venerdì 14 aprile 2017

Bandito Giuliano


E Besozzi smontò le bugie Luce sul bandito Giuliano

FERRUCCIO DE BORTOLI 


Salvatore Giuliano (1922-1950) fu ucciso da un membro della sua banda, Gaspare Pisciotta (1924-1954)
Non ho conosciuto Tommaso Besozzi ma è come se mi avesse accompagnato, precedendomi, in tutti i giornali in cui sono stato: l’«Europeo», ovviamente, il «Corriere della Sera», il «Corriere d’Informazione», il «Sole». Montanelli, Biagi, Afeltra, Perazzi e tanti altri non mancavano di raccontare un aneddoto su Tom. Con quell’affetto, non privo di perfidia, che caratterizza i giornalisti quando parlano dei colleghi. Incapaci di resistere alla tentazione di specchiarsi nelle gesta degli altri, mettendole qualche volta in dubbio. La storia italiana del dopoguerra è scandita dallo scoop dell’«Europeo» sulla morte del bandito Salvatore Giuliano. Una pietra miliare del giornalismo investigativo. In tempi amari di post verità e di fatti alternativi, risplende ancora di più come la plastica dimostrazione di come sia utile a una società democratica una stampa non allineata, non conformista, non banalmente sdraiata. Le falsità ufficiali sono il veleno sottile che corrode la fiducia popolare nelle istituzioni. L’antidoto, non sempre apprezzato, è nel coraggio e nella competenza di cronisti liberi e indipendenti. Giornalisti che non raramente pagano la propria libertà con la vita o con un umiliante isolamento. Besozzi smontò la goffa verità ufficiale sulla fine del bandito di Montelepre e consentì di capire meglio i legami tra la mafia non solo siciliana — che si sbarazzò dell’ormai scomodo Turiddu — la politica e diversi apparati dello Stato. Ma non si limitò solo a questo, che sarebbe già stato molto. Analizzò in profondità il «fenomeno Giuliano», spogliandolo da tutta la retorica dello «spietato giustiziere», dell’«arcangelo che leva la spada fiammeggiante a difesa degli oppressi». Giuliano era solo — scrive Besozzi — «uno sventurato e disperato picciotto», senza una particolare vocazione, che «camminava dondolando», parlava a voce bassa. E soprattutto era convinto di essere nel giusto, anche quando diventò una pedina sanguinaria in mano alla mafia e ai «baroni» dell’Isola. E il consenso perverso di cui godeva faceva sì che pochi credettero alle sue responsabilità della strage di Portella della Ginestra. Emanuele Macaluso nel suo libro La Mafia e lo Stato è esplicito nel delineare responsabilità, distrazioni, amnesie. La mafia è una infezione, non solo siciliana, con la quale lo Stato ha stretto patti di reciproca convenienza. E la vicenda di Giuliano è emblematica di questo intreccio perverso. Di questa convergenza di interessi. Giuliano era diventato scomodo, dopo essere stato usato, ai suoi stessi committenti.
Sono stato caporedattore dell’«Europeo» nello stesso periodo in cui vi lavorò Enrico Mannucci, che è custode attento e non acritico dell’eredità besozziana. Direttore era Lanfranco Vaccari. Quell’incipit del famoso reportage di Tom «Di sicuro c’è solo che è morto», era scritto nella bacheca della capo-redazione e faceva parte della corposa eredità professionale di Arrigo Benedetti: no alle frasi fatte, agli slogan logori, alle espressioni oscure e circonvolute. Un’altra scritta recitava: dieci regole per una didascalia immortale. L’ossessione dell’attacco, delle prime parole di un articolo era quotidiana. I «pezzi» si rifacevano due, tre, infinite volte. E non c’erano i computer. La professione aveva qualcosa di artigianale.
Besozzi, nelle descrizioni dei colleghi che lo avevano conosciuto, poteva sembrare, nell’aspetto, un manovale del giornalismo con quelle sahariane con le tasche piene di oggetti. Aveva la passione degli esperimenti elettrici o chimici. E il suicidio lo preparò con cura meccanica tornendo il proiettile che lo avrebbe ucciso. Cercai di riconoscere i tratti di Tom lavorando e parlando a lungo con il figlio Lodovico al «Sole 24 Ore». Il direttore di allora, Gianni Locatelli, gli aveva affidato la cura dell’inserto culturale della domenica, che Lodovico confezionò con intelligenza e fantasia. Era un uomo schivo, quasi piegato da una sofferenza incomprensibile. Parlava a stento del padre. Ne sentiva il peso dell’eredità. Non era impercettibile un senso di disagio, di rancore.
La vera storia del bandito Giuliano, che viene riproposta in questa edizione strappata dall’oblio, è scritta con un linguaggio scorrevole, moderno. Quello dei grandi inviati che non hanno bisogno di romanzare nulla perché sono in grado di descrivere tutto. Con serietà, con rispetto della realtà, che non piegano ai loro desiderata. Besozzi si mimetizza. Osserva, cerca di capire. Non è schiavo di pregiudizi nordici. Non si comporta come l’autista di autobus, il «milanese infame», che non crede alla leggenda del bandito giustiziere e pone davanti a sé il velo protettivo dell’ignoranza o del pregiudizio. Non è embedded, come si direbbe oggi con un termine umiliante per la professione giornalistica. È insieme cronista e storico. Scopre i fili invisibili del potere mafioso, le convenienze che spingono i poteri forti dell’isola a servirsi del bandito giustiziere, a commissionargli la strage di Portella della Ginestra del primo maggio del 1947. Tributa a Gerolamo Li Causi l’onore che merita. Ma descrive con esattezza e distacco anche l’incredibile favore che la popolazione ha nei confronti del «brigante senza vocazione», taciturno. «L’hanno velenatu».
L’omertà è nel codice d’onore del potere mafioso la misura dell’appartenenza e della fedeltà. L’autorità statale è vissuta come una violenza su costumi e abitudini secolari. Lo Stato, prima con la polizia e poi con i carabinieri guidati dal colonnello Ugo Luca, esercita una repressione tanto violenta quanto sciocca, fino ad arrivare a un razionamento punitivo dell’acqua per uso civile. La banda di Giuliano si macchia di un centinaio di omicidi, ma riesce fino all’ultimo a interpretare un insidioso codice di giustizia alternativa. Quella dei padrini che sanno ascoltare, indirizzare, proteggere. E punire.
Il capomafia don Calogero Vizzini è figura che concentra in sé il fascino perverso del potere occulto mafioso. Montanelli lo intervistò e raccontò più volte il personaggio nella sua inquietante gentilezza. E poco prima della morte, sulle pagine del «Corriere», nella sua rubrica di corrispondenza con i lettori, scrisse di don Calò, parlando di Mori. Inviato nell’Isola da Mussolini, il «prefetto di ferro» sbatté in carcere don Calò senza tanti complimenti. «Sì, è di mano spiccia», disse il capomafia a Montanelli... E dopo una lunga pausa: «ma òmmo era». Era un uomo.
Besozzi capisce quanta importanza abbia la vanità umana, estrema debolezza del fuorilegge rifugiato tra le montagne, che ama vedersi riprodotto sui rotocalchi, che adora la visita di giornalisti, e soprattutto giornaliste straniere. Gaspare Pisciotta, il traditore di Giuliano, è un infantile vanesio, l’anello debole del potere criminale, fragile nella sua ferocia. Besozzi non si lascia distrarre. Spiega con la freddezza del chirurgo le gesta dei criminali, calcola la loro potenza economica, l’incasso dal 1942 al 1950 di circa un miliardo e mezzo. Si favoleggia di un tesoro che non verrà mai ritrovato. Si intuiscono, nei capitoli del libro, le ramificazioni di un potere occulto, quello mafioso, trasversale per eccellenza, emerge la porosità indolente di una società civile, se non connivente, in ostaggio alla paura e agli interessi sotterranei. Un libro di straordinaria attualità, che il tempo, purtroppo per noi non ha scalfito. La grandezza originale di Besozzi risplende. La scrittura è limpida, tagliente. Il temperamento ribelle, e desolatamente solitario.

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