martedì 26 dicembre 2017

La verità sul Natale

Elisabetta Broli per “il Giornale”

L'importante è che non lo sappiano i bambini: Gesù non è nato il 25 dicembre, non è nato neanche nell'anno zero. E poi: a Betlemme non c'erano il bue e l'asinello, Gesù non è nato di notte in una grotta - i Vangeli non lo precisano - Giuseppe e Maria non furono cacciati dagli alberghi. La colpa è della tradizione popolare che, la fede ha bisogno anche di «immagini», ha diffuso nei secoli innocue bugie intorno a fatti e personaggi delle Sacre Scritture.

I DUBBI SULLA DATA DI NASCITA
E infatti chi lo dice che Gesù è nato il giorno di Natale? Scrive Luca nel suo Vangelo: «Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto». Nessuna data. Il 25 dicembre (fondamentale per i negozianti) è una data convenzionale, comparsa per la prima volta (inserita da chi?) in un calendario a Roma nel 326, a pochissimi anni dall'editto di Milano che concesse a tutti i cittadini dell'Impero la libertà di culto, cristiani compresi. Poi la data fu fissata nel 354 da papa Liberio e cominciò a essere accettata da tutta la Chiesa.

Nel 425 l'imperatore Teodosio ne codificò i riti, nel 506 divenne festa di precetto e nel 529 anche festa civile. Da ottocento anni è la festa più popolare tra i cristiani (mentre dovrebbe essere la Pasqua, un conto è nascere, nasciamo tutti, un conto è risorgere). Ma perché il 25 dicembre e non il 9 aprile? Due, tremila anni fa le culture festeggiavano, il 21 dicembre, le giornate che improvvisamente smettevano di accorciarsi con il sole che rinasceva.


In Egitto si ricordava il dio Horus, divinità solare figlio della vergine Iside; nella mitologia nordica un «figlio di Dio», Frey; i romani nello stesso periodo festeggiavano i Saturnali, una specie di Carnevale d'inverno con banchetti, giochi e scambio di doni.

Nel 274 l'imperatore Aureliano scelse il 25 dicembre per consacrare un nuovo tempio al Sole invitto, alias il dio Mitra vincitore delle tenebre e caro agli ambienti militari. Anche per la simbologia cristiana Gesù era il sole che nasce, il sole della giustizia: perché non approfittare di questa data? Insomma, una data simbolica scippata al paganesimo e reinterpretata in base alla teologica cristiana?

Quello che è certo, invece, è che Gesù non è nato nell'anno zero e di conseguenza non è morto a 33 anni. Cristo è nato cinque o sei anni...prima di Cristo. Tutta colpa di un certo Dionigi il Piccolo, un monaco russo matematico che nel VI secolo dopo complessi calcoli credette di identificare l'anno esatto della nascita di Gesù. Senza computer e neppure una piccola calcolatrice elettrica, si confuse fissando il punto zero della storia (in cui con la venuta di Gesù il tempo ha invertito il senso di marcia) nell'anno 753 dopo la fondazione di Roma.

Studiando con più attenzione le fonti storiche si è però scoperto che re Erode è morto tra marzo e aprile dell'anno di Roma 750 (l'attuale 4 a.C.), quando Gesù era già nato, da quello che dice l'evangelista Matteo sulla strage degli innocenti, ordinata da Erode contro i bambini «da due anni in giù». Insomma, le ipotesi storiche oggi più accreditate lo danno nato dal 5 al 7 a.C., litigando con chi sostiene che Dionigi il Piccolo è nel giusto.


IL SIGNIFICATO DEL BUE E DELL'ASINELLO
Anche sul bue e l'asinello, da mille anni inseriti in coppia nel presepe, qualche precisazione va fatta, partendo sempre dai Vangeli: non ne parlano. Come ci sono finiti? Il primo a inserirli, ma al terzo giorno, quando Maria sarebbe arrivata in una stalla, fu il Vangelo apocrifo dello Pseudo-Matteo: è qui che i due animali si accostano alla mangiatoia e si inginocchiano.

Tutti i testi antichi sono d'accordo nel dire che il bue e l'asinello non avevano la funzione di calorifero a fiato, ma quello di simbolo di adorazione, portando a compimento le scritture: «Il bue conosce il proprietario e l'asino la greppia del padrone» (Isaia); e secondo il libro dei Numeri l'asina di Balaam riconobbe l'angelo del Signore prima del suo padrone indovino. Gli hanno incollato addosso un po' di teologia. Secondo san Gerolamo l'asino significa l'Antico testamento e il bue il Nuovo; per san Bernardo l'asinello è il simbolo della pazienza virtuosa, il bue secondo Riccardo di san Vittore è segno dell'umiltà evangelica.

GROTTA SPERDUTA O MANGIATOIA
Via dal presepe anche la grotta sperduta nella campagna e isolata dal resto del mondo, e spazio alla mangiatoia come dice l'evangelista Luca, oppure semplicemente a una casa come scrive Matteo. Anche perché è verosimile: molte abitazioni della Palestina erano addossate a cavità della roccia, che custodivano gli animali. La «grotta» in cui nacque Gesù a Betlemme, conservata nella basilica, secondo studi archeologici è proprio un locale di questo tipo, incorporato nel recinto di una casa e non isolato nella campagna.

QUANTI ERANO I RE MAGI
La lista delle credenze prosegue nel post-Natale: i re Magi non erano tre; forse quattro o due, c'è chi sostiene fossero sessanta, e comunque non erano re. Non è vero che Babbo Natale sia a-cristiano e la Befana pure...Tutto questo, naturalmente, non inficia la fede. A chi crede sta bene anche che Gesù sia nato il 14 maggio e in un albergo ai Caraibi: beato lui!

venerdì 15 dicembre 2017

Oscar Wilde

Oscar Wilde è riuscito a diventare – purtroppo per lui – Dorian Gray. Quando Il ritratto di Dorian Gray è pubblico, nel 1890, Oscar Wilde è bello come un Gray, ha 36 anni, il cappotto con le maniche di pelliccia, il bastone, una cascata di capelli, il foulard e gli occhi magnetici. Nato a Dublino come Oscar Fingal O’Flahertie Wills Wilde, il più scandaloso e discusso scrittore inglese del XIX secolo, il dio dei dandy, il guru degli esteti, un manganello nel deretano dei vittoriani imparruccati di perbenismo, morì dieci anni dopo aver scritto il suo capolavoro. Povero in canna. Pingue. Stempiato. Senza denti. A elemosinare pennies ai passanti. A mendicare vitto&alloggio agli inglesi in Italia, in Svizzera, a Parigi. Negli ultimi anni di vita, Oscar Wilde si tramutò nel ritratto di Dorian Gray, sfatto, ulcerato, lacerato. L’uomo invecchia e deperisce; l’icona dell’uomo è immortale, immortalata dall’opera. Nicholas Frankel, professore al Virginia Commonwealth University con patentino wildiano, ha compiuto una bella variazione sulle (spesso stucchevoli) biografie del fantomatico Oscar. In Oscar Wilde: The Unrepeant Years (Harvard University Press, pp.384, euro 27,00), Frankel comincia a narrare la vita di Wilde dalla fine, dagli anni al Reading Goal, tra il 1895 e il 1897, in carcere per la relazione ‘sodomita’ con Lord Alfred Douglas. L’uscita dalla prigione suscita in Wilde una reazione duplice. Da un lato si premura di lottare per migliorare la condizione dei prigionieri nelle carceri inglesi, “mi schiero con loro, ora, d’altronde, appartengo alla loro classe”, scrive al direttore del carcere di Reading. Al Daily Chronicle invia un paio di reportage al vetriolo, promuovendo “riforme per alleviare fame, insonnia, malattie” ai carcerati. D’altro canto, “Wilde vuole godere con euforia della nuova libertà” (Frankel). “Mi sento come fossi risorto dai morti, stordito dalla meraviglia del mondo”, scrive lo scrittore a Fanny Bernard Beere, una attrice; e poi rimarca la dose, “sono votato a una esistenza dedita allo scandalo”. A onor del vero, appena uscito di gabbia, Wilde, andato in bancarotta, cerca di farsi accettare in un ricovero di gesuiti. In effetti, nella lunga lettera indirizzata a ‘Bosie’ Douglas dal carcere, il suo catastrofico De profundis, Wilde scrive che “il posto di Cristo è veramente tra i poeti. La sua intera concezione dell’umanità scaturisce nettamente dall’immaginazione e solo dall’immaginazione può essere capita… Cristo andrebbe annoverato tra i poeti, è vero. Shelley e Sofocle appartengono alla stessa schiera. Ma anche tutta la sua vita è la più stupenda poesia. Nulla nell’intero ciclo della tragedia greca può uguagliare la sua vita in ‘pietà e terrore’”.
I religiosi non vogliono saperne del sodomita. Allora Wilde emigra in Francia e fa della sua casa postribolo, un groviglio di verghe in fiore. Con la moglie i rapporti furono chiari e, per così dire, ‘castranti’: Constance Lloyd, sposata Wilde nel 1884, gli offre una indennità annuale di 150 sterline a patto di non avere più contatti con lei e con i loro due figli, Cyril e Vyvyan, e di non avere più rapporti con Alfred Douglas. A Oscar va bene la prima parte del programma. Quanto all’amato Douglas… tre mesi dopo essere uscito di prigione lo incontra a Parigi, poi viaggiano insieme, direzione Napoli, dimorando a Villa Giudice, Posillipo. L’evento, come si sa, è storicizzato: Matilde Serao ne scrive su Il mattino, le fa ammattire la bile “quell’infelice”, quella “calamità e flagello” intruppata nel girone degli “odiosamente pervertiti”. In effetti, la gita in Sud Italia ebbe epilogo terribile: pur celandosi dietro la maschera di Sebastian Melmoth, gli inglesi riconoscono lo ‘scandaloso’ Wilde e il suo boy, “a Capri, a fine ottobre, furono espulsi dall’albergo perché alcuni compatrioti si alzarono disgustati al loro ingresso in sala da pranzo, e minacciarono di andarsene”. Quando l’ennesima ‘scappatella’ di Wilde balzò alle orecchie della moglie, lei chiuse i rubinetti delle finanze. Lo stesso fecero i genitori di ‘Bosie’. Così tramonta “una grande tragica storia d’amore sventata dalle forze oscure… una delle più affascinanti storie d’amore gay di sempre” (così Colm Tóibín sul Guardianqui). Con arguzia english – cioè, scrivendo un saggio insaporito dal genio narrativo – Frankel legge gli ultimi, deliranti, dolorosi anni della vita di Wilde come l’apoteosi di un genio eccentrico. “Tutti si stancano di avere a che fare con un sacco vuoto”, sbottò Frank Harris, di fronte all’ennesima promessa dell’ennesimo capolavoro dell’esteta. Wilde, ormai, non scandalizza più nessuno: rompe solo le palle. “Beveva pesantemente, era disperatamente senza soldi, passava i giorni a ideare stratagemmi sempre più elaborati per spillare soldi al prossimo”. Finalmente, Wilde, mutatosi nel ritratto di Dorian Gray, un uomo di talento che si scoprì pezzente, muore, il 30 novembre del 1900 in un albergo di Parigi. In punto di morte non riusciva a parlare. Tuttavia, si convertì. Gli amici residui lo inumarono nel cimitero di Bagneaux. Nove anni dopo fu traslato al Père Lachaise: fu l’artista americano Jacob Epstein, stella del ‘vorticismo’, ennesima avanguardia fondata da Ezra Pound, a dare giustizia a Wilde sbalzandogli il monumento funebre.

lunedì 11 dicembre 2017

Gerusalemme capitale

Fulvio Scaglione - Linkiesta
Se nei prossimi giorni, come molti indizi fanno supporre, Donald Trump annuncerà lo spostamento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, avremo la definitiva conferma che è iniziato il secondo tempo della guerra di Siria. in forte crisi dall’offensiva Russa, dal dilagare dell’influenza politico-religiosa dell’Iran e dalla compromissione dei rapporti con la Turchia.
Per afferrare i contorni del quadro, occorre in primo luogo ricostruire la “questione Gerusalemme”. Vincendo la guerra dei Sei Giorni, nel 1967, Israele ottenne anche il controllo di Gerusalemme Est, l’altra metà della città che era era stata divisa in due nel 1948, dalla proclamazione dello Stato di Israele e dalla guerra che ne era seguita. Nel 1967 Israele dichiarò alle Nazioni Unite che non si trattava di un’annessione ma solo di una “integrazione giuridica e amministrativa”. Atteggiamento che cambiò rapidamente, quando la Corte suprema israeliana stabilì che Gerusalemme Est era diventata “parte integrante” dello Stato ebraico. Nel 1980, infine, il Parlamento di Israele approvò la Legge per Gerusalemme come parte della Legge fondamentale dello Stato ebraico, dichiarando Gerusalemme capitale unificata dello Stato ebraico.
Per il resto del mondo, però, tutto questo non ha alcun valore. L’Onu considera Gerusalemme Est “territorio occupato”, una posizione che dura dal 1947, quando fu approvata la Risoluzione 181 che dice: “La città di Gerusalemme resterà un corpus separatum retto da un regime speciale internazionale e amministrato dall’Onu”. Idea ribadita sempre, dalla Risoluzione dell’Assemblea Generale del 1949, dal Rapporto speciale sui diritti dei palestinesi del 1979, dalla Risoluzione 63/30 del 2009 e da altre sei Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, compresa la 478 del 1980 che definiva la Legge per Gerusalemme approvata dalla Knesset “una violazione del diritto internazionale”. Dal punto di vista della legittimità internazionale, insomma, l’annessione israeliana di Gerusalemme Est vale quanto l’annessione russa della Crimea: nulla.Così la pensa, con qualche sfumatura, in pratica tutto il mondo, con le eccezioni della Repubblica Ceca e di Vanuatu. Usa, Ue, Russia, Vaticano: tutti fermi sul corpus separatum fino all’arrivo di Donald Trump. Che non a caso ha nominato ambasciatore in Israele David Friedman, un ebreo ortodosso che, con un gesto almeno inconsueto per un diplomatico, come prima cosa è andato a pregare al Muro del Pianto.
È chiaro che Trump, se prenderà la decisione di spostare l’ambasciata Usa da Tel Aviv (dove restano quelle di tutti gli altri Paesi) a Gerusalemme, riconoscerà l’annessione di Gerusalemme Est, renderà legittimi gli insediamenti e cambierà, grazie alla potenza americana, il quadro internazionale. Ma perché proprio ora? E a che cosa serve questa mossa?
Non è un caso se la “questione Gerusalemme” si riapre proprio mentre la stessa amministrazione Usa annuncia la presentazione, all’inizio del 2018, di un piano di pace tra Israele e palestinesi. Se spostare l’ambasciata serve a rafforzare Israele, il piano di pace dovrebbe rinsaldare la posizione dell’Arabia Saudita, che infatti ne è grande sponsor. I sauditi, infatti, non vedono l’ora di poter stipulare un’alleanza vera (quella di fatto c’è già) con Israele, ovviamente in funzione anti-Iran. Ma per farlo, devono concedere qualcosa al mondo arabo e, soprattutto, devono evitare di passare per traditori della causa palestinese.
Lo ha spiegato bene Yaacov Nagel, fino alla primavera scorsa consigliere per la sicurezza nazionale del premier israeliano Netanyahu. Ai sauditi non importa più nulla dei palestinesi. All’erede al trono Mohammed bin Salman basta poter dire “c’è un accordo”, riservandosi magari di farlo trangugiare ad Abu Mazen e alla sua dirigenza senescente e corrotta con qualche robusta iniezione di denaro.
A quel punto, l’asse israelo-saudita potrebbe nascere e contrapporsi alla crescente influenza dell’Iran con maggiore forza ed efficacia, inglobando magari qualche comprimario come il premier libanese (musulmano sunnita) Saad Hariri, non a caso fresco di ritiro delle dimissioni che erano state annunciate un mese fa da quell’Arabia Saudita dove era scappato dicendosi minacciato di morte da Hezbollah.
Su tutto la benedizione degli Usa di Donald Trump che, sempre guarda caso, hanno coperto di armi i sauditi (a farlo con gli israeliani aveva già pensato Obama, con un aumento dei fondi per la difesa dello Stato ebraico pari a 700 milioni annui per dieci anni), aperto un ombrello politico enorme su Israele e sulla politica degli insediamenti e sconfessato l’accordo sul nucleare dell’Iran firmato nel 2015. Inizia così, appunto, il secondo tempo della guerra in Siria.

Meglio non nascere

Terminato il piagnisteo nazionalpopolare? Lui ha la soluzione. Dati Istat: in Italia non facciamo più figli. Trombiamo (si spera), ma non procreiamo. “Nell’arco di 8 anni – dal 2008 al 2016 – le nascite sono diminuite di oltre 100 mila unità”, dice plumbeo l’istituzione nazionale delle statistiche. Precisando: “le donne italiane hanno in media 1,26 figli” e i figli si fanno sempre più tardi. E allora? Apriti cielo. Un Paese senza figli è un Paese sull’orlo della barbarie, preda dei barbari: adottiamo una ‘politica per le famiglie’, con assegni per il bebè e magari un dipendente pubblico che inietti gli spermatozoi di papà nell’ovulo sacro di mammà. Fermi tutti, state tranquilli. Un filosofo ha la soluzione per tutti i nostri mali riproduttivi. Lui si chiama David Benatar, 51 anni, prof e guida del dipartimento di filosofia dell’Università di Cape Town, Sudafrica. Il tipo è un pizzico sociopatico – non si fa fotografare, si fa vedere poco in giro – ed è il guru degli anti-natalisti. Che vuol dire? Questo: “Mentre le brave persone fanno ogni cosa per risparmiare la sofferenza ai propri figli, pochi di loro hanno capito che il modo migliore per prevenire le sofferenze dei figli è non metterli al mondo”.Semplice, rotondo, ovvio. Per non soffrire non occorre ritirarsi in monastero a fare i gargarismi con Siddharta; non bisogna far nascere i figli. Se c’è il nulla, non c’è il dolore. Il pensiero nitido e letale – corredato da sentenze come questa: “al contrario di quello che molti pensano, la qualità della vita umana è piuttosto terrificante” – è espresso in Better Never To Have Been, il libro del 2006 con cui Benatar, in modo piuttosto stupefacente, è salito sugli altari della filosofia. Ora queste idee sono sintetizzate in The Human Predicament: A Candid Guide to Life’s Biggest Questions (Oxford University Press, pp.288, $ 24.95), dove il filosofo parte in quarta: “Nasciamo, viviamo, soffriamo per poi morire – obliati per il resto dell’eternità. La nostra esistenza è soltanto un bagliore nel tempo e nello spazio cosmico. Non è sorprendente, allora, chiedersi: ‘perché tutto questo?’”. Convinto – e ha ragione da vendere – che “le grandi questioni dell’esistenza dovrebbero essere il pane e il burro dei filosofi”, i quali, al contrario, “come tanti scrittori e artisti pare abbiano altro a cui pensare”, Benatar ci spiega ciò che sappiamo da sempre: che il dolore ha la meglio sul piacere – “cinque minuti di dolore terrificante sono indimenticabili rispetto a cinque minuti di piacere estasiante, ma passeggero” – che la natura ci è avversaria e avversa – terremoti, gelo, caldo asfissiante – che l’uomo è notoriamente crudele, brutto e cattivo con il prossimo suo, che la sofferenza, di per sé, non ha alcun valore ‘maieutico’: “la sofferenza, semplicemente, non ha senso, la gente tenta di trovare un senso alla sofferenza perché pensare che la sofferenza sia gratuita è insopportabile”. Ergo: “non sono contrario al divertimento, ammetto che nella vita possano accadere cose buone e piacevoli”, ma è il dolore a sigillare il nostro passaggio sulla terra, “la vita è dolore tanto quanto la morte”, per questo, meglio non nascere, meglio, se si è buoni di cuori, evitare di arrecare altra sofferenza mettendo al mondo altri figli destinati a soffrire.
Il giovane favoloso
Elio Germano interpreta Giacomo Leopardi ne “Il giovane favoloso”
Per questo, filosofico paradosso, l’Istat corrobora le idee di Benatar: se gli italiani non fanno figli sono a un passo dall’illuminazione. “David Benatar può essere considerato il filosofo più pessimista del mondo”, attacca Joshua Rothman, che ha intervistato l’anti-natalista sulle pagine del New Yorker. Se agli americani le parole di Benatar risuonano nuove, tonanti, tenebrose, per noi vecchi di cultura sono, però, il ritorno del già detto e del già udito, un valzer un po’ rétro. Il pensiero di Benatar, infatti, è del tutto dipendente da Giacomo Leopardi, il quale, nel Canto notturno del pastore errante dell’Asia, che studiamo quando siamo alti così, si pone le stesse domande del filosofo sudafricano, ma con decuplicata forza lirica (“Se la vita è sventura/ perché da noi si dura?”). Di fatto, è proprio Leopardi – che pure non è citato – a costruire l’ossatura del pensierino ricalcato di Benatar: le domande sul senso del cosmo (“A che tante facelle?/ Che fa l’aria infinita, e quel profondo/ infinito seren? Che vuol dir questa/ solitudine immensa?”), la riflessione che “la vita è male”, che la sofferenza comincia con la nascita (“Nasce l’uomo a fatica… prova pena e tormento/ per prima cosa; e in sul principio stesso/ la madre e il genitore/ il prende a consolar dell’esser nato”) e che dunque è meglio non nascere, perché “è funesto a chi nasce il dì natale”. Vedete? L’anti-natalista l’abbiamo in antologia scolastica, è il più grande poeta dell’Italia moderna. D’altra parte, sono stati anti-natalisti pure i bravi cristi, i cristiani: gli encratiti, di cui parlano Ireneo di Lione e Clemente di Alessandria, ritenevano che il mondo fosse peculiarmente malvagio, che Gesù Cristo l’avesse liberato e che bisognasse adempiere alla sua opera non mettendo più al mondo figli, portando all’estinzione una umanità ormai benedetta, ma abietta. Insomma, questo edonismo del nulla attraversa la storia del pensiero occidentale: a volte l’uomo non ne può più di se stesso. Ora occorre programmare un incontro tra Silvio Berlusconi, che vuole vivere fino a 125 anni, e David Benatar, che vorrebbe morire domani.

domenica 10 dicembre 2017

L'antifascismo

Riccardo Torrescura per ''La Verità''

SLAVOJ ZIZEKSLAVOJ ZIZEK
Contestare da destra la paranoia antifascista non è mai semplice: si viene accusati di essere di parte nonché ottenebrati dall' ideologia. Ecco perché vale la pena di citare ciò che ha scritto sul tema un comunista d' acciaio. L' uomo di cui stiamo parlando è il filosofo sloveno Slavoj Zizek, la cui ultima pubblicazione italiana consiste in un corposo saggio sull' attualità di Lenin.

Siamo di fronte a un insospettabile, dunque. A un pensatore che, per quanto fuori dagli schemi, si colloca con decisione sull' altra sponda del fiume rispetto al fascismo.

Ebbene, Zizek ha appena pubblicato sul quotidiano britannico The Independent un articolo bollente sul movimento antifascista. «Un nuovo spettro sta perseguitando la politica progressista in Europa e negli Stati Uniti, lo spettro del fascismo», scrive.

«Trump negli Stati Uniti, Le Pen in Francia, Orban in Ungheria: sono tutti demonizzati come il nuovo male contro cui dovremmo unire tutte le nostre forze. Ogni minimo dubbio e riserva è immediatamente giudicato un segno di collaborazione segreta con il fascismo». L' analisi è più che corretta e si può tranquillamente allargare alla situazione del nostro Paese.

A leggere i quotidiani degli ultimi giorni, infatti, sembra che il «pericolo fascista» sia più grave che mai. Un po' ovunque spuntano movimenti para nazisti e fanatici del totalitarismo, contro cui i movimenti progressisti - Partito democratico in primis - invitano a combattere. Chiunque si rifiuti di scendere in campo viene immediatamente etichettato come «traditore dell' Italia» (la definizione è del direttore di Repubblica, Mario Calabresi).


Motivo per cui politici di vario ordine e grado stanno facendo professione di fede democratica, dichiarandosi pubblicamente «antifascisti», onde non venire sospettati di intelligenza col nemico. Un esempio lampante è il sindaco di Roma, Virginia Raggi, che ieri ci ha tenuto a ribadire «la forte natura antifascista del Movimento 5 stelle». Ecco, secondo Slavoj Zizek, forme simili di antifascismo sono il nuovo «oppio dei popoli».

«L' immagine demonizzata di una minaccia fascista», spiega il filosofo, «serve chiaramente come nuovo feticcio politico, feticcio nel semplice senso freudiano di un' immagine affascinante la cui funzione è di offuscare il vero antagonismo». A parere di Zizek, la «figura del fascista» serve ai liberal per «nascondere le situazioni di stallo alla base della nostra crisi». In sostanza, dice il pensatore sloveno, lo spauracchio del fascismo di ritorno è utilizzato per compattare il fronte progressista. «In Francia ogni scetticismo di sinistra su Macron fu immediatamente denunciato come sostegno alla Le Pen».


In questo modo, i democratici riescono a tamponare le falle interne e a non avere i proverbiali «nemici a sinistra».
«Quando ho richiamato l' attenzione su come parti della destra identitaria stavano affrontando i problemi della classe lavoratrice trascurati dalla sinistra liberal», spiega Zizek, «sono stato, come previsto, immediatamente accusato di invocare una coalizione tra sinistra radicale e destra fascista».

Sta avvenendo una cosa simile anche in Italia. Il Pd perde i pezzi, e non trova altro modo per recuperare consensi che evocare le minacciose forze della reazione in agguato. In questo modo, ottiene un duplice risultato: può invocare la repressione contro gli avversari politici e, allo stesso tempo, richiamare all' ordine i potenziali elettori delusi.


«La triste prospettiva che ci attende», chiosa Zizek, «è quella di un futuro in cui, ogni quattro anni, saremo gettati nel panico, spaventati da una qualche forma di "pericolo neofascista", e in questo modo ricattati, affinché esprimiamo il nostro voto per il candidato "civilizzato" in elezioni prive di significato. [...] Nel frattempo, potremo dormire nell' abbraccio sicuro del capitalismo globale dal volto umano. L' oscenità della situazione è da mozzare il fiato: il capitalismo globale ora si presenta come l' ultima protezione contro il fascismo, e se cerchi di farlo notare sei accusato di complicità con il fascismo. Il panico antifascista di oggi non porta speranza, uccide la speranza».

A dire tutto questo è un acerrimo avversario dei movimenti populisti e identitari.

Un avversario che ha il pregio di essere, oltre che lucido, anche onesto. Zizek, infatti, sostiene che la sinistra dovrebbe misurarsi sullo stesso terreno battuto dalla «destra alternativa», recuperando consensi attraverso un confronto davvero democratico. Secondo lui, la sinistra può battere i populisti solo tagliando i ponti con le assurdità politicamente corrette e ricominciando a occuparsi davvero dei lavoratori, dei problemi causati dalla globalizzazione e dal capitalismo finanziario senza regole. Nella sua prospettiva, la caccia al fascista è solo una scorciatoia vigliacca per evitare di affrontare la realtà.

Il fatto è che ha ragione. Il Pd, Repubblica e compagni vari possono fare tutte le campagne «antifasciste» che vogliono. Ma prima o poi dovranno spiegare ai loro lettori/ elettori come si risolve il caos dell' immigrazione, come si fa a uscire sul serio dalla crisi economica, come si combatte la minaccia dell' islam radicale, come si fronteggia l' aumento spaventoso della disoccupazione e della precarietà. Tutte questioni per cui, oggi, i progressisti non hanno soluzioni (e, quando le hanno, non sono efficaci). Il «ritorno del fascismo» potrà distrarre i cittadini per qualche settimana, ma poi i nodi arriveranno al pettine.

Verrà il giorno in cui i cari compagni non potranno più dare la colpa dei loro fallimenti al Duce. E, per loro, saranno guai seri.

giovedì 7 dicembre 2017

La rivoluzione digitale

Appunti per la lezione agli studenti della facoltà di Lettere della Sapienza, di Roberto D’Agostino

universita la sapienzaUNIVERSITA LA SAPIENZA
In un mondo di 7 virgola 7 miliardi di esseri umani, per almeno tre Internet è il miglior strumento per cambiare il mondo che sia mai stato inventato. E il segreto del web è semplice. Mentre la letteratura isola, la televisione esclude, il cinema rende passivo lo spettatore, il mondo digitale include. Mi attiva perché è condivisibile in tempo reale con il mondo intero.

E malgrado i rischi e i pericoli, quella di internet è la prima rivoluzione globale senza dissenso. Piace a tutti: poveri, ricchi, bianchi e neri, uomini, donne e tipi intermedi. È una rivoluzione facilmente comprensibile: tutti hanno capito che Internet, attraverso computer e smartphone, è una protesi che ci regala dei superpoteri, che ci permettono non di essere se stessi bensì di creare se stessi.

la lezione di dago alla sapienza 8LA LEZIONE DI DAGO ALLA SAPIENZA 8
Nella stagione del trasferimento della vita reale nel mondo digitale, i social network sono la più importante e vitale forma di aggregazione. I social ti fanno sentire parte di qualcosa – un evento, una situazione, una storia. E ci forniscono una filosofia di salvezza alla paura di correre verso il nulla: una identità digitale.

Grazie al Web, attraverso i social (Facebook, Youtube, Instagram, Twitter, etc) ci possiamo creare un'altra identità, un avatar, magari photoshoppato, quindi falso, ma appagante, da postare al resto del mondo che risponde con i like, gli emoji e i follower.

A causa di aspettative svalvolate, la vita è sempre stata una battaglia tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere.

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L’enorme successo di Internet che ritroviamo in qualsiasi classe sociale, ha origine dalla sua capacità, attraverso i social network, di creare un mondo parallelo a quello reale. Tutti amano la Rete perché è diventata un sollievo, anche un placebo, a tale insoddisfazione che nessuna ideologia/religione, nel corso della storia, è riuscita a cancellare.

(Del resto, perfino i nostri antenati greci, che hanno inventato praticamente tutto, dalla politica alla letteratura, dall’arte allo sport, hanno sentito la necessità di inventarsi e nutrirsi di un mitologico mondo parallelo affollato di avatar che portano il nome di Marte e Giove, Venere e Mercurio, al fine di quietare la propria insoddisfazione)
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I social fanno uscire la tua faccia dall’anonimato (Facebook), ti mettono in pista e ti fanno sentire unico e nello stesso tempo parte di una comunità, protagonista di un evento, di una situazione, di una storia. Il diario della vita in pubblico. Un modo di annotare il passaggio di cose e di emozioni. Mi serve una memoria istantanea, una specie di "pensiero visivo”, una pubblicità immediata di me stesso che spieghi agli altri non ciò che sono ma ciò che vorrei essere. Questo è il titolo perfetto del millennio digitale: Io sono la mia fiction. E Instagram, attraverso il selfie, è oggi la via più semplice per consegnare agli altri una immagine diversa di se stessi.

In un mondo globalizzato che non dà lavoro né assicura benessere, gli internauti devono fare affidamento sul proprio “marchio”. La smaterializzazione dell'immagine – la sua trasmigrazione dal reale al digitale, dalla carta al display - diventa l’arte di costruire il proprio Brand, il proprio marchio personale. Io sono di fatto il presidente, amministratore delegato e responsabile marketing dell’azienda chiamata “Io Spa”. Un processo che richiama alla memoria gli anni Ottanta della “Me Generation”, descritta da Tom Wolfe, e “La cultura del narcisismo” di Chris Lash.
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La creazione del proprio “brand” ha a che vedere con un'esperienza interiore di sé, piuttosto che uno stato oggettivo di essere famoso. Da Andy Warhol che nel marzo 1968 dettò la celebre frase “Saremo in futuro tutto famosi per 15 minuti”, siamo passati al ragazzino che vuole essere famoso per 15 amici.

Imploderà l’impero delle app? No, perché la tendenza generale, alla faccia di haters e di trolls, è una spinta piuttosto forte al “pensiero positivo”. C’è una frase di uno youtuber americano con un bottino di 50 milioni di follower che sintetizza questa modalità. Intervistato fa una dichiarazione che sorprende il giornalista: “Io non voglio essere me stesso. Io voglio essere la pizza”. Prego? La pizza? “Sì, perché tutti amano la pizza. Ed io voglio essere amato da tutti’’.
la lezione di dago alla sapienza 1LA LEZIONE DI DAGO ALLA SAPIENZA 1

Ecco. Noi vogliamo solo essere amati, pensiamo che ce lo meritiamo perché ci consideriamo unici. In questa frase, allo stesso tempo geniale e cinica, c’è l’essenza della ‘’filosofia’’, se così possiamo dire, digitale. Far parte di comunità in cui gli sms hanno preso il posto delle molotov e twitter al posto delle pietre. Non è un caso che Facebook ha sempre rifiutato di introdurre accanto a “like” il segno del “non mi piace”.

giulio perroneGIULIO PERRONE
Ed è anche per questo che i giornali non vendono più. I quotidiani appartengono filosoficamente al secolo ideologico, quindi devono imporre una linea al lettore, hanno la “verità” in tasca, salgono in cattedra e sparano opinioni che mi dicono che sono un incivile perché seguo il Grande Fratello Vip, un ignorante perché non mi sintonizzo sui talk politici, che sto sbagliando tutto della mia vita perché mi diverto con Malgioglio... Bene: ho speso un euro e mezzo, perché mi devi trattare a pesci in faccia?

Nella stagione del trasferimento della vita reale nel mondo digitale, i social network sono la più importante e vitale forma di aggregazione, anche in politica. Barack Obama nel 2008 per sua stessa ammissione non avrebbe vinto la sfida elettorale se non avesse avuto un formidabile team di gestione dei social network, lui riuscì a mobilitare 18 milioni di giovani per fare la differenza contro lo sfidante McCain, grazie all’uso di Facebook, aggregando le persone su Facebook.
giulio perrone roberto d agostino mirella serriGIULIO PERRONE ROBERTO D AGOSTINO MIRELLA SERRI

Il social inventato da Zuckeberg sta per toccare i due miliardi di adesioni sull’intero pianeta e dunque abbiamo una collettività transnazionale che risponde ad un proprio linguaggio. La prima cosa che si fa appena si entra in un social è quella di rovesciare in pubblico la nostra vita privata. E lo si fa con piacere. Perché noi siamo ciò che raccontiamo agli altri, dall’’’Odissea’’ di Omero a “Mille e una notte” passando per il “Decamerone” di Boccaccio, ognuno di noi è una costruzione letteraria. Io sono la mia fiction. Per questo diffondiamo sui social la nostra autobiografia, testo e foto e video, edulcorata e corretta, ovviamente. Vogliamo i like, vogliamo i followers, i cuoricini: sono loro che ci danno un’identità sociale.
giulio perrone roberto d agostino mirella serri (2)GIULIO PERRONE ROBERTO D AGOSTINO MIRELLA SERRI (2)

Per gran parte degli intellettuali del ‘900, invece, orfani del loro ruolo di leader, Internet è piuttosto un “infernet”, un inferno, come tuonò Umberto Eco, che dà “diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano al bar dopo un bicchiere di vino e ora hanno lo stesso diritto di parola dei Premi Nobel”.

E scatta l’allarme rosso: Internet è un paradiso o un inferno? Se deleghiamo i pensieri alle app o a un software diventiamo stupidi come criceti sulla ruota? Ci aspetta un "nuovo mondo", terra promessa di pace e speranza, oppure siamo destinati ad essere travolti da un gigantesco esaurimento nervoso? Ciò che la Silicon Valley vuole costruire è un paradiso per i robot?
Davvero con Internet, la Storia, con la esse maiuscola, è finita tra le fiamme dell’inferno?

L’anno che cambiò la faccia del mondo e il percorso della storia fu il 1989. Viene giù il Muro di Berlino, da una parte. Dall’altra, Tim Berners-Lee inventa la Rete, il Web, Internet. Nel 1989, finisce un’epoca, ne inizia un’altra. Fantastica e sconcertante, tempestata di clic, di siti, di immagini. E nulla fu come prima. In tutti i campi, dal lavoro all’amore, dalla cultura alla politica.
mirella serriMIRELLA SERRI

Siamo entrati in un nuovo rinascimento che sta cambiando tutto, a partire dal nostro modo di essere. Come fu l’arrivo dei caratteri stampa mobile di Gutenberg che mise fine al Medioevo e apri’ le porte a Leonardo e Michelangelo. In questo passaggio tra due epoche, dall’analogico al digitale, viviamo un senso di caos per la decadenza del nostro vecchio sistema.

E se proviamo a puntare il nostro sguardo verso il futuro, vediamo questo orizzonte di polvere, è la polvere che si alza quando crolla tutto e finisce un’epoca. Questa polvere poi lentamente si deporrà e si vedrà qualche cosa di nuovo. Il passaggio dal Medioevo al Rinascimento, del resto, durò un secolo.

La tecnologia ha cambiato la nostra vita esattamente come è avvenuto nell’800 e nel 900. L’arrivo del treno fu una grande rivoluzione, l’arrivo della macchina fu una grande rivoluzione e adesso siamo alla vigilia di innovazioni superiori a quella che la nostra immaginazione può tentare di descrivere.
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Stiamo andando verso un mondo completamente nuovo dove i protagonisti saranno i robot. Grazie all’intelligenza artificiale, i computer ci battono a scacchi, guidano le macchine, fanno la pizza e nella prossima società cibernetica, preparatevi: avremo computer nel cervello e le macchine saranno più intelligenti degli esseri umani.

Un chip, impiantato sotto la pelle, funzionerà per timbrare il cartellino, aprire porte, azionare il pc, fare la spesa. Entro il 2029 sarà realtà, la cosiddetta ‘singolarità tecnologica’, cioè quando i computer, tramite software e robot, avranno un livello umano di intelligenza, potranno evolversi e migliorarsi da soli.

Siamo prigionieri di un algoritmo, ostaggi di un software, sempre a caccia di una connessione wi-fi. Una sfida che molti considerano un incubo.

Non c’è dubbio che ogni svolta tecnologica comporta dei grandi pericoli, dei grandi rischi.
giulio perrone roberto d agostino mirella serri (1)GIULIO PERRONE ROBERTO D AGOSTINO MIRELLA SERRI (1)
La tecnologia può falcidiare e distruggere il mercato del lavoro, produrre milioni di disoccupati e quindi fomentare scontento malumori, rivoluzioni proteste, violenze, un vero e proprio terremoto sociale.

Non c’è nessun dubbio che questo è il rischio che noi abbiamo davanti, la società dei robot che è alle nostre porte e che sta già arrivando annienta e distrugge progressivamente il ruolo degli esseri umani nel mondo del lavoro, quindi la sfida è rispondere a questo rischio, tentando di ripensare il lavoro, il tempo libero, l’equilibrio fra macchine ed esseri umani. È uno dei passaggi più difficili, ma non abbiamo alternativa, che passarci attraverso e inventare una nuova forma di convivenza.

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Il vero punto debole è che le tecnologie creano una fascia di esseri umani che non è in grado di adoperarle, e che viene quindi emarginata, spazzata via, distrutta, lacerata, trasformata in prodotto di scarto.

Sul piano dei rischi c’è il trasferimento della socializzazione dalla realtà reale a quella virtuale. Noi lo vediamo tutti i giorni, noi viviamo in una grande stagione di proteste e appena può la gente va a votare e vota contro, chiunque sia e chiunque rappresenti l’establishment, ma nelle università non ci sono più movimenti di protesta, i sindacati si sono indeboliti, ogni tipo di associazionismo è in calo.
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Come è possibile che non ci siano cortei di protesta nelle grandi città dell’occidente se viviamo la stagione della protesta? Perché la protesta si è trasferita da forma aggregata associata nella realtà reale, in forme di amici o gruppi sui social network. Questo porta ad una desocializzazione degli individui che secondo alcuni studiosi del comportamento comporta molti rischi.

Soprattutto sul piano dello sviluppo delle identità. Completamente scollegate dalla realtà. Ovvero uno pensa di essere qualcosa solo e solamente perché il social network ci rappresenta in quella maniera. Questo è il rischio. Qual è invece l’opportunità? L’opportunità è che grazie al social network uno riesce ad entrare in contatto con persone che possono avere simpatie ed interessi comuni anche se vive in un’altra latitudine.
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In tutto il mondo, dal deserto del Sahara sotto le tende dei beduini, nei villaggi africani, nei villaggi del Bangladesh, in un’isola sperduta, chiunque può accedere alla biblioteca di Babele, alla biblioteca totale. Basta connettersi con la rete e c’è la totale disponibilità della cultura, dei libri, della lettura a tutti. Questo non può non produrre qualcosa che noi adesso non possiamo neanche immaginare.

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L'uomo è la misura di tutte le cose, queste erano le parole d'ordine, le leggiamo nei libri di testo, nei libri di lettura. E che cos'altro è internet, la rete, se non questo? L'affrancamento del singolo dalla dittatura o comunque dai condizionamenti di una lettura imposta, di una lettura a priori, di una lettura che viene fornita da altri anche semplicemente dal punto di vista delle notizie.

La tecnologia è una nuova ideologia che, a differenza del capitalismo o del socialismo, non ha niente a che vedere con un ideale o con un programma di governo. Ecco uno strumento, un software, un algoritmo velocissimo che deride la lentezza dei nostri pensieri. Nell’Impero Digitale, la storia non è più "orientata" verso un “pensiero unico” ma è multimediale, ipermediale, transmediale.

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Il nostro è un mondo di modernità ad alta velocità, nel quale il fatto che le cose cambino non ha più bisogno di essere spiegato dal Censis o dall’Istat. Piuttosto sarebbe meglio riprendere in mano il “Pensiero debole” del filosofo Gianni Vattimo, saggio fondamentale del postmoderno, pubblicato da Feltrinelli nel 1983, un saggio che si inalbera sulle macerie ideologiche degli anni ’70, in contrapposizione alle varie forme di pensiero forte dell’Otto-Novecento - in primis il marxismo,.

Con Internet il pensiero debole diventa fortissimo. Il Web, come il Pensiero Debole, si presenta in maniera esplicita come una forma di nichilismo, vocabolo che Vattimo considera "una parola chiave della nostra cultura". Con questo termine, che Vattimo usa in maniera positiva e propositiva, egli intende la circostanza in cui, come aveva profetizzato Nietzsche per indicare l'inevitabile decadenza della cultura occidentale e dei suoi valori, "l'uomo rotola via dal centro verso la X", ossia quella specifica condizione di assenza di fondamenti in cui viene a trovarsi l'uomo postmoderno in seguito alla caduta delle ideologie e delle verità stabili.

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E il tempo impiegato a scavare per trovare la “verità” è tempo perso perchè il mattino dopo un nuovo futuro è già qui, e quella “verità” non serve a nulla. E’ la tecnologia stessa a includere il cambiamento che per decenni è stato sinonimo di progresso. Le cose via via miglioravano. La storia aveva una direzione. Oggi il discorso è più complesso. La linearità delle cose - l'esistenza cioè di un inizio e di una fine - è un'invenzione occidentale.

La Rete permette a tutti noi di navigare come su una tavola da surf, cavalcando le onde ed evitando i venti contrari, e permettendo di restare attaccati alle correnti dell’attualità. Con un colpo di mouse, abbiamo a disposizione un'enorme fonte di informazione, un'infinita memoria generale. Nell'era dei big data, le risposte dipendono unicamente dalle domande.

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E le famigerate fake news dove le mettiamo? Le mettiamo in quel posto perchè i grandi mezzi di comunicazione sono le vere, grandi fucine di balle spaziali. Da sempre. È li che vendono preparate, cucinate, diffuse o nascoste, a seconda degli interessi dei proprietari dei giornali. L’informazione in Rete può essere vera o falsa, o entrambe le cose, ma in Rete è impossibile sostenere una menzogna per lungo tempo.

Osserviamo il caso Weinstein: Il New York Times aveva tutti i documenti necessari a pubblicare l’inchiesta dieci anni fa. Non è finita in pagina a suo tempo perché Weinstein investiva in pubblicità e finanziava la politica. Convenienza e pressioni hanno nascosto il segreto di pulcinella.
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In un saggio del filosofo Zizek si racconta di una maledizione cinese. Se si odia veramente qualcuno, lo si maledice così: "Che tu possa vivere in tempi interessanti!". Storicamente i “tempi interessanti” sono stati periodi di mutamenti, di guerre e lotte per il potere. Oggi, con la rivoluzione innescata dalla tecnologia e da internet stiamo chiaramente dentro a una nuova epoca di tempi interessanti. Quindi inquietanti, conflittuali, difficili. Ma eccitanti. Perché la nuova fonte di potere non è il denaro nelle mani di pochi, ma l'informazione nelle mani di molti.

Quello che è certo è che l’uomo, così come lo conosciamo, prossimamente non esisterà più. E non c’è dubbio che il sentimento di gran lunga più diffuso oggi sulla terra non è la paura del futuro. E' il timore di quello che avverrà domani mattina.

IL PANE

  Maurizio Di Fazio per il  “Fatto quotidiano”   STORIA DEL PANE. UN VIAGGIO DALL’ODISSEA ALLE GUERRE DEL XXI SECOLO Da Omero che ci eternò ...