martedì 28 novembre 2017

L'uomo creativo

Alain Touraine: ecco l’uomo
nell’era della creatività 

Nel testo uscito in Francia nel 2015 e tradotto da il Saggiatore il decano 
dei sociologi riflette sul significato dell’essere nel mondo contemporaneo 

Peter Kogler (Innsbruck, Austria, 1959), «Next» (2016, installazione, particolare), courtesy dell’artista/Ing Art center BruxellesPeter Kogler (Innsbruck, Austria, 1959), «Next» (2016, installazione, particolare), courtesy dell’artista/Ing Art center Bruxelles
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Sebbene non faccia mistero della propria diffidenza nei riguardi della filosofia, è un saggio filosofico. Anche se non intende esserlo. Mi riferisco a Noi, soggetti umani, pubblicato ora da il Saggiatore e uscito in Francia nel 2015. L’autore è Alain Touraine, uno dei maggiori sociologi viventi. Non è un caso che il filosofo Vincenzo Milanesi l’abbia invitato all’Università di Padova a presentare il suo libro. Sul retro del quale si legge: «Sono contento di essere finalmente riuscito ad approdare in un territorio che non avevo ancora potuto esplorare. Così contento che vorrei fosse considerato come il mio primo libro». Che il «territorio» di cui egli parla non sia il trapelare della filosofia? In effetti, se il libro mostra le grandi capacità analitiche che sono proprie del suo autore, tuttavia non è un discorso specialistico che debba confrontarsi con altre forme della specializzazione scientifica, ma si presenta come una comprensione del nostro tempo, che ponendosi al di sopra di ogni analisi specialistica intende valere come visione totale di esso e del suo passato. E questo è sempre stato il carattere del sapere filosofico. Dicendolo, non intendo partecipare a una disputa tra forme di sapere che si contendono un povero primato. Si tratta di capire con che lanterna si guarda il mondo e, vedendo che cosa esso è, di prendere le misure per viverci. 
Il saggio di Alain Touraine, «Noi, soggetti umani», è edito da il Saggiatore (traduzione di Massimiliano M. Matteri, pp. 308, euro 29)
Il saggio di Alain Touraine, «Noi, soggetti umani», è edito da il Saggiatore (traduzione di Massimiliano M. Matteri, pp. 308, euro 29)
Per Touraine si sta uscendo dalla società industriale per entrare in quella dove si fa largo la coscienza dei «diritti universali» dell’uomo: libertà, uguaglianza, fratellanza, riassunte dal concetto di «dignità». Gli uomini hanno questi diritti per la loro «creatività» «senza limiti». Capacità di «creare e trasformare non solo il loro ambiente, ma anche loro stessi e l’interpretazione che danno alle loro pratiche» (pagine 13-14). Il nostro è il tempo in cui la «capacità umana di autocreazione e di autotrasformazione», che è anche capacità di autodistruzione, va scoprendo sé stessa. E la creatività umana richiede la fine del «sacro», il rifiuto del rimanere «sottoposta alle decisioni di un Dio» (pagina 94) e di ogni potere che voglia limitarla e controllarla e che oggi si incarna soprattutto nel capitalismo finanziario, nello Stato totalitario e nelle varie forme di tirannia. In questa «creatività» consiste l’essere «soggetti umani». Il «soggetto umano» ha una «dignità» che lo pone al di sopra di tutto perché egli ha la capacità di stare «al di sopra di tutte le istituzioni, di tutti gli interessi, di tutti i poteri». 
Alain Touraine (1925, foto LaPresse)
Alain Touraine (1925, foto LaPresse)
Il concetto di «creatività» è il nucleo del libro. Che è sì ricchissimo di descrizioni suggestive del modo in cui le vecchie e le nuove forze si scontrano, si incontrano, si uniscono, si mescolano, e delle ambiguità, sfaccettature, sfumature di questi processi, ma che presenta quel nucleo come qualcosa di indiscutibile, e non ne considera la lunga genesi. Si guardi all’esito di essa, a quel che Nietzsche scrive. «Che cosa mai resterebbe da creare se gli dèi esistessero»! Nulla! Ma l’uomo è creatore: il «non più creare» è la «grande stanchezza» che Zarathustra vuol tener lontana da sé: dunque «via da Dio e dagli dèi»! (Così parlò Zarathustra, «Sulle isole beate»). È necessario saper scendere nel sottosuolo di queste affermazioni per capire il loro esser tutt’altro che esclamazioni velleitarie. Ma a sua volta Nietzsche si muove pur sempre nel clima dove l’idealismo pensa a fondo il concetto di creazione umana. E questo concetto non rinvia forse al più lontano passato di ciò che chiamiamo «Occidente»? 
Nel libro di Touraine non c’è pagina in cui la creazione umana non venga nominata. Ma non esiste una pagina in cui il significato di questa parola venga definito e se ne veda la storia. Troppo filosofica. È vero che egli considera sempre il creare nel suo incarnarsi in concrete forme storiche di carattere politico, religioso, economico, ma nemmeno queste forme sono presentate in modo da far trovare in esse in che consista il «creare». A farlo trovare è stata la filosofia, sin dal suo grande inizio presso il popolo greco. Creare: far crescere, generare, produrre. 
Nel Convivio Platone definisce la produzione (poiesis) dicendo che essa è la «causa» (aitia) per la quale «una cosa qualsiasi passa dal non essere all’essere». Certo, oggi le parole «essere» e «non essere» («niente») danno fastidio a molti. Eppure si può dire che ormai sul Pianeta ogni azione e ogni forma di coscienza (religione, scienza, politica, industria, tecnica, vita quotidiana, lo stesso inconscio, ecc.) si reggono su ciò che è indicato da quelle parole e, sì, sul modo in cui Platone ha definito la produzione. Far esser e non essere le cose è la forma suprema di potenza. L’uomo ha sempre creduto nella propria capacità creativo-distruttiva. Da quando Adamo ha creduto di poter essere come Dio. Ma la filosofia prende coscienza del significato radicale di ciò in cui l’uomo crede. Lo dico perché Touraine dà giustamente importanza al prender coscienza di ciò che si è. 
È vero: per la tradizione filosofica le cose del mondo passano dal non essere all’essere solo in quanto esiste un Dio immutabile (e il mondo è appunto questo continuo passare — e il suo inverso, cioè la distruzione). Nietzsche e pochi altri — ossia coloro che chiamo «gli abitatori del sottosuolo filosofico del nostro tempo» — mostrano invece che se esistesse un Dio non potrebbe esistere quel passare: non potrebbe esistere il mondo. Lo mostrano e vincono questo grandioso e terribile scontro, anche se la superficie del nostro tempo — e Touraine si trova nella più numerosa delle compagnie — si limita sostanzialmente a non voler più alcun Dio immutabile e alcuna delle forme inviolabili che Dio assume nel mondo, quali il diritto e il bello naturale, la verità definitiva, lo Stato assoluto. Quella compagnia si limita a esprimere il proprio bisogno che Dio e il Sacro e la loro Legislazione non esistano. Un bisogno, una fede. Non sembra casuale che a un certo punto Touraine scriva che l’affermazione dei diritti fondamentali dell’uomo, fondati sulla coscienza della sua «creatività», è «la fede nell’uomo» (pagina 21). Comunque, con Dio o senza Dio, la convinzione nell’esistenza del passaggio dal non essere all’essere e viceversa si è fatta sempre più presente nella storia, fino a presentarsi come il sottinteso di tutto ciò che oggi viene compiuto sulla Terra. 
Di particolare rilievo è il problema che emerge dal rapporto che Touraine istituisce tra la tecnica moderna e l’uomo in quanto coscienza della propria illimitata «creatività». Sia pure in mezzo a una folla di controspinte, la tecnica (da lui considerata sempre, mi sembra, nel suo essere unita alla produzione industriale) starebbe conducendo verso la maturazione di quella coscienza. Va però osservato che se quell’illimitata «creatività» esistesse sarebbe essa la forma suprema di tecnica — l’essenza della tecnica essendo appunto la capacità di trasformare il mondo. Nel passo sopra richiamato Platone aggiunge appunto che la tecnica è poiesis. Quindi la tecnica di cui parla Touraine — che è quella visibile, nota a tutti — sarebbe un mezzo per incrementare la potenza di tale forma suprema e avrebbe una potenza inferiore a quest’ultima. Se non fosse così e la potenza suprema spettasse alla tecnica di cui parla Touraine, questa potenza non lascerebbe prevalere la «creatività» umana. E l’intera prospettiva di Touraine sarebbe soltanto un’utopia irrealizzabile. 
Ma la «creatività» umana non può essere la forma suprema della potenza. Infatti, esiste oggi nel mondo, oltre ai due protagonisti considerati in questo libro, un convitato di pietra, meno visibile, di cui nemmeno Touraine tien conto. Il prevalere di questo convitato è la dimensione verso la quale il mondo sta andando. Si tratta della tecnica che non ha come scopo la realizzazione dei valori via via apparsi lungo la storia dell’uomo. Si tratta della tecnica che dunque non ha come scopo i valori del capitalismo (industriale o finanziario), o del «comunismo» cinese, o della coscienza religiosa, della tradizione filosofica dell’Occidente, né quelli, raccomandati da Touraine, della Rivoluzione francese. Si tratta della tecnica che ha come scopo l’aumento indefinito della propria potenza e che quindi è inevitabile che, sebbene ancora sullo sfondo, abbia a prevalere su ogni altro tipo di tecnica oggi in primo piano. 
Per far vivere i valori al servizio dei quali si trova, la tecnica è infatti costretta a sottrarre energia alla promozione della propria potenza. Il che non accade al convitato di pietra, cioè alla tecnica che dedica ogni energia a tale promozione. Per ora abita anch’essa nel proprio sottosuolo. Dal punto di vista di quei valori essa è «male» estremo. Ma coloro che prima abbiamo chiamato «gli abitatori del sottosuolo filosofico del nostro tempo» non mostrano forse che quei valori sono «morti»? Una volta che la «creazione» — «produzione» viene pensata come poiesis, cioè come passaggio dal non essere all’essere, e la distruzione come il passaggio inverso, questa «morte» è inevitabile. Si tratterà poi di guardare in faccia questo pensiero che sorregge l’intera storia dell’Occidente e ormai del Pianeta, per stabilire se le sue spalle sono in grado di sostenere un peso così immane.

domenica 26 novembre 2017

Antiche parolacce

PRIAPO POMPEIPRIAPO POMPEI

Da quando l'uomo è venuto al mondo, ha cercato espressioni efficaci - le cosiddette parolacce - per esprimere rabbia e sdegno. Se è molto probabile che già nella Preistoria i nostri antenati tirassero "accidenti" quando si facevano male o litigavano con qualcuno, è certo che dagli Antichi Egizi in poi il turpiloquio fu sdoganato, come testimoniano i reperti che ci sono pervenuti. Ma cosa urlavano gli antichi quando perdevano la pazienza e quali parolacce avevano nel loro vocabolario?

ANTICO VASO GRECOANTICO VASO GRECO
BESTEMMIE EGIZIANE. Gli Egizi nel III-II millennio a.C. bestemmiavano già senza ritegno. Almeno stando all’interpretazione di alcuni geroglifici e papiri, in cui Nefti, la dea dell’oltretomba, era definita una “femmina senza vulva”, il dio Thot un essere “privo di madre” e Ra, il dio Sole “con la cappella vuota”. I reperti che ci sono pervenuti però sono ancora troppo pochi per ricostruire l'arte della parolaccia del popolo del Nilo.

GRECI. Abbiamo molte più informazioni invece sugli antichi Greci. Loro a differenza degli Egizi preferivano non scherzare con gli dei. In compenso imprecavano  “per l’aglio”, “per il cane” e “per la capra”! Il filosofo Pitagora (VI secolo a.C.) credendo che i numeri fossero a fondamento della realtà imprecava addirittura con i numeri. Se si arrabbiava, si dice che gridasse: "Per il numero 4!". 
POMPEI 1POMPEI 1

Quanto a turpiloquio poi erano maestri: il poeta Archiloco già nel VII secolo a.C. scriveva versi in rima (i cosiddetti "giambi"). E all'occorrenza non andava per il sottile:
"Il suo cazzo (...) come quello di un asino di Priene
stallone gonfio di cibo eiaculava"
scrisse. Lui che era capace di raggiungere anche sublimi vette di lirismo. Come in questo giambo:
"Cuore, o cuore, sballottato da insolubili dolori,
rialzati, resisti contro chi ti tratta male, opponi
il petto, piazzato accanto alle tane dei nemici
con tenacia: e, se vinci, non ti rallegrare assai,
o, se perdi, non crollare, messoti a lutto in casa,
ma rallegrati per i beni e per i mali soffri
non troppo: ammetti come questo ritmo è della vita".

ALLA ROMANA. Gli antichi latini non erano meno pudichi dei Greci. Nel loro vocabolario si trovano termini come stercus (merda), mentula(membro maschile), futuere (fottere), meretrix (prostituta) e scortum(sgualdrina). Tutte espressioni comparse anche sui graffiti dei muri di Pompei.

porno a pompeiPORNO A POMPEI
COME UN AUTOGRILL. Leggere i graffiti di Pompei è un po' come leggere le frasi scritte in un bagno all'autogrill: si va da "Appollinare, medico di Tito, in questo bagno egregiamente cagò" a un altrettanto entusiastico "Che gioia inculare!". Ma si può trovare anche un "memorabile" commiato: "Piangete ragazze, il mio cazzo vi ha abbandonato. Ora incula i culi. Fica superba addio!"


Ma quando proprio si indispettivano, come esprimevano la loro rabbia? Solitamente davano al nemico del “sannita” . I fondatori dell’Urbe, infatti, consideravano questi italici, che si erano opposti strenuamente alle loro legioni, montaniagrestes e latrones, cioè “montanari”, “rozzi” e “briganti”. "Sporco sannita" poteva insomma essere un insulto della peggior specie.

PAROLACCE D'AUTORE. Le parolacce in alcuni casi, come già in Archiloco, erano anche messe nero su bianco. Lo fece in Grecia il commediografo Aristofane (V secolo a.C.), inventore di offese capaci di suscitare grande ilarità tra il pubblico. Il suo scopo era infatti attaccare i governanti con un linguaggio volutamente "basso" per farsi capire dal popolo.

ffresco pompeiFFRESCO POMPEI
Lo stesso che fece secoli dopo il poeta latino Marziale (I secolo d.C.) che si divertì a irridere l'oziosa vita della metropoli romana. Per farlo raccontava aneddoti che avevano come protagonisti uomini impotenti o donne corrotte, con l'obiettivo di mettere a nudo la "bassezza" umana.

Lo stile che gli risultò più efficace erano gli epigrammi, versi composti da frasi brevi e taglienti, come questo: “La merda Basso, la fai in un vaso d'oro - e non ti vergogni, tu./ Il vino lo versi nel vetro. Dunque la tua merda vale di più”.
MEDIOEVO TRIVIALE. medioevali, razzisti e classisti, consideravano offensivo il termine “villano”, che indicava l’abitante della campagna, proprio com’era offensivo per i Romani dare del “sannita” a qualcuno. Non solo la provenienza, anche le professioni e il cibo più umile originavano termini sprezzanti per ogni occasione: i siciliani del Trecento erano mangiamaccarruna, i napoletani mangiafoglia (di cavolo). E nello stesso periodo si poteva squalificare un avversario dandogli del votacessi o dello “scardatore di castagne di villa”.

Nei comuni medioevali divisi in fazioni e perennemente in lotta fra loro era facile offendere qualcuno in base al suo schieramento: a mal ghibellino cacato si poteva rispondere con sozzo guelfo traditore, ma anche con “fiorentino marcio” o, all’occorrenza geografica, con “sozzi marchisani” o “sozza romagnola”.

POMPEI A LUCI ROSSE 4POMPEI A LUCI ROSSE 4
Insomma, è evidente che gli uomini del passato offendevano e dicevano parolacce per sfogare rabbia, odio, indignazione o frustrazione, o, secondo alcuni antropologi, per provocare la reazione fisica dell’avversario.

venerdì 24 novembre 2017

Le api muoiono

Susanna Tamaro per il Corriere della Sera

SUSANNA TAMAROSUSANNA TAMARO 
Una vasta area della mia biblioteca è dedicata ai libri di scienze naturali, e una buona parte di questa è focalizzata sulla vita degli insetti. Tra entomologia e scrittura infatti c' è una relazione molto stretta perché ambedue richiedono una profonda capacità di osservazione dei dettagli anche minimi. Spesso la letteratura entomologica si discosta dal campo strettamente tecnico per trasformarsi in letteratura vera e propria.

Penso ad autori come Jean-Henri Fabre, Marcel Rolland o Maurice Maeterlinck che con la sua Vita delle api , un classico intramontabile, è stato insignito nel 1911 del premio Nobel. Così quando mi è arrivato Il piacere delle api di Paolo Fontana (edizioni WPA Books, pag. 610) ho avuto un sussulto di gioia. Avevo già letto diversi testi sulle api, per lo più molto dotti e tecnici, ma in nessun titolo mi era capitato di trovare la parola «piacere».

ALVEARE - APIALVEARE - API 
Dato che le api pungono, e le loro punture sono dolorose e spesso anche rischiose - io stessa sono finita una volta in ospedale -, riesce difficile immaginare dove possa risiedere il piacere. Eppure è così. Come il suono di un pianoforte rende una casa misteriosamente più accogliente, così le api sono in grado di trasformare un semplice giardino in una sinfonia rigenerante. In aprile e maggio, ad esempio, durante le grandi fioriture dell' acacia e del tiglio, la mia piccola fattoria viene letteralmente avvolta dal laboriosissimo ronzio delle bottinatrici al lavoro.

Chi non si è soffermato sotto uno di questi alberi in fiore non può rendersi conto di quanto sia potente la vibrazione dell' OM cosmico. L' ape in sé come individuo non esiste. Una apis, nulla apis , dice un motto latino. Ma la comunità delle api, nel suo insieme, crea un organismo unico e complesso che siamo ancora ben lontani dal comprendere.

ALVEARE - APIALVEARE - API
La mia personale impressione è che l' essere umano e l' ape siano, in qualche modo, ai vertici di due processi evolutivi. La ricchezza di condivisione e comunicazione di uno sciame, infatti, non mi sembra essere molto diversa dalla danza dei neuroni che avviene nella nostra testa.

Il piacere delle api è un' opera imponente, di profonda erudizione, che scandaglia ogni lato della vita di queste creature e del loro legame con l' uomo: dalla storia dell' evoluzione, all'antropologia, dalla filosofia, alla letteratura, dalla musica leggera alle tecniche per gestire le arnie più innovative, nessun argomento è stato tralasciato, ma pur essendo un libro divulgativo si legge con lo stesso piacere di un grande romanzo. Già perché la storia delle api è la nostra stessa storia, abbiamo rapporti con loro fin dai tempi del Mesolitico.

La pittura rupestre più antica che testimonia questo nostro legame risale a 10.000 anni fa. Gli egiziani sono stati dei grandi apicultori e da lì, probabilmente grazie anche ai Fenici, questa loro sapienza si è estesa all' Asia Minore, all' Egeo fino ad arrivare a tutti i paesi del Mediterraneo. Nel libro IV delle Georgiche di Virgilio, dedicato proprio alle api e ai fiori, si trovano nozioni tutt' ora assolutamente valide.

APIAPI 
È interessante notare che l' apicultura fiorisce quando è in atto una grande civiltà, mentre quando la civiltà decade, l' apicultura si inabissa. Un' apicultura degna di questo nome, infatti, preleva dalle arnie soltanto il surplus del miele prodotto, mentre quella che chiamerei predatoria, - o meglio la non-apicultura, perché non coltiva niente - per accaparrarsi tutto il miele sa compiere solo l' apicidio, cioè lo sterminio di tutte le api.

È stata proprio questa non-apicultura a diffondersi in Europa dopo la caduta dell' Impero Romano, restando per quasi mille anni la principale forma di sfruttamento delle nostre laboriose amiche. Niente civiltà, niente apicultura. C' è da riflettere.
E adesso a che punto siamo?

ALVEARE - APIALVEARE - API 
Ad un punto estremamente critico. L' evoluzione delle tecniche agricole, la diffusione nell' aria di un' infinità di sostanze chimiche nocive per gli insetti, le modifiche del paesaggio e il cambiamento climatico stanno portando l' apicultura sull' orlo del collasso. Personalmente, in solo due anni ho perso il 70% delle arnie. La crisi c' è ed è veramente grande, ma ogni crisi può essere anche una grande possibilità di cambiamento. Ripensare l' agricoltura vuole dire riuscire ad immaginare un mondo diverso.

Un mondo che non prema l' acceleratore unicamente sulla leva del profitto ma che sappia abbracciare anche l' idea dell' interdipendenza tra tutto ciò che è vivente. Una delle principali cause di declino delle api - sembra perfino imbarazzante dirlo - è la mancanza di fiori.

MIELEMIELE
I fiori si trovano ormai solo nelle serre dei fiorai e non più nei campi, per lo più abbandonati e coperti di rovi o ipersfruttati. I fiori dovrebbero essere il pane quotidiano delle api, senza di essi è necessario ricorrere alla nutrizione artificiale ma essendo l' ape un animale selvatico alla lunga questa pratica è destinata a indebolire la forza vitale dello sciame.

Spesso le grandi rivoluzioni nascono da piccoli gesti. «Piantate dei fiori nei vostri cannoni», cantavano i Giganti cinquant' anni fa. Forse ora, se abbiamo a cuore il nostro futuro, è arrivato il momento di intonare un nuovo inno: «Piantate dei fiori nei vostri balconi».

Garrett e Billy the Kid

Vittorio Sabadin per “la Stampa”

billy the kid e pat garrettBILLY THE KID E PAT GARRETT 
È stata scoperta l'unica foto esistente di Pat Garrett e Billy the Kid insieme, e gli appassionati di Far West saranno contenti di vedere nella stessa immagine due personaggi leggendari, che hanno ispirato decine di film di Hollywood e la canzone forse più nota di Bob Dylan: Knockin' on Heaven' s Door . Sarà più contento il proprietario della foto, che l' aveva acquistata per 10 dollari nel 2011: una delle altre due uniche immagini esistenti di Billy è stata venduta all'asta poco tempo fa per 5 milioni di dollari.

Frank Abrams, un avvocato americano appassionato di storia, teneva la foto appesa in una camera che affittava con Airbnb: pensava fosse solo un vecchio ritratto di cinque cow-boy realizzato in ferrotipia, una tecnica in uso alla fine dell' 800 per stampare le immagini su sottili lastre di metallo.

la foto con pat garrett e il kidLA FOTO CON PAT GARRETT E IL KID
Ma dopo avere visto nel 2015 un documentario su un' altra foto di The Kid, curiosamente ripreso mentre gioca a croquet, ha notato una straordinaria somiglianza con uno dei cow-boy che aveva appeso al muro, il secondo da sinistra. Il viso era lo stesso, ma soprattutto il marcato pomo d' Adamo al centro del collo lasciava pochi dubbi. Anche l' ultimo a destra ricordava qualcuno, con i suoi baffi folti e il cappello nero.

Abrams si è rivolto ad alcuni specialisti: Robert Stahl, uno dei massimi esperti del Far West, William Dunniway, che sa tutto sui ferrotipi, e Ken Gibson, un'autorità in fatto di riconoscimento facciale. Insieme hanno concluso che quella foto era stata scattata tra 1875 e il 1880, e che nell' immagine c'erano Pat Garrett e Billy the Kid. Il bandito più famoso del West e l'uomo che lo ha ucciso non erano amici come Hollywood ci ha fatto credere, ma si conoscevano certamente.
billy the kidBILLY THE KID

Garrett faceva il barman a Lincoln, dove Billy, chiamato The Kid perché era proprio un ragazzino, entrava e usciva di prigione. La prima volta, a 14 anni, era stato arrestato per il furto di alcuni abiti da una lavanderia cinese ed era così magro che scappò dalla canna del camino. Era nato forse a New York, da genitori irlandesi, nel 1859 o nel 1862. Si faceva chiamare William H. Bonney, ma il suo vero nome era probabilmente Henry McCarty.

Billy divenne un bandito a causa della famosa «Guerra del bestiame della Contea di Lincoln», una spietata faida che andò avanti per anni. Era cominciata il 18 febbraio 1878, quando venne ucciso a tradimento John Tunstall, un allevatore inglese di 24 anni per il quale Billy lavorava.

I dipendenti del ranch, per vendicarlo, formarono un gruppo chiamato i «Regolatori», e cominciò una delle più sanguinarie cacce all'uomo del West, che colpì i tirapiedi dei trafficanti che avevano preso possesso di Lincoln, corrotto lo sceriffo e ucciso Tunstall. Billy partecipò a quasi tutte le sparatorie e per molto tempo si è narrato che avesse ucciso 21 uomini da solo. Ma ne ha uccisi per certo «solo» quattro, due dei quali in duello per legittima difesa.

billy the kidBILLY THE KID 
Nel novembre del 1888 Pat Garrett fu nominato sceriffo di Lincoln e se mai c'era stata un'amicizia con Billy, finì in quel momento. Pat gli disse di lasciare il New Mexico, perché se non lo avesse fatto sarebbe andato a cercarlo. E così fece. «Dicono che Pat Garrett ha estratto il tuo numero - cantava Bob Dylan in Billy -, dormi con un occhio aperto quando sonnecchi, ogni più piccolo suono può diventare un tuono, un tuono dalla canna del suo fucile».

Garrett lo arrestò nel dicembre 1880 in un edificio abbandonato di Stinkin Springs, dove si era asserragliato. Durante l'assedio, lo sceriffo si era messo a cucinare e Billy era uscito per mangiare con lui prima di farsi ammanettare.

Al processo dell'aprile 1881 fu condannato a morte solo per avere ucciso lo sceriffo William Brady, i cui pistoleri avevano sparato a Tunstall. Fu rinchiuso in cella, ma non era tipo da farsi impiccare. Evase uccidendo i due vicesceriffi di Garrett e poi se ne andò dal paese con calma, rubando un cavallo e cantando una canzone.

Pat Garrett lo uccise il 14 luglio 1881 a Fort Sumner, nella casa di uno della sua banda, Peter Maxwell. Non si sa come andarono le cose quella notte. Secondo la ricostruzione più probabile Garrett lo ha aspettato al buio e gli ha sparato alcuni colpi, il primo dei quali al cuore. Non aveva ancora 21 anni, ed entrava nella leggenda del West.

mercoledì 22 novembre 2017

Missione Freshman


special air service (sas)SPECIAL AIR SERVICE (SAS) 
Settantacinque anni fa un commando di 36 militari delle Forze Speciali britanniche salì a bordo di alianti Airspeed Horsa per assaltare un misterioso bersaglio nascosto in territorio nemico. La loro missione era così segreta che non sapevano nemmeno verso quale paese si stessero dirigendo. L’unica cosa che sapevano era che avrebbero potuto cambiare il corso della storia.

La loro missione, dal nome in codice "Freshman", fu ordinata da Winston Churchill insieme al presidente americano Roosevelt in quanto si temeva che la Germania nazista avesse due anni di vantaggio nella corsa per costruire la bomba atomica.

reattore nucleare tedescoREATTORE NUCLEARE TEDESCO
Nella loro testa c'era la terrificante prospettiva che la Germania nazista potesse vincere la corsa per costruire la bomba. Nel 1938 gli scienziati tedeschi furono i primi a dividere l'atomo di uranio; lo stesso anno i tedeschi avevano annesso gran parte della Cecoslovacchia conquistando l'unica miniera di uranio in Europa nella montagnosa regione di Joachimsthal.

Avendo invaso la Norvegia nel maggio 1940, la Germania nazista si impossessò dell'unica riserva mondiale di "acqua pesante" - l'ossido di deuterio - componente essenziale nei primi programmi di energia nucleare. Il mese seguente Hitler aveva fatto un altro colpo invadendo il quartier generale della Belgium Company che si occupava di estrarre la più ricca fonte di uranio del mondo nel Congo belga.

la fabbrica a vemorkLA FABBRICA A VEMORK 
Circa 2.000 tonnellate di uranio in purezza furono trasportati con un treno al Kaiser Wilhelm Institute a Berlino dove i nazisti erano impegnati a costruire un reattore sperimentale, l'uranmaschina. Preso atto del terrificante progetto di Hitler di vincere la corsa al nucleare, Churchill e Roosevelt decisero di darsi due priorità: in primo luogo, avrebbero unito le forze per il "Progetto Manhattan" per costruire la bomba alleata; in secondo luogo, sabotare il programma nucleare di Hitler.

In un solo posto sembravano vulnerabili: l'impianto di acqua pesante, situato a Vemork, sul remoto e innevato altopiano di Hardanger nella Norvegia centrale. Settimane prima dello Special Operations Executive (SOE), fu paracadutata una squadra di quattro uomini, nome in codice "Grouse", nella regione, per tenere d'occhio l’impianto di produzione.
commandoCOMMANDO

Churchill, una volta rientrato in Gran Bretagna, ordinò che fosse distrutto. Non c'era tempo da perdere. Gli esperti nucleari britannici - con il nome di copertura “Tube Alloys” - avevano messo in guardia che sarebbe stato difficile. La Gran Bretagna si sarebbe dovuta preparare a un attacco della Germania nazista. In breve, la Gran Bretagna si stava preparando per l'impensabile: un attacco nucleare alle sue città. Ormai era necessario reagire.

IL PANE

  Maurizio Di Fazio per il  “Fatto quotidiano”   STORIA DEL PANE. UN VIAGGIO DALL’ODISSEA ALLE GUERRE DEL XXI SECOLO Da Omero che ci eternò ...