Alain Touraine: ecco l’uomo
nell’era della creatività
Nel testo uscito in Francia nel 2015 e tradotto da il Saggiatore il decano
dei sociologi riflette sul significato dell’essere nel mondo contemporaneo
Peter Kogler (Innsbruck, Austria, 1959), «Next» (2016, installazione, particolare), courtesy dell’artista/Ing Art center Bruxelles
Sebbene non faccia mistero della propria diffidenza nei riguardi della filosofia, è un saggio filosofico. Anche se non intende esserlo. Mi riferisco a Noi, soggetti umani, pubblicato ora da il Saggiatore e uscito in Francia nel 2015. L’autore è Alain Touraine, uno dei maggiori sociologi viventi. Non è un caso che il filosofo Vincenzo Milanesi l’abbia invitato all’Università di Padova a presentare il suo libro. Sul retro del quale si legge: «Sono contento di essere finalmente riuscito ad approdare in un territorio che non avevo ancora potuto esplorare. Così contento che vorrei fosse considerato come il mio primo libro». Che il «territorio» di cui egli parla non sia il trapelare della filosofia? In effetti, se il libro mostra le grandi capacità analitiche che sono proprie del suo autore, tuttavia non è un discorso specialistico che debba confrontarsi con altre forme della specializzazione scientifica, ma si presenta come una comprensione del nostro tempo, che ponendosi al di sopra di ogni analisi specialistica intende valere come visione totale di esso e del suo passato. E questo è sempre stato il carattere del sapere filosofico. Dicendolo, non intendo partecipare a una disputa tra forme di sapere che si contendono un povero primato. Si tratta di capire con che lanterna si guarda il mondo e, vedendo che cosa esso è, di prendere le misure per viverci.
Per Touraine si sta uscendo dalla società industriale per entrare in quella dove si fa largo la coscienza dei «diritti universali» dell’uomo: libertà, uguaglianza, fratellanza, riassunte dal concetto di «dignità». Gli uomini hanno questi diritti per la loro «creatività» «senza limiti». Capacità di «creare e trasformare non solo il loro ambiente, ma anche loro stessi e l’interpretazione che danno alle loro pratiche» (pagine 13-14). Il nostro è il tempo in cui la «capacità umana di autocreazione e di autotrasformazione», che è anche capacità di autodistruzione, va scoprendo sé stessa. E la creatività umana richiede la fine del «sacro», il rifiuto del rimanere «sottoposta alle decisioni di un Dio» (pagina 94) e di ogni potere che voglia limitarla e controllarla e che oggi si incarna soprattutto nel capitalismo finanziario, nello Stato totalitario e nelle varie forme di tirannia. In questa «creatività» consiste l’essere «soggetti umani». Il «soggetto umano» ha una «dignità» che lo pone al di sopra di tutto perché egli ha la capacità di stare «al di sopra di tutte le istituzioni, di tutti gli interessi, di tutti i poteri».
Il concetto di «creatività» è il nucleo del libro. Che è sì ricchissimo di descrizioni suggestive del modo in cui le vecchie e le nuove forze si scontrano, si incontrano, si uniscono, si mescolano, e delle ambiguità, sfaccettature, sfumature di questi processi, ma che presenta quel nucleo come qualcosa di indiscutibile, e non ne considera la lunga genesi. Si guardi all’esito di essa, a quel che Nietzsche scrive. «Che cosa mai resterebbe da creare se gli dèi esistessero»! Nulla! Ma l’uomo è creatore: il «non più creare» è la «grande stanchezza» che Zarathustra vuol tener lontana da sé: dunque «via da Dio e dagli dèi»! (Così parlò Zarathustra, «Sulle isole beate»). È necessario saper scendere nel sottosuolo di queste affermazioni per capire il loro esser tutt’altro che esclamazioni velleitarie. Ma a sua volta Nietzsche si muove pur sempre nel clima dove l’idealismo pensa a fondo il concetto di creazione umana. E questo concetto non rinvia forse al più lontano passato di ciò che chiamiamo «Occidente»?
Nel libro di Touraine non c’è pagina in cui la creazione umana non venga nominata. Ma non esiste una pagina in cui il significato di questa parola venga definito e se ne veda la storia. Troppo filosofica. È vero che egli considera sempre il creare nel suo incarnarsi in concrete forme storiche di carattere politico, religioso, economico, ma nemmeno queste forme sono presentate in modo da far trovare in esse in che consista il «creare». A farlo trovare è stata la filosofia, sin dal suo grande inizio presso il popolo greco. Creare: far crescere, generare, produrre.
Nel Convivio Platone definisce la produzione (poiesis) dicendo che essa è la «causa» (aitia) per la quale «una cosa qualsiasi passa dal non essere all’essere». Certo, oggi le parole «essere» e «non essere» («niente») danno fastidio a molti. Eppure si può dire che ormai sul Pianeta ogni azione e ogni forma di coscienza (religione, scienza, politica, industria, tecnica, vita quotidiana, lo stesso inconscio, ecc.) si reggono su ciò che è indicato da quelle parole e, sì, sul modo in cui Platone ha definito la produzione. Far esser e non essere le cose è la forma suprema di potenza. L’uomo ha sempre creduto nella propria capacità creativo-distruttiva. Da quando Adamo ha creduto di poter essere come Dio. Ma la filosofia prende coscienza del significato radicale di ciò in cui l’uomo crede. Lo dico perché Touraine dà giustamente importanza al prender coscienza di ciò che si è.
È vero: per la tradizione filosofica le cose del mondo passano dal non essere all’essere solo in quanto esiste un Dio immutabile (e il mondo è appunto questo continuo passare — e il suo inverso, cioè la distruzione). Nietzsche e pochi altri — ossia coloro che chiamo «gli abitatori del sottosuolo filosofico del nostro tempo» — mostrano invece che se esistesse un Dio non potrebbe esistere quel passare: non potrebbe esistere il mondo. Lo mostrano e vincono questo grandioso e terribile scontro, anche se la superficie del nostro tempo — e Touraine si trova nella più numerosa delle compagnie — si limita sostanzialmente a non voler più alcun Dio immutabile e alcuna delle forme inviolabili che Dio assume nel mondo, quali il diritto e il bello naturale, la verità definitiva, lo Stato assoluto. Quella compagnia si limita a esprimere il proprio bisogno che Dio e il Sacro e la loro Legislazione non esistano. Un bisogno, una fede. Non sembra casuale che a un certo punto Touraine scriva che l’affermazione dei diritti fondamentali dell’uomo, fondati sulla coscienza della sua «creatività», è «la fede nell’uomo» (pagina 21). Comunque, con Dio o senza Dio, la convinzione nell’esistenza del passaggio dal non essere all’essere e viceversa si è fatta sempre più presente nella storia, fino a presentarsi come il sottinteso di tutto ciò che oggi viene compiuto sulla Terra.
Di particolare rilievo è il problema che emerge dal rapporto che Touraine istituisce tra la tecnica moderna e l’uomo in quanto coscienza della propria illimitata «creatività». Sia pure in mezzo a una folla di controspinte, la tecnica (da lui considerata sempre, mi sembra, nel suo essere unita alla produzione industriale) starebbe conducendo verso la maturazione di quella coscienza. Va però osservato che se quell’illimitata «creatività» esistesse sarebbe essa la forma suprema di tecnica — l’essenza della tecnica essendo appunto la capacità di trasformare il mondo. Nel passo sopra richiamato Platone aggiunge appunto che la tecnica è poiesis. Quindi la tecnica di cui parla Touraine — che è quella visibile, nota a tutti — sarebbe un mezzo per incrementare la potenza di tale forma suprema e avrebbe una potenza inferiore a quest’ultima. Se non fosse così e la potenza suprema spettasse alla tecnica di cui parla Touraine, questa potenza non lascerebbe prevalere la «creatività» umana. E l’intera prospettiva di Touraine sarebbe soltanto un’utopia irrealizzabile.
Ma la «creatività» umana non può essere la forma suprema della potenza. Infatti, esiste oggi nel mondo, oltre ai due protagonisti considerati in questo libro, un convitato di pietra, meno visibile, di cui nemmeno Touraine tien conto. Il prevalere di questo convitato è la dimensione verso la quale il mondo sta andando. Si tratta della tecnica che non ha come scopo la realizzazione dei valori via via apparsi lungo la storia dell’uomo. Si tratta della tecnica che dunque non ha come scopo i valori del capitalismo (industriale o finanziario), o del «comunismo» cinese, o della coscienza religiosa, della tradizione filosofica dell’Occidente, né quelli, raccomandati da Touraine, della Rivoluzione francese. Si tratta della tecnica che ha come scopo l’aumento indefinito della propria potenza e che quindi è inevitabile che, sebbene ancora sullo sfondo, abbia a prevalere su ogni altro tipo di tecnica oggi in primo piano.
Per far vivere i valori al servizio dei quali si trova, la tecnica è infatti costretta a sottrarre energia alla promozione della propria potenza. Il che non accade al convitato di pietra, cioè alla tecnica che dedica ogni energia a tale promozione. Per ora abita anch’essa nel proprio sottosuolo. Dal punto di vista di quei valori essa è «male» estremo. Ma coloro che prima abbiamo chiamato «gli abitatori del sottosuolo filosofico del nostro tempo» non mostrano forse che quei valori sono «morti»? Una volta che la «creazione» — «produzione» viene pensata come poiesis, cioè come passaggio dal non essere all’essere, e la distruzione come il passaggio inverso, questa «morte» è inevitabile. Si tratterà poi di guardare in faccia questo pensiero che sorregge l’intera storia dell’Occidente e ormai del Pianeta, per stabilire se le sue spalle sono in grado di sostenere un peso così immane.
24 novembre 2017 (modifica il 27 novembre 2017