventitré anni e mezzo, in anticipo di quasi due anni sui tempi canonici, il cardinal Martini mi ordinò sacerdote. Avevo fatto cinque anni di studi teologici meravigliosi, con professori eccezionali, tra i quali il cardinal Tettamanzi, e poi il cardinal Ravasi, e il cardinal Coccopalmerio, e tanti altri ancora.
Perché non continuò a fare il prete?
Perché dopo un anno mi resi conto che la mia vocazione era sì teologica, ma non sacerdotale. Due cose non mi appartenevano: una era l'obbedienza alla dottrina, l'altra era la rinuncia a esercitare la mia affettività anche a livello sessuale. Alla prima avrei potuto ovviare diventando uno di quei preti ribelli come Don Gallo. Per la seconda, invece, non c'era soluzione.
Preferì se stesso a Dio?
C'è un grande filone del pensiero teologico che crede ci sia un'infinita differenza qualitativa tra Dio e l'uomo, per cui seguire Dio significa fare un salto nel grande mistero, vivere la fede come cecità, fino a negare se stessi e opporsi alla ragione, scandalizzando il mondo. Ma questa non è la mia visione della fede. Dio, per me, è contro il consumismo, il potere, il desiderio di possesso: le manifestazioni superficiali della cultura contemporanea. Ma non è contro la corrente vitale del mondo, l'energia che si dispiega nella storia e chiede senso, giustizia, bellezza. Dio non è contro corrente. Dio è la forza che guida la corrente e la meta verso cui la corrente si dirige. È sorgente e porto, alfa e omega. E non c'è opposizione tra dimensione umana e teologica, tra corpo e spirito: è nell'armonia tra di esse che Dio si manifesta.
Papa Francesco in che direzione si muove?
La forza profetica di Francesco è così evidente che anche il mondo laico lo ascolta e lo considera un punto di riferimento. Nella Chiesa, però, una parte lo segue, un'altra lo avversa. Le tensioni sono diventate fortissime. C'è il rischio che il treno della Chiesa si spezzi.
La politica, invece?
Nel novecento, la politica è stata invasa dal pensiero. Schiere di ideologi hanno elaborato teorie che pretendevano di imporsi sulla storia, gli uomini e la loro libertà. E forse, oggi, paghiamo quell'eccesso. Senza una visione, la politica si riduce a pura amministrazione, a tecnica fredda del governo. E, per l'Italia, questo è più rischioso che per altri paesi.
Perché?
Perché senza senza delle idee capaci di organizzare la dimensione pubblica, entrano in gioco gli interessi, le lobby, le clientele, la corruzione: un campo in cui il nostro paese è sempre molto in alto nelle classifiche internazionali. Più le visioni del bene comune si estinguono, più emerge il particulare.
Cita Guicciardini. Non significa che l'Italia è sempre stata così?
Quando ero ragazzo, non mi perdevo nemmeno una tribuna politica. Ascoltare Berlinguer, Zaccagnini, Fanfani o Almirante mi metteva di fronte a una visione del mondo. Non si trattava semplicemente di altri politici: si trattava di statisti, cioè di politici in grado di dare unità ai bisogni e agli interessi di un paese intero. Oggi, di statisti, non mi pare di vederne.
La Chiesa potrebbe fare qualcosa?
La Chiesa deve fare politica, fornendo un orientamento, parlando di economia, etica, giustizia sociale. Quello che non deve fare è scegliere un partito, anziché un altro.
Papa Francesco piace molto a sinistra, però.
È innegabile che tra i due grandi principi che orientano la politica – la libertà (destra) e l'uguaglianza (sinistra) – insista di più più sulla seconda.
Significa che possiamo definirlo "un papa di sinistra"?
È una definizione che il papa rifiuterebbe. Ma se applichiamo – un po' impropriamente – le categorie politiche alla teologia è chiaro che a destra c'è la tradizione, a sinistra l'innovazione. Dunque: Ratzinger era una papa di destra, Francesco è un papa di sinistra.
Perché ci invita a pensare?
Per trovare pace e non diventare cattivi.
I cattivi non pensano?
Intendo cattivi nel senso latino del termine: captivi, cioè prigionieri. Prigionieri della paura che immobilizza la mente e il cuore, generando chiusura e aggressività. Le bestie aggredite, aggrediscono. Quando non esercitiamo il pensiero, noi uomini non siamo diversi.
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