Paolo Mieli - Corriere della Sera
Fu tradimento quello di Pétain che collaborò con la Germania nazista, dopo la sconfitta dell’esercito francese ad opera delle truppe hitleriane (maggio del 1940)? E chi può essersi considerato tradito, se la stragrande maggioranza dei francesi — nonché il loro Parlamento eletto nella seconda metà degli anni Trenta in condizioni democratiche — si schierarono dalla parte del maresciallo? È l’interessante interrogativo posto da Avishai Margalit nella parte centrale del libro Sul tradimento, che Einaudi sta per dare alle stampe con l’eccellente traduzione di Barbara Del Mercato e Dario Ferrari. Margalit mette a paragone il destino che toccò in quello stesso frangente storico alla Polonia (brutalmente sottomessa e colonizzata dai tedeschi) e quello della Francia a cui fu, appunto, concessa l’«opportunità di collaborare» con gli invasori. Opportunità fatta propria da gran parte dei francesi, i quali considerarono un fatto positivo che i tedeschi avessero lasciato al regime di Vichy l’amministrazione di ben quattro quinti del territorio nazionale. Ma a cui si mise di traverso il generale de Gaulle, con l’effetto di essere considerato per lungo tempo egli stesso un «traditore»: traditore della volontà della maggioranza dei suoi connazionali. Eppure il collaborazionismo, scrive Margalit, è per definizione «l’associazione con il nemico», e perciò «la forma più odiosa di collaborazionismo è il tradimento da parte di individui o gruppi che condividono l’ideologia dei vincitori». Questo collaborazionismo «è più ripugnante di quello che segue un tornaconto personale, dato che il tradimento qui non consiste solo nell’aiutare il nemico, ma ne sostiene anche la superiorità spirituale, anziché limitarsi a constatarne la superiorità della forza militare». Inoltre, «l’identificazione ideologica con il nemico offre una giustificazione al fatto che gli occupanti tengano ben stretti gli artigli sulle proprie prede».
I tedeschi, fa notare Margalit, tra il 1940 e il 1944 governarono su oltre 38 milioni di francesi senza dover ricorrere ad altri che ad una «minuscola parte dei propri amministratori e dei propri poliziotti». L’interesse degli occupanti a ridurre al minimo il dispendio degli uomini poté essere realizzato solo grazie ad una «massiccia» collaborazione da parte della popolazione sottomessa. Tale occupazione «morbida» ebbe un costo, per l’occupante tedesco: quello di lasciare una certa autonomia all’occupato. Il guadagno fu però che in questo modo la Germania nazista riuscì ad «acquistare» (per così dire) il consenso degli sconfitti. E infatti i francesi scelsero di «farsi comprare»: «Non tutti i francesi e non per tutta la durata dell’occupazione ma la maggior parte dei francesi e per la maggior parte dell’occupazione, accettarono di collaborare». La maggioranza dei francesi si mostrò — forse anche per giustificarsi agli occhi di se stessa — convinta che il collaborazionismo fosse «il solo modo per limitare i danni della sconfitta e per evitare un governo gestito direttamente dai nazisti». All’epoca de Gaulle, sottolinea Margalit, risultava per molti suoi connazionali «irrilevante se non peggio, irritante». L’autore tuttavia ha parole poco diplomatiche anche nei confronti di coloro che si opposero a Pétain: il movimento della resistenza francese, la resistenza interna, secondo lui, «sembrava talvolta più un genere letterario che un’attività ribelle effettiva». Se si misura la resistenza francese in base alle divisioni che i nazisti impiegarono a combatterla, essa «non sembra essere stata molto significativa». Le forze della Francia Libera di de Gaulle, scrive Margalit, erano «abbastanza impressionanti per quanto riguardava le cifre, ma non per l’equipaggiamento»; nel momento di massimo splendore, verso la fine del conflitto, comprendevano 300 mila soldati. Naturalmente, prosegue il filosofo israeliano, «dopo la guerra convenne a tutti alimentare il mito secondo cui la Francia era spaccata tra una maggioranza di resistenti e una minoranza di collaborazionisti». Fandonie. Questo mito fu peraltro ridotto in frantumi già nel 1969 dal documentario di Marcel Ophuls Le chagrin et la pitié, che mostrava in modo assai persuasivo l’altissimo grado di consenso dei francesi all’occupazione nazista e al regime di Vichy.
Ma se effettivamente Pétain era sostenuto da gran parte dei suoi compatrioti, in che senso, si domanda Margalit, li avrebbe traditi? E, data la sconfitta subita dalla Francia, quali furono le colpe del regime che nacque da quel rovescio? Nel caso di Vichy e di Pétain, secondo l’autore di Sul tradimento, «depone contro di loro l’atto inconfutabilmente malvagio dei rastrellamenti e delle deportazioni di ebrei francesi nei campi di sterminio». Spogliare gli ebrei francesi della cittadinanza significava «tradire la Francia come nazione votata alla sua missione universale». È qui che, secondo Margalit, si annida il «tradimento». Perché? In seguito alla Rivoluzione francese, Parigi si vedeva unanimemente votata alla missione di realizzare la volontà universale: la Francia assumeva «la prospettiva dell’umanità in senso lato», in opposizione «a qualsiasi definizione etnica del popolo francese». Il regime di Vichy era volto a «distruggere questa eredità della Rivoluzione francese». Il tradimento collaborazionista ai danni degli ebrei francesi dovrebbe essere dunque considerato come il tradimento dell’eredità della Rivoluzione, secondo cui la solidarietà è fondata unicamente sulla cittadinanza conferita universalmente.
A questo punto della sua ragionata ricostruzione, Margalit piazza un colpo ad effetto che impreziosisce la sua dissertazione e propone quello che lui stesso definisce «un argomento a favore del collaborazionismo». Se il tradimento a danno degli ebrei costituì la cartina di tornasole del collaborazionismo con la Germania, scrive, esso presenta anche qualcosa «che gli apologeti del collaborazionismo di Pétain possono utilizzare con profitto a proprio vantaggio». Si parte da Drancy, il campo di transito da cui tra il 1942 e il 1944 gli ebrei francesi vennero deportati nei campi di sterminio, «ciò che costituisce innegabilmente una pagina terribile e tragica». È vero: «Tra i deportati ci furono anche seimila bambini». È altrettanto vero: i collaborazionisti del regime di Vichy ebbero «un ruolo vergognoso in questa vicenda». Quel che si è testé detto (e che è ampiamente documentato) è inoppugnabile. Ma «bisognerebbe mettere a confronto le cifre» dalle quali balza agli occhi che «il destino degli ebrei nei Paesi collaborazionisti fu molto migliore di quello che veniva riservato loro nei Paesi che non collaborarono con i tedeschi». Si scopre che «nei luoghi in cui la popolazione sceglieva il collaborazionismo anziché la “polonizzazione”, sopravvisse una percentuale più alta di ebrei». In Francia, dei 350 mila ebrei presenti prima della guerra, «solo» 77 mila furono assassinati, mentre nell’eroica Jugoslavia ne furono trucidati 60 mila su 78 mila. Nel Belgio collaborazionista il rapporto fu di 29 mila assassinati su 66 mila israeliti di prima della guerra, mentre nella vicina Olanda, governata direttamente dai tedeschi, ne vennero uccisi 100 mila su 140 mila. In sostanza «per gli ebrei fu meglio vivere sotto un regime collaborazionista». Certamente nessun Paese scelse di collaborare con i nazisti «per il bene degli ebrei». Ma «sembra che all’atto pratico per gli ebrei il collaborazionismo sia stata una scelta migliore della polonizzazione». Il collaborazionista nega che il suo sia «un gioco rigorosamente competitivo in cui una parte guadagna esattamente ciò che l’altra perde». Il collaborazionismo è odioso e umiliante, ma «entrambe le parti, nonostante l’enorme asimmetria, possono guadagnarci». In che senso? L’occupazione, scrive il filosofo, comporta una coercizione, ma coercizione non significa che l’accordo offerto alla parte sconfitta, ovvero la collaborazione, non sia migliore dell’assenza di ogni accordo: il collaborazionismo, questa specifica forma di tradimento, secondo Margalit, «è ciò che di meglio si può fare in alcune circostanze nefaste». Coloro che detengono il potere e scelgono di accettare questo genere di accordo «non dovrebbero essere considerati dei traditori ma dei patrioti che hanno il coraggio di scegliere il male minore in una situazione di estrema difficoltà». Nel corso della Seconda guerra mondiale, per gli ebrei — pur in un dramma di proporzioni immani — fu meglio trovarsi a vivere in Paesi «traditori» e collaborazionisti come Francia e Belgio che in quelli che «non tradirono» e «non collaborarono» come la Polonia o la Jugoslavia.
Nonostante ciò, secondo Margalit, fu giusto considerare Pétain un traditore. È la «storia condivisa del popolo francese», scrive, «che Pétain ha corrotto e tradito». Il maresciallo «ha tradito con il suo tentativo di creare una Francia sradicata dalla propria memoria e dall’eredità della Rivoluzione francese». Avrebbe potuto sostenere «di aver radicato più di chiunque altro le proprie azioni in un passato condiviso, un passato che la Rivoluzione aveva distorto creando una Francia omogenea e artificiosa… In questo senso, chi poteva accusare proprio lui, tra tutti, di aver tradito il passato condiviso?». Ogni passato, tiene a specificare Margalit, è composito, è una miscela di elementi nobili e ripugnanti. Essere leali a un «passato condiviso» significa «qualcosa di più che accettare tanto i lati positivi quanto quelli negativi». Significa «impegnarsi a mantenere in vita ciò che si ritiene essere la parte migliore del proprio passato». Ed è a questo impegno che Pétain, l’eroe vittorioso della Prima guerra mondiale, è venuto meno. Se interpretiamo «il tradimento come tradimento della volontà generale della popolazione occupata», possiamo vedere nel collaborazionismo anche «il tradimento delle generazioni passate». L’idea è che i rapporti forti di una comunità in un Paese occupato vadano al di là della popolazione presente in un determinato momento storico e dovrebbero anzi includere «la comunità del passato». Un consenso contingente nella comunità che vive sotto l’occupazione potrebbe «tradire la comunità del passato».
Afine conflitto Pétain, il 15 agosto del 1945, fu condannato a morte per alto tradimento (salvo poi vedere commutata la pena in ergastolo), mentre de Gaulle fu acclamato come eroe nazionale. Ma anche de Gaulle, per Margalit, merita qualche considerazione. Se portate d’urgenza in ospedale un vostro amico privo di sensi, scrive, potete decidere a nome suo, pur in assenza di una delega formale, su alcune questioni che riguardano la sua salute. Si potrebbe vedere in de Gaulle un «amico» di questo genere, il rappresentante informale dei francesi, «in uno stato di necessità di una Francia momentaneamente priva di sensi», che in quel lasso di tempo si sarebbe trovato «nella posizione migliore per esprimere il bene comune del proprio Paese».
Ma, avverte l’autore, «l’idea che in uno stato di necessità un rappresentante possa incarnare il bene comune di una collettività è un’idea rischiosa: sembra un invito rivolto a individui affetti da manie di grandezza o dal cosiddetto “complesso del Messia” ad agire in nome del popolo con la pretesa di insegnare alle persone ciò che è meglio per loro». E non è solo un problema di porte spalancate ai megalomani. Si può anche legittimamente avere paura che la «volontà generale» spiani la strada alla «democrazia totalitaria». Però, una volta prese le dovute precauzioni, conclude Margalit, «l’idea di una volontà generale in una forma o nell’altra, è indispensabile per affrontare la questione di chi ha diritto di parlare a nome di un popolo che appartiene ad un Paese militarmente occupato».
Dopodiché il giudizio finale deve tener conto di alcune importanti circostanze: «De Gaulle, che apparteneva al medesimo ambiente conservatore di Pétain, aveva il corretto senso storico di ciò che valeva la pena conservare della storia francese e, cosa ancor più importante, di ciò che avrebbe comportato il suo tradimento». Invece Pétain, oltre a un giudizio storico sbagliato, «elaborò un giudizio morale erroneo, sostenendo un regime fondato sulla distruzione dell’idea stessa di umanità». In un certo senso, Pétain «tradì anche il popolo con il quale sentiva di avere un rapporto estremamente forte, corrompendo i valori del passato condiviso». O anche solo accettando che fossero corrotti.
In merito al collaborazionismo, Margalit non si sottrae ad un giudizio sul «caso orribile» degli Judenräte, i consigli ebraici che il regime nazista istituì in molti ghetti, costretti a fornire manodopera forzata, a tenere registri di coloro che venivano mandati nei campi di sterminio e a collaborare alla deportazione. Non c’è dubbio, scrive il filosofo israeliano, che nell’Europa sottoposta all’occupazione nazista gli ebrei subissero, sia collettivamente che individualmente, una «brutale costrizione». Ciò non ha evitato che dopo la guerra il termine Judenrat tra gli ebrei divenisse sinonimo di collaborazionismo e di tradimento, ed essere stato un membro di tali consigli equivaleva — nel loro giudizio — ad esser stati collaborazionisti. Si trattava, scrive Margalit, di un giudizio «crudele, sommario e non basato sulla conoscenza dei fatti». Anche se poi «sullo scivoloso crinale del collaborazionismo non ci sono appigli a cui aggrapparsi per attutire la caduta». Il che indurrebbe a pensare che per il tradimento, anche quello «a fin di bene», ci sia poi un prezzo da pagare. Sempre.
Bibliografia
Esce in libreria martedì 14 novembre il saggio del filosofo israeliano Avishai Margalit Sul tradimento (Einaudi, pagine 267, euro 21). Sullo stesso argomento lo storico Marcello Flores ha pubblicato due libri: Traditori (il Mulino, 2015) e Il secolo dei tradimenti (il Mulino, 2017). Il regime collaborazionista francese, che durò dal 1940 al 1944, è oggetto di vari testi importanti. Tra i più noti il lavoro dello storico americano Robert O. Paxton Vichy (traduzione di Giuseppe Bernardi ed Erica Mannucci, il Saggiatore, 1999). Meritano di essere segnalati inoltre: Henry Rousso, La Francia di Vichy (traduzione di Renato Ricciardi, il Mulino, 2010); Maurizio Serra Una cultura dell’autorità (Laterza, 1980; poi Le Lettere, 2011);Giorgio Caredda, La Francia di Vichy (Bulzoni, 1990); Herbert R. Lottman, Pétain (traduzione di Erica Mannucci, Frassinelli, 1985).
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