martedì 11 aprile 2017

Guernica

Francesco Agnoli - La Verità

Una delle balle spaziali più longeve è quella che i libri di arte, di storia ecc. continuano a raccontare sul celeberrimo quadro di Guernica.

Secondo la vulgata, Guernica fu dipinto per commemorare un fatto storico, avvenuto il lunedì 26 aprile 1937: il bombardamento con bombe incendiarie, accompagnate da raffiche di mitra, di un paesino inerme in giorno di mercato. I morti furono 1.654 e 889 i feriti, su una popolazione di circa 7.000 persone, a carico dei bombardieri nazisti. La prima menzogna è già nella narrazione dei fatti.

Scrive lo storico Arrigo Petacco: «Guernica non era una cittadina inerme: distava infatti pochi chilometri dal fronte, vi erano acquartierati 3 battaglioni baschi ed era un importante snodo ferroviario che consentiva un rapido collegamento con Bilbao. Il mercato settimanale del lunedì era stato in realtà sospeso e, in previsione di attacchi dal cielo, erano stati costruiti 7 rifugi antiaerei che salvarono la vita a molte persone... I morti furono 126, i feriti 889. I giornali baschi dell' epoca non avvallarono mai le cifre diffuse dall' estero perché tutti conoscevano i risultati reali del bombardamento».


Saranno giornalisti italiani, tra cui Achille Benedetti del Corriere della Sera e Sandro Sandri della Stampa, inglesi e americani come William Carney del New York Times, «a diffondere la prima versione taroccata del bombardamento di Guernica» (Arrigo Petacco, Viva la muerte! Mito e realtà della guerra civile spagnola 1936-39, Mondadori, Milano, 2006; Stefano Mensurati, Il bombardamento di Guernica. La verità tra due leggende, Ideazione, 2004).

Lo storico e giornalista Vittorio Messori annota che la versione romanzesca creata da alcuni giornalisti, fu colta al balzo da «due propagande: quella anarcocomunista, naturalmente; ma anche quella britannica, poiché il nuovo governo di Chamberlain doveva convincere l' opinione pubblica della necessità di affrontare grandi spese per il riarmo, vista la barbarie tedesca e la potenza delle sue armi» (Vittorio Messori, Le cose della vita, San Paolo, Milano 1995).

Poche pagine di storia sono state così falsate come quelle della guerra di Spagna. Ed eccoci al celebre dipinto. Chi scrive ingenuamente immagina che a determinati fatti (bombardamento di un mercato, uso di bombe al fosforo, incendi, muri crollati, aerei che ronzano nel cielo...) corrisponda una narrazione compatibile.

No, ci raccontano sempre che il pittore Picasso, allora chiamato dalla Repubblica a dirigere il Prado, decise di denunciare i bombardamenti nazisti in modo simbolico: niente aerei, niente mercati, niente muri diroccati, per quanto tutto ciò costituisse uno spettacolo piuttosto inedito e originale, ma un toro (il solito toro di molti dipinti di Picasso), un cavallo morente, una donna che regge una lampada...

A prima vista Guernica appare come una giustapposizione di immagini poco connesse, la cui interpretazione è per forza di cose molteplice. Alcuni anni dopo il dipinto, fu proprio Picasso a spiegare che, in Guernica, il toro delle amate corride non va interpretato quale simbolo positivo in opposizione al franchismo ma rappresenterebbe, al contrario, «la brutalità» del franchismo, del nazisfascismo, della guerra (Patrick O' Brien, Picasso, Tea, Milano, 1996). Suona tutto molto strano.

Il già citato Petacco racconta che la tela di Guernica era in origine un quadro dedicato a un torero ucciso, e che cambiò destinazione dopo che il governo repubblicano commissionò al pittore un quadro «dal contentuto politico». Del resto, chiosa Petacco, Guernica «consente le più diverse interpretazioni».

Più prodigo di dettagli, Vittorio Messori, nel testo citato: «Da buon spagnolo, Pablo Ruiz Biasco y Picasso amava le corride. Fu, dunque, sconvolto dalla tragica morte di un suo beniamino, il famoso torero Joselito. Per celebrarne la memoria, mise in cantiere un' enorme tela di 8 metri per 3 e mezzo, che gremì di figure tragicamente atteggiate, a colori luttuosi. Finita che l' ebbe, la chiamò En muerte del torero Joselito. 
Correva però il 1937, in Spagna infuriava la guerra civile e il governo anarcosocialcomunista si rivolse a Picasso per avere da lui un quadro per il padiglione repubblicano all' Esposizione universale in programma a Parigi l' anno dopo. Il Picasso (che diventerà, non a caso, uno degli artisti più ricchi della storia) ebbe una pensata geniale: fece qualche modifica alla tela per il torero, la ribattezzò Guernica e la vendette al governo «popolare» per la non modica cifra di 300.000 pesetas dell' epoca.

Qualcosa come qualche miliardo - pare 2 o 3 - di lire di oggi, che furono versati da Stalin attraverso il Comintern. Contento Picasso, ovviamente; contenti anche i socialcomunisti, che di quel quadro di tori e toreri fecero un simbolo che è giunto sino a noi ed è continuamente riprodotto, con emozione, come simbolo della protesta dell' umanità civile contro la barbarie nazifascista. Stando a molti critici d' arte, Guernica è il più celebre quadro del secolo. E, ciò, grazie proprio alla "sponsorizzazione" da parte delle sinistre, a cominciare dai liberals occidentali: la tela picassiana ebbe una sala tutta per sé al Metropolitan Museum di New York e vide milioni di "pellegrini" sfilare in religioso silenzio».

Oggi, per Wikipedia, Guernica è «una delle opere che meglio incarnano l' impegno morale e civile» di Picasso.
Profumatamente pagato dal governo repubblicano e da Mosca, alla fine della seconda guerra mondiale Picasso, si iscrisse al partito dei proletari, e degli artisti e intellettuali alla moda: il Partito comunista.
Purtroppo, però, non trovò mai il tempo per accorgersi delle brutalità dei regimi comunisti e per dedicare un quadro anche ad esse.

Anzi, come fanno tutti quelli che hanno vinto una volta, ripeté la commedia. Racconta Lucio Villari, sulla Repubblica del 9 dicembre 1998, che nel dopoguerra Picasso trasformò un piccione in una colomba per la pace, ad uso del solito partito comunista allora impegnato a presentarsi al mondo come un' ideologia di pace.

Difficile quindi non attribuire anche a Picasso quanto scriveva George Orwell: «Tra gli intellettuali, direi che i cambiamenti di opinione avvengono per effetto del denaro o in considerazione della propria posizione personale».

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