domenica 23 luglio 2017

Il sesso nella letteratura

Camilla Tagliabue per L’Espresso

Votate per Isidoro. Lecca la fica in modo strepitoso... Gennaro lecca il membro. Romula lo succhia al suo amato qui e dovunque si trova»: non sono scritte oscene lette nei bagni dell’autogrill, ma graffiti dell’antica Pompei. Il sesso è vecchio come il mondo anche se oggi se ne ciarla tanto, ed esplicitamente, come se fosse una invenzione dell’altroieri. Da Dagospia al cinema d’autore, la pornografia è onnipresente e i pornodivi sono i nuovi maître e maîtresse à penser, ospiti fissi in tv e online accanto a blasonati colleghi delle fiction a sfondo erotico.

Se sul piccolo schermo, dopo Master of sex e Californication, va per la maggiore “I love Dick” - in cui due sposi si innamorano entrambi del professor Dick, nomen omen per indicarne i genitali - in teatro si sono appena visti un Pinocchio sodomizzato (al Piccolo di Milano) e una versione tedesca delle “50 sfumature” di E.L. James (al Festival delle Colline Torinesi).


Il porno spopola anche in libreria: c’è la “Metafisica della puttana” di Laurent de Sutter (Giometti & Antonello); la Milf di Rosa Montero (Salani); i pedofili di Inge Schilperoord e Walter Siti (Fazi e Rizzoli); l’inchiesta di Emily Witt, “Future Sex” (minimum fax), che ha sperimentato personalmente le nuove frontiere della sessualità. Persino il defunto Jean Baudrillard è stato tirato per la giacchetta e lasciato con le pudenda al vento, pubblicando una raccolta di suoi scritti con l’ammiccante titolo “Pornografia del terrorismo” (FrancoAngeli); senza contare la ricca manualistica, come le “Guide erotiche” di Alessandro Bertolotti (Odoya).

Ma è tutto déjà vu e déjà lu perché - come si è detto - il porno è un classico: quale miglior luogo allora per stanarlo, e recuperarne l’antico sapore, se non i classici della letteratura? Non quella di genere, però, smaccatamente erotica, tipo Sade, Miller, Nin, Bataille... ma la Letteratura maiuscola, quella che si studia a scuola e che nessuno si sognerebbe di “vietare ai minori di”, considerandola a torto più polverosa che pruriginosa, quando invece è zeppa di zozzerie e sensualità.

Romeo e Giulietta, ad esempio, è stato ristampato da Mondadori tra gli Oscar per ragazzi, dai 12 anni in su, ma è una miniera di doppisensi e oscenità: «Datemi una guaina per metterci dentro il mio viso», dice Mercuzio parlando d’amore, non proprio cortese, e tessendo le lodi della regina Mab, «che se trova supine le ragazze le costringe all’abbraccio».

Dal Bardo il minimo che ci possa aspettare è la malizia, il massimo (forse) la zoofilia, come Titania nel “Sogno di una notte di mezza estate”, che si eccita per un tizio orribile con la testa di asino. Tutto è travestitismo in Shakespeare, non solo perché gli interpreti erano uomini. Nella “Dodicesima notte”, addirittura, il gioco è al quadrato: l’attore protagonista, infatti, recita la parte di una ragazza, Viola, che a sua volta si camuffa da ragazzo e seduce un’altra donna. Degli scandalosi e ambigui amori adolescenziali racconta anche Frank Wedekind in “Risveglio di primavera”, una «tragedia di fanciulli» più volte censurata perché a risvegliarsi, innanzitutto, è la sessualità, se non la depravazione.

Più convenzionale, benché altrettanto stigmatizzato, è l’amplesso tra adulteri nell’“Amante di Lady Chatterley”: «Quando entrò in lei, Connie sentì su di sé la sua carne nuda... sciogliendola tutta dentro». Oggi diremmo con sufficienza che è “straight”, banale sesso eterosessuale, al massimo un po’ rude e campestre, così come in un’altra opera di David Herbert Lawrence, “La volpe” (Marsilio), o nei “Sillabari” di Goffredo Parise.

Che il matrimonio sia spesso più perverso dell’adulterio lo spiega Tolstoj nella “Sonata a Kreutzer”, laddove la moglie è definita dall’uxoricida «un animale», mentre Balzac, nella “Fisiologia del matrimonio”, sentenzia: «La moglie non è che un’appendice dell’uomo; perciò tagliate, mutilate, rosicchiate. Non fate caso a lamentele, gemiti e sofferenze».

Il Goethe delle “Affinità elettive” è il teorico dello scambismo come scienza esatta: «Pensi a una A che sia intimamente legata a una B; quindi pensi a una C che si comporti analogamente con una D. Ora metta in contatto le due coppie e vedrà A volgersi a D e C a B». Tradotto: all’inizio del romanzo Eduard è sposato con Charlotte e Ottilie viene spinta tra le braccia del capitano. Alla fine, Eduard si innamora di Ottilie e Charlotte del capitano. Interessanti anche le pagine in cui i primi due vanno a letto insieme pensando però ai rispettivi amanti: da quell’unione nascerà un figlio “mostruoso”, con le fattezze dei concubini e non dei genitori!

A Emma Bovary piaceva il sesso in movimento: così almeno ce la descrive Flaubert, mentre viaggiava in carrozza con Léon, tra lo stupore dei passanti e del cocchiere, che «non comprendeva che furore di locomozione spingesse quegli individui a non volersi mai fermare».

On the road, ma questa volta su un treno, è anche il trastullo erotico che Emmanuel Carrère propone alla partner in “Facciamo un gioco”, guidandola in una sessione di autoerotismo: «Allora? È bagnata? Un po’ me lo immaginavo... Quindi hai il diritto di pensare al mio cazzo. Ma senza saltarci sopra. Senza fretta».

A girare sulla giostra, in un perverso tourbillon, sono gli amanti delle “Relazioni pericolose” di Laclos, un concentrato di libertinismo, intrighi, mercimoni e sadomasochismo spinto: «Allora ditemi, o languido amante, le donne che avete posseduto, credete forse di averle violentate?... Per conto mio, una delle cose che mi eccitano di più è un attacco fisico diretto, metodico e rapido», scrive la puntigliosa marchesa de Merteuil.

Protagonisti, loro malgrado, di uno sputtanamento planetario sono i divi del jet-set degli anni 50-60, perfidamente ritratti da Truman Capote in “Preghiere esaudite”, che gli costò l’ostracismo dai salotti americani. Per capire il tenore della parodia bastano poche citazioni, tipo: «Non c’è niente di meglio del pompino per rassodare le mascelle». Memorabile è anche il gossip su Greta Garbo e Cecil Beaton. Lui: «La cosa più penosa dell’invecchiare è la scoperta che i miei genitali stanno rimpicciolendo». Lei: «Ah, potessi dire lo stesso anch’io!».

Del succhiare seni ci parla Joyce nel monologo finale dell’“Ulisse”, per bocca di Molly («Credo che li abbia fatti diventar più sodi lui a forza di succhiarli in quel modo per tanto tempo che mi faceva venir sete lui le chiama tettine»), mentre del succhiare genitali ci raccontano Moravia ne “La vita interiore” («Mi piaceva l’idea di fare con la bocca ciò che si fa col sesso») e Pasolini in “Petrolio”, in cui Karl pratica una fellatio a venti ragazzetti, oltre a masturbarsi in pubblico e ad avere rapporti incestuosi con la madre, le sorelle e la nonna.

Non solo PPP si è occupato di omoerotismo; al di là dei classici di genere come “Il libro bianco” di Cocteau o il “lesbo” “Gamiani” attribuito a de Musset, capolavori sono i romanzi di Jean Genet (il Saggiatore), tra cui spicca “Querelle de Brest”: «Conoscerò la pace soltanto quando mi scoperà, ma in modo tale da tenermi, una volta dentro di me, sdraiato sulle sue cosce, come una Pietà tiene il cadavere di Gesù». Fan della sodomia eterosessuale fu invece Céline, che nelle “Lettere alle amiche” (Adelphi) avverte: «Niente amore senza preservativo, altrimenti da dietro... Attenzione ai bambini e alle malattie».

Maestro di voyeurismo è Proust: nella “Recherche” il narratore scopre il lesbismo spiando da una finestra la signorina Vinteuil e la sua amica, intente ad amoreggiare e a sputare su una foto del padre della prima; poi assiste all’incontro sodomitico tra Charlus e Jupien e, infine, è lui stesso a essere sorpreso mentre si dedica al piacere solitario in gabinetto.

Campioni di feticismo sono Witold e Federico in “Pornografia” di Gombrowicz, libro che, nonostante il titolo, ha poco o nulla di pornografico, ma molto di perverso: i due, infatti, sono irresistibilmente attratti da una coppia di adolescenti, Enrichetta e Carlo, tanto da eccitarsi quando li vedono schiacciare insieme un lombrico e disposti a tutto, anche all’omicidio, pur di farli accoppiare. Altalenante è pure l’attrazione tra Tomáš e Tereza nell’“Insostenibile leggerezza dell’essere” di Kundera: lei «si rifiutava di fare l’amore da dietro», mentre lui «registrava il ripido e stretto cammino della conquista sessuale: la prima aggressione verbale, la prima oscenità che lui aveva detto a lei, tutte le piccole perversioni alle quali lui l’aveva pian piano costretta». Per le orge è meglio darsi alla lettura di Bret Easton Ellis e Michel Houellebecq, da scegliersi in base al numero dei partecipanti: in “Glamorama” ammucchiate a tre (una donna, due uomini), mentre in “Lanzarote” a quattro (due donne, due uomini).

Per un folcloristico Bunga Bunga torna utile Dostoevskij: nelle sue opere c’è tutto, dal sadomasochismo alla prostituzione, dalla sodomia allo stupro. Una versione ante litteram del Bunga Bunga è contenuta nei “Karamazov”, laddove si narra di una festicciola animata da tipacci, musicisti e ragazze alticce quanto discinte, «che divoravano lo champagne con gli occhi» e che, «a mano a mano che si beveva, diventavano un po’ troppo volgari e licenziose. E pure le loro danze: due ragazze si erano vestite da orso, e Stepanida, con un bastoncino in mano, recitava la parte dell’ammaestratore. Gli orsi alla fine si rotolarono sul pavimento in maniera ormai indecente». Tra i più «lussuriosi» della saga ci sono il patriarca Fëdor e il primogenito Dmitrij, uno per cui «si incomincia con l’ideale della Madonna e si finisce con l’ideale di Sodoma... La bellezza è proprio in Sodoma... Amavo la depravazione e la vergogna della depravazione. Amavo la crudeltà». I due sono rivali in amore, chiamiamolo così, nel contendersi Grušen’ka, donna dai modi espliciti e dalla lingua infuocata: «Da ora in poi sarò la tua schiava! Picchiami, tormentami, fa’ di me quel che vuoi... Oh, io merito di soffrire».

Che dire poi dei “Demòni”, «gente dedita alla più bestiale lussuria? È vero che lo stesso marchese de Sade avrebbe potuto imparare qualcosa da lei? È vero che lei seduceva e pervertiva bambini?», chiedono a uno della combriccola, mentre un altro, Stavrogin, con i bambini ci era andato davvero: lo confessa lui stesso in un capitolo censurato. Stavrogin (che sposa una zoppa, altra perversione) racconta come ha sedotto Matrëša, «quattordici anni, ancora una bambina nell’aspetto... Mi cinse il collo con le braccia e cominciò a baciarmi furiosamente», ma, alla fine, a violenza avvenuta, si impiccherà.

Dei rapporti tra Humbert Humbert e Lolita non è dato sapere molto: ci provò, anni fa, Pia Pera a ricostruire gli abusi nel “Diario di Lo”. Nabokov dice del suo prim’attore che era «ingenuo come sanno esserlo solo i pervertiti». Qua e là, tuttavia, spunta qualche descrizione dell’amplesso: «Dopo essermi saziato di lei, la prendevo tra le braccia con un muto gemito di umana tenerezza... e al culmine di questa tenerezza umana, angosciata, altruistica, tutto d’un tratto, ironicamente, orribilmente, la lussuria si gonfiava di nuovo, e “oh, no” diceva Lolita con un sospiro rivolto al paradiso, e tutto andava in pezzi».

Nel 1956, un anno dopo la pubblicazione di “Lolita”, Nabokov aggiunse una sardonica postfazione: «Che il mio romanzo contenga varie allusioni agli impulsi fisiologici di un pervertito è verissimo. Ma dopotutto non siamo bambini, non siamo delinquenti minorili analfabeti, né collegiali inglesi che dopo una notte di baldorie omosessuali devono subire il paradosso di leggere i classici in edizione espurgata».

Purgata fu invece Marguerite Duras, espulsa dal Partito comunista con l’accusa di «reputazione di ninfomane e donna di facili costumi»: anche lei si cimentò con il tema della pedofilia, affabulando nell’“Amante” la storia (autobiografica) tra una quindicenne e un giovane uomo cinese, «innamorato in modo abominevole. Prima c’è il dolore. Poi quel dolore viene sopraffatto, trasformato, portato verso il piacere». La situazione è ribaltata in “Occhi blu capelli neri”, dove la liaison si consuma tra un ragazzotto e una donna adulta, riferimento all’ultima relazione della Duras con un toy-boy bisessuale di nome Yann.

Stuprata da adolescente è pure Séverine della “Bestia umana” di Zola, che diventa amante del protagonista Jacques. I due vivono una passione brutale: «Si possedettero, ritrovando l’amore in fondo alla morte, nella stessa dolorosa voluttà delle bestie che si sventrano quando sono in calore». A lui, ogni volta che va a letto con qualcuna, piglia la fregola di ammazzarla: «Possedere e uccidere si equivalevano?».

Se il sesso è foriero di morte lo è anche di resurrezione: così lascia intendere Saramago nel “Vangelo secondo Gesù Cristo”, quando descrive un amplesso sacro quanto profano. «Dio, che è dappertutto, era anche lì, ma non poteva accorgersi come la pelle dell’uno sfiorasse quella dell’altro, come la carne di lui penetrasse quella di lei, e forse ormai non era più lì quando il seme sacro di Giuseppe si riversò nel sacro interno di Maria».

Di sesso, insomma, si è sempre parlato e sempre si è scritto, in tutta la Storia della Letteratura: non è un genere a sé, né una conquista dell’altroieri, né un argomento a uso e consumo dei soli pornografi, pornodivi e youporner vari. Perciò, smettiamola di fare «Molto rumore per nulla», che, poi, quel «nulla» sta per le pudenda femminili: ovvio, è Shakespeare.

venerdì 21 luglio 2017

Gli Arditi

Antonio Carioti - Corriere della Sera
I difensori austro-ungarici del Monte San Gabriele, un’altura di 646 metri a nord est di Gorizia, ritenevano di occupare una posizione inespugnabile. A lungo gli attacchi italiani erano falliti. Ma il 4 settembre 1917 i militari asburgici dovettero fronteggiare un nemico insolito: soldati agili e veloci, con le mostrine nere, che li colpirono all’improvviso con bombe a mano, pugnali e lanciafiamme, penetrando nei fortini e bloccando le gallerie scavate nella roccia. Poi, anche se isolati, respinsero i contrattacchi austriaci fino all’arrivo dei rinforzi. Erano gli arditi, le nuove truppe d’assalto che già erano entrate in azione un paio di settimane prima, ma quel giorno colsero un successo davvero eclatante.

L’idea era venuta al colonnello Giuseppe Bassi, confortato dal generale Francesco Saverio Grazioli e dal comandante della 2ª Armata, Luigi Capello. Creare reparti scelti duramente addestrati, dal forte spirito di corpo, votati ai colpi di mano contro postazioni ben munite. «Di fronte alle difficoltà della guerra di trincea, tutti gli eserciti costituirono unità specializzate per attaccare e occupare di slancio le prime linee nemiche, aprendo la strada all’avanzata della fanteria. Gli arditi divennero un mito sia per le loro azioni vittoriose, sia per l’atteggiamento entusiasta, che impressionava la stampa, in una situazione nella quale il morale delle truppe era in genere basso», dice al «Corriere» lo storico Giorgio Rochat, autore del testo di riferimento Gli arditi della Grande guerra(Feltrinelli, 1981; Libreria Editrice Goriziana, 1990).


Culla degli arditi fu il campo scuola di Sdricca, nel comune di Manzano (Udine). Qui si svolgerà una cerimonia per il centenario dei reparti d’assalto il 29 luglio, data in cui nel 1917 si tenne una esercitazione, davanti al re, al principe di Galles e al comandante supremo Luigi Cadorna, che viene considerata una sorta di battesimo degli arditi.
«L’arditismo crebbe in fretta: all’inizio erano tutti volontari, poi le varie unità ebbero l’ordine di dare una quota di uomini ai reparti d’assalto», ricorda Roberto Roseano, autore del romanzo L’ardito (finalista al premio Acqui) e, con Giampaolo Stacconeddu, del volume enciclopedico Arditi decorati e caduti 1917-1920. «Durante la guerra — prosegue — sorsero 34 reparti d’assalto per un totale di 30-35 mila uomini, cui vennero attribuite 3.625 decorazioni, tra le quali 20 medaglie d’oro e 1.510 d’argento. I caduti per i quali ci sono dati sicuri furono 3.145, più molti altri incerti. Circa il 10 per cento: un elevatissimo tributo di sangue».


Eppure, osserva Roseano, gli arditi erano oggetto d’invidia: «La loro condizione era privilegiata rispetto agli altri militari. Pagati di più, godevano di un vitto migliore, dormivano nelle baracche e non nelle trincee, non dovevano marciare con il pesante zaino, perché erano trasportati con i camion, ed erano esentati da servizi come quello di guardia. L’uniforme era più comoda, con il bavero aperto, per facilitare i movimenti. E la disciplina meno rigida, con un’estrema confidenza tra ufficiali e soldati. Anche da questi fattori derivava la superiore combattività».


Ma nell’autunno 1917 gli arditi se la videro brutta. «In seguito alla rotta di Caporetto — nota Roseano — molti s’immolarono per coprire la ritirata, specie davanti a Udine. Solo 1.700, su circa 5 mila effettivi, riuscirono a passare il Piave. Poi però il 28-29 gennaio 1918 gli arditi furono protagonisti della battaglia dei tre monti, sull’altopiano di Asiago, prima azione italiana di rilievo dopo la disfatta».
Mesi dopo scattò l’ultima offensiva nemica. Il 15 giugno 1918 gli austro-ungarici, nella zona del Grappa, erano giunti alle soglie della pianura veneta, occupando l’altura detta Col Moschin. E a ricacciarli indietro, con un’azione folgorante, fu il IX reparto degli arditi. «Operarono nelle condizioni ideali – osserva Rochat – per far valere le proprie doti, prendendo in contropiede e travolgendo un nemico in fase di avanzata. Quando invece dovevano attaccare posizioni solide e ben trincerate, subivano spesso perdite terribili».
Dall’impresa del Col Moschin, a cui è intitolato l’attuale reggimento degli assaltatori paracadutisti, parte il recente libro Arditi contro (Mursia) di Andrea Augello, senatore di ascendenza missina, dove si parla del successivo protagonismo politico di quei combattenti nella realtà di Roma: «Gli umori antiparlamentari del 1919 — ricorda Augello — trovarono un terreno fertile tra gli arditi. Uno di loro, il poeta futurista Mario Carli, fu il primo a usare il termine “casta” per squalificare la classe dirigente. Indisciplinati, spesso di estrazione sovversiva, gli arditi furono sciolti dopo la Grande guerra dall’esercito, che li considerava una mina vagante. Ma anche se la loro simbologia venne ereditata dal fascismo, tramite soprattutto Gabriele D’Annunzio, a lungo molti oscillarono tra destra e sinistra, cullando sogni insurrezionali un po’ ingenui di stampo ottocentesco».
Tra questi spicca Argo Secondari, ex ufficiale, che nel 1921 creò a Roma gli «arditi del popolo» in funzione antifascista. «Quell’esperienza — spiega Andrea Staid, autore del saggio Gli arditi del popolo (Milieu) — ebbe un grande successo iniziale, ma venne osteggiata dalla sinistra ufficiale: i socialisti preferivano il riformismo non violento, i comunisti non ritenevano affidabili gli arditi del popolo sul piano rivoluzionario. Poi venne il patto di pacificazione del 1921, che metteva al bando i gruppi paramilitari e fu utilizzato con grande severità contro gli arditi del popolo da una polizia ben più indulgente verso le camicie nere». 
Allora come definire il rapporto tra arditi e fascismo? «La loro irrequietezza — risponde Rochat — poteva trovare sbocchi di ogni tipo, ma la nullità politica dei loro leader consentì al fascismo di egemonizzarne la maggioranza. Lo spontaneismo ribelle dei reparti d’assalto mal si conciliava però con la logica gerarchica e burocratica del regime. Infatti non ci furono arditi nella Seconda guerra mondiale».

La borsetta della regina

Da “Brightside”

Vi siete mai chiesti perchè la Regina Elisabetta II porta sempre quella borsetta in pubblico? Secondo la biografa dei reali Sally Bedell Smith, lì dentro c’è sempre uno specchio, un rossetto una penna, degli occhiali da lettura e delle mentine. Di domenica, ci aggiunge un paio di banconote per le donazioni in chiesa.

Comunque Sua Maestà usa questi accessori più che altro come un segnale. Ad esempio, se passa il borsello da una mano all’altra durante un incontro, significa che intende terminare la conversazione. A quell punto uno del suo staff si avvicina e dice qualcosa tipo: «L’arcivescovo di Canterbury vorrebbe parlarle».

Se la Regina mette la borsa sul tavolo, vuole che l’evento finisca entro cinque minuti. Se la mette a terra non ha piacere a proseguire la conversazione. Il gesto più forte è quando gira l’anello fra le dita, significa che deve essere immediatamente salvata. Se non fa nessuno di questi segnali, significa che gradisce la compagnia. 

giovedì 20 luglio 2017

Tomasi di Lampedusa

Stenio Solinas - il Giornale
Occhio alle date. Sessant'anni fa muore Giuseppe Tomasi di Lampedusa, due anni dopo il suo Gattopardo, pubblicato postumo, spacca in due la società letteraria dell'epoca e vince lo Strega. 
Erano quelli gli anni dei fatti d'Ungheria, si registrava il primo decennio post bellico, alla lira veniva assegnato l'oscar per la moneta più stabile e di lì a poco l'Italia avrebbe festeggiato il centenario della sua unità. Dibattere su progresso e regresso, conservazione e rivoluzione, ovvero, e semplificando, essere pro o contro quel romanzo in un'ottica ideologico-politica aveva in fondo la sua ragione d'essere.
Come spesso succede da noi, l'ineffabile mondo della sinistra culturale d'allora, che del Gattopardo aveva negato e/o svilito il valore artistico sulla base che si trattasse di un romanzo di destra, nel giro di poco ne magnificherà la versione cinematografica in quanto di sinistra: la regia era di Luchino Visconti e dietro l'opera c'era l'imprimatur e la benedizione del Pci.
Di questo trasformismo intellettuale all'italiana, chi ne ha voglia può leggersi tutti i particolari nel libro esemplare di Alberto Anile e Mara Gabriella Giannice, Operazione Gattopardo, uscito per le edizioni Le Mani quattro anni fa e nel quale c'è anche un puntuale resoconto delle polemiche intellettuali intorno al romanzo stesso.
Sessant'anni dopo, Giuseppe Tomasi di Lampedusa è considerato senza se e senza ma un grande scrittore e Il Gattopardo un monumento letterario del Novecento e bene fa Maria Antonietta Ferraloro a dedicargli questo L'opera-orologio (Pacini, pagg. 80, euro 12) analisi puntuale e documentata del suo meccanismo interno, il suo solidarismo e la sua filosofia della storia, il bestiario che lo attraversa, l'elegia memoriale e il tradimento della letteratura di genere, il cosiddetto romanzo storico compiuto dal suo autore.
Bene fa anche l'autrice a definire il romanzesco «se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi» del nipote Tancredi allo «zione» principe di Salina, «parole fra le più citate, vituperate e fraintese della nostra storia letteraria recente». Anche perché l'assunto del Gattopardo è un altro, «il tutto sarà lo stesso mentre tutto sarà cambiato», in peggio, naturalmente, che è la riflessione del principe e che è poi quanto è avvenuto in Sicilia e in Italia. Restando nel campo della letteratura, quello Strega del 1959 vide il Gattopardo vincere su La casa della vita di Mario Praz e Una vita violenta di Pier Paolo Pasolini e esclusi dalla cinquina erano stati Primavera di bellezza di Fenoglio, Il ponte della Ghisolfa di Testori, Il povero Piero di Campanile. Avete presente lo Strega d'oggi?
Sessant'anni dopo, dunque, siamo tutti consapevoli che Il Gattopardo è un classico e imprigionarlo nella gabbia delle ideologie ha poco senso. Ma sappiamo anche che quell'accusa di essere un romanzo di destra dimostra la miopia della sinistra d'allora, tanto più colpevole perché ne indica la sostanziale incomprensione di che cos'era stata e di che cos'era divenuta l'Italia, inescusabile per una classe intellettuale che si professava militante, moderna e progressista. Il letterato Tomasi di Lampedusa, che di professione «faceva il principe», come aveva dichiarato a un giovane giornalista perplesso, vedeva in realtà più lontano e con più lucidità di tutti quegli intellettuali impegnati che quella realtà si ostinavano a spiegare senza però conoscerla.
Raccontando l'Italia del 1860, Lampedusa in realtà ci metteva di fronte a quella di un secolo dopo, che ne aveva ereditato tutti i difetti senza nemmeno preoccuparsi di correggerli: fallimento nel selezionare la classe dirigente, fallimento del potere liberale nel costruire una narrazione nazionale, mancanza di prospettive di lungo termine, vittoria dell'accomodamento sulla serietà. Il suo non era il lamento di un aristocratico decaduto o di un nostalgico nei confronti del tempo andato, era l'amarezza di un italiano di fronte al fallimento di una nazione.
Sessant'anni dopo, il paragone è ancora più avvilente, una decadenza alimentatasi nel suo aver continuato a scambiare il cinismo e la furbizia per intelligenza, l'arrivismo e il trasformismo per progetto politico. L'età del boom ci sembra oggi una mitica età dell'oro e insomma si è arrivati al punto di rimpiangere la Seicento. Occhio alle date. «Tutto questo non dovrebbe poter durare; però durerà, sempre; il sempre umano, beninteso, un secolo, due secoli..; e dopo sarà diverso, ma peggiore. Noi fummo i Gattopardi, i Leoni: chi ci sostituirà saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti, gattopardi, sciacalli e pecore continueranno a credersi il sale della terra». Un profeta, Tomasi di Lampedusa, oltre che un grande scrittore.

mercoledì 19 luglio 2017

Malaparte e il Duce

Estratto dal libro “Muss” di Curzio Malaparte pubblicato da la Verità

Per gentile concessione della casa editrice Passigli, pubblichiamo un testo di Curzio Malaparte sulla morte di Benito Mussolini. I brani sono tratti da un capitolo inedito e incompiuto che avrebbe dovuto far parte del libro Mamma Marcia e che viene ripubblicato nella nuova edizione di Muss. Ritratto di un dittatore. Il volume arriva in libreria proprio nel pieno del cancan mediatico sulla memoria del fascismo

Giaceva supino sul marmo, le mani distese lungo i fianchi, gli occhi aperti. Lo avevano già spaccato, esplorato, vuotato, ricucito. Era come un sacco vuoto, un otre vuoto. Una forma di pelle vuota. Non aveva più né il cuore, né il fegato, né i polmoni, né gli intestini, più nulla. La testa era stata svuotata del cervello con cura meticolosa, come si vuota il guscio di un' aragosta. Il suo viso era di un pallore quasi bianco. E qualcosa di nero era negli occhi aperti. Mi avvicinai, lo guardai negli occhi. Tremavo così forte, che dovetti appoggiarmi alla tavola di marmo.

Non avevo mai visto, prima di quel giorno, prima di quel momento, uno sguardo morto.
Non dico gli occhi, ma lo sguardo. Non gli occhi, ma quel che v' era dentro. Avevo sempre creduto prima di allora che lo sguardo fosse qualcosa di impalpabile, una luce, uno splendore, un riflesso. Un moto dello spirito. In quel momento scoprii che lo sguardo è qualcosa di materiale, un po' di materia viva. Era uno sguardo morto, un po' di materia morta, rimasta in fondo agli occhi.

Era il suo sguardo intenso, profondo, il suo sguardo di quando era vivo, ma fermo, freddo, coagulato in fondo alle orecchie, fermo e fissato per sempre. Mi guardava come quando era vivo, ma senza batter le ciglia, senza muovere gli occhi.
Era il suo sguardo che riguardava, non i suoi occhi. Avrei forse potuto togliere, con un cucchiaio, quello sguardo dal fondo delle orbite, riporlo in un po' di carta, portarmelo via.


Non era rimasto, in tutto quel corpo vuoto, che quel suo sguardo morto, quel suo sguardo straordinariamente intenso, profondo, fermo.
Mi guardava come mi aveva guardato tante volte, da vivo.

Con quella sua eterna domanda in fondo agli occhi, quella sua continua meraviglia, quella sua sottile paura. Quel suo disagio. Quella sua timidezza, talvolta dolce, femminea, talvolta dura, volgare. Era quello il suo sguardo. Lo sguardo più straordinario, più meraviglioso, che l' Italia avesse avuto per tanti anni, per tutti gli anni in cui egli aveva guardato in faccia gli italiani.

Nessuno, né gli infermieri, né i periti settori che lo avevano tagliato, frugato, svuotato, ricucito, né i custodi dell' obitorio, né i medici militari americani che erano andati all' obitorio a prendere il suo cervello, a riporlo nella teca ad aria condizionata, per spedirlo in America, nessuno aveva osato chiudergli gli occhi, toccargli le palpebre, avvicinare la mano a quello sguardo, a quel po' di materia morta che splendeva così meravigliosamente in fondo alle sue occhiaie. Era uno sguardo che faceva ancora paura. Non perché fosse cattivo, o severo, ma per la sua straordinaria fermezza, per quella sua fredda, dolcissima serenità. Per quella sua pazienza.


Nessuno aveva mai guardato gli italiani come li aveva guardati lui, da vivo.
Nessuno aveva mai saputo guardarli in faccia così serenamente, pazientemente.
Con un tale affettuoso rammarico. Era lo sguardo di un italiano che conosceva gli italiani.

Che sapeva che cosa sono gli italiani. Che conosceva il segreto del popolo italiano, di ogni italiano. Che conosceva il proprio segreto. Che sapeva fin dal principio, fin da quel giorno dell' ottobre del 1922 in cui il suo orologio si era fermato, quale sarebbe stata la sua fine.

Egli aveva avuto sempre, anche nei giorni più felici, il sospetto della sua fine. Sapeva da che parte gli sarebbe venuto il colpo. 
Quale mano gli avrebbe frugato nelle tasche. Quale tipo d' uomo lo avrebbe ammazzato. Da quale casa, da quale famiglia, da quale strada, da quale città, da quale folla, sarebbe uscito l' uomo che gli avrebbe sparato. Aveva sempre saputo che sarebbe finito in quel modo. Non per mano di un avversario aperto, leale, ostinato, ma di un piccolo uomo, di un essere insignificante, di un ragioniere ladro, di un povero imbecille, di un povero vigliacco.

Un giorno mi aveva domandato qual era lo scrittore italiano che aveva mostrato di conoscere meglio il popolo italiano.

«Dino Compagni», gli avevo risposto. Mi aveva domandato perché. Gli dissi per quel sospetto che Dino Compagni aveva dei suoi concittadini, e per quel suo rammarico che Corso Donati fosse stato ammazzato non da un italiano, ma da un «soldato straniero», da un catalano, sgariglio, con «lancia catelanesca nella gola», e per quella sua sentenza «cosa fatta capo ha».

Mussolini mi rispose che era una sentenza bellissima. E poi aggiunse che avrebbe preferito di morire per mano italiana che per mano straniera, benché fosse sicuro che non sarebbe stato un Bruto colui che lo avrebbe ammazzato, ma un uomo da niente. Aveva sempre sospettato quale sarebbe stata la sua fine, e più sospettava nei giorni del suo trionfo.
Non s' era mai fidato di alcuno.

E non perché non si fidasse degli italiani, ma perché sapeva che lo avrebbero ammazzato a tradimento, in modo che nessuno avesse potuto soccorrerlo, né difenderlo. Mi curvai a guardarlo negli occhi.
tutto vuoto Non c' era più nulla in quel suo corpo vuoto, in quella sua testa svuotata del cervello. Più nulla, tranne quel suo sguardo fermo, sereno, paziente. Io gli dissi a voce bassa «povero Muss» e pensai a mia madre. [...] Mi guardava come mi aveva guardato tante volte da vivo.

Ed io mi pentii, mi vergognai di non aver più cercato di vederlo, di parlargli, da quando mi aveva messo in prigione. Era dal 1932 che non lo vedevo da vicino, che non gli parlavo. E arrossivo di quel mio stupido orgoglio che mi aveva sempre trattenuto dal chiedergli di vederlo, di parlargli, dopo che ero uscito di prigione. Da tredici anni non lo avevo più visto, non gli avevo più parlato. «Povero Muss» gli dissi, con la voce stessa di mia madre. [...]

Mi guardava sereno, paziente, affettuoso. Che m' importava se aveva sbagliato, se aveva commesso errori crudeli e stupidi, se aveva portato l' Italia alla rovina? Non m' importava più nemmeno che avesse fatto piangere mia madre. Quel che m' importava, era che fosse un vinto, che tutti lo avessero rinnegato, che lo avessero ammazzato come un cane, e appeso per i piedi, e coperto di sputi e di orina, in mezzo agli urli feroci di un' immensa folla che fino a pochi giorni prima lo aveva applaudito, gli aveva buttato fiori dalle finestre.


Lo avevo visto appeso alla tettoia del distributore di benzina, in piazzale Loreto, in mezzo a quella sudicia folla, a quella folla di vigliacchi che lo insultava e lo sporcava di sputi, con i pompieri che ogni tanto, col getto delle pompe, lo lavavano degli sputi e del sangue e delle immondizie che la folla gli gettava addosso, nell' aria afosa piena di un terribile odore di sporcizia e di morte. Non m' importava nulla che avesse sbagliato, che avesse coperto l' Italia di rovine, che avesse trascinato il popolo italiano nella più atroce miseria. Mi dispiaceva per tutti gli italiani, ma non per quella sudicia folla. E se anche quella folla di vigliacchi fosse stata composta di milioni e milioni d' italiani, non mi sarebbe importato nulla. Mi avrebbe fatto quasi piacere pensare che quella sudicia folla aveva quel che s' era meritato.

Era una folla non di vittime innocenti, ma di complici. Non m' importava nulla che quella sudicia folla avesse le case in rovina, le famiglia disperse, e fosse affamata, poiché una simile folla se l' era meritato. Tutti erano stati suoi complici.

Fino all' ultimo. Anche quelli che lo avevano combattuto erano stati suoi complici fino al momento della disgrazia. Non m' importava nulla che fosse stata la fame, la paura, l' angoscia, a mutar quella folla d' uomini in iene vili e feroci. Qualunque fosse la ragione che aveva mutato quella folla in  una sudicia turba che l' aveva spinta a sporcare di sputi e di feci il suo cadavere, non m' importava nulla. Ero in piedi sulla jeep, stretto tra quella folla bestiale. Cumming mi stringeva il braccio, era pallido come un morto, e mi stringeva il braccio.
Io mi misi a vomitare.
Era l' unica cosa che potessi fare. Mi misi a vomitare nella jeep, e Cumming mi stringeva il braccio, era pallido come un morto e mi stringeva il braccio.


«Povero Muss» dissi a voce bassa, appoggiandomi con le due mani alla fredda tavola di marmo. V' era nella sala dell' obitorio un silenzio strano, freddo, liscio e freddo. Un silenzio fatto della pelle fredda e liscia di un cadavere. A un tratto udii un suono di voci lontane, uno strepito di passi nel corridoio, una porta che sbatteva chi sa dove. Non c' era nulla di vivo in quella stanza, nulla, neppure una mossa, neppure il ronzio di una mosca. [...] Nulla di vivo, di tiepido.

Soltanto allora mi accorsi che il cadavere era nudo. Mi sentii arrossire. Non osavo guardare le sue nudità. Era un pudore strano. [...] Mi pareva di mancar di rispetto a quel morto, di fargli ingiuria. Sollevai lentamente una mano. Mussolini mi guardava fisso, con quel suo sguardo sereno, paziente, senza rancore, uno sguardo un po' triste, di quella stessa tristezza che è negli occhi degli uomini e degli animali morti, degli uomini, e dei cani, dei cavalli morti. Sollevai lentamente la mano, l' accostai al suo viso. 


Sapevo che avrei spento per sempre quel suo sguardo meraviglioso, che avrei accecato per sempre quegli occhi così sereni, così nobili. Sapevo che il mio era un atto di pietà, non di paura. Non avevo paura del suo sguardo. Ma avrei dato la mia vita per non dover compiere quel gesto definitivo, per non doverlo accecare, per non dover accecare ognuno di noi, ogni italiano. Lentamente gli avvicinai la mano al viso, gli cercai le palpebre, feci forza con la punta delle due dita. Pareva che resistesse. Mi guardava fisso, con quel suo sguardo sereno. Feci forza, quasi gli strappai le palpebre umide di sotto l' arco dell' orbita, lentamente gli chiusi gli occhi, spensi per sempre quel suo sguardo sereno e buono. E di colpo, il buio invase la stanza.

Che m' importava se negli anni del suo governo l' Italia era diventata una buffonata, un paravento cinese sul quale erano state dipinte scene di battaglia e di trionfo, corone cesaree e trofei di vittoria, Ercoli gonfi di muscoli sotto cieli tumultuanti di nuvole alla Tiepolo, un paravento per nascondere un bidè? L' Italia, più o meno, era sempre stata così: un mucchio di retorica, una folla di eroi osannanti, di oratori graeculi eloquenti un labirinto d' intrighi e di corruzione. Sempre. [...] L' Italia è sempre stata così. Una minoranza di gente seria, scontenta, delusa, di fronte a un popolo in miseria, nell' ignoranza, curvo sotto una banda d' ignobili profittatori, di cortigiani, di traditori, di vigliacchi, di sbirri e di preti, di bravi e di spie.

Coloro che si indignavano delle miserie e ipocrisie e soprusi e violenze e corruzioni del tempo di Mussolini dimenticavano che quelle miserie ci son sempre state, in Italia. E se ne indignavano solo perché eran commesse in nome di Mussolini, ma al tempo stesso andavano rammemorando i tempi di Giolitti o di Orlando o di Nitti, o di Zanardelli, come tempi di onestà e di giustizia, dimenticando che fra quelli e i tempi di Mussolini la differenza era soltanto nel nome e nei pretesti.

Ma quel che più dava fastidio ai laudatori dei tempi passati, dei tempi della «cara piccola onesta proba giusta Italia», era l' affetto del popolo per Mussolini, affetto di cui non aveva mai goduto nessuno degli uomini politici di quella cara piccola onesta proba giusta libera Italia. Forse il popolo italiano era in errore, forse mentiva.

Un paese e la peste

Tutto cominciò con un pezzo di stoffa. Quello che ricevette, insieme ad altri tessuti, George Viccars, il sarto del villaggio di Eyam, nel Derbyshire. Aveva notato che era umido e allora, per asciugarlo, lo stese di fronte al suo caminetto. Il disgraziato non si era accorto che, all’interno, si era creata una nidiata di pulci. E insieme alle pulci c’erano i batteri della peste bubbonica.
Fu così che, nel 1666, il paesino di Eyam venne colpito dalla Morte Nera. Il primo a cadere fu proprio Viccars. Poi il contagio cominiciò, insieme al panico, a spandersi per tutto il borgo. I cittadini, vista la mala parata, erano già pronti a partire. Ma i due pastori locali, William Mompesson e Thomas Stanley, decisero di intervenire. Fu una decisione difficile, sia da prendere che da accettare, ma con la loro autorità riuscirono a convincere i loro compaesani che la cosa migliore da fare non era fuggire, ma restare. E chiudersi dentro, fino a quando la pestilenza non fosse finita. Era il loro dovere di cristiani, dicevano, fermare il contagio. E se il prezzo da pagare era alto, lo avrebbero pagato. Dio, poi, avrebbe saputo ricompensarli.
Nonostante tutto, i compaesani furono convinti e rimasero a Eyam. Il paese tagliò ogni comunicazione con i vicini: nessuno poteva uscire e nessuno poteva entrare. E mentre all’interno le persone morivano come mosche, dalle campagne venivano mandati viveri, acqua e beni di prima necessità. Li lasciavano sul pavimento dell’ingresso e prendevano i soldi da un pozzo riempito di acqua e aceto (per disinfettarlo).
L’auto-sacrificio, come tutti sapevano, ebbe davvero un prezzo altissimo. Dei 350 abitanti originari, ne rimasero vivi solo 90. Proporzioni in realtà normali, quando si parla di peste. In quell’anno di peste, nessun nucleo familiare fu risparmiato. Morì anche la moglie di Mompesson, il sacerdote che chiese a tutti di restare. Ma quando la malattia smise di colpire, l’obiettivo era stato raggiunto: il contagio era stato bloccato e la peste, in un certo senso, beffata. Grazie alla generosità, estrema, di un paesino di poche centinaia di abitanti. Loro malgrado, furono eroici davvero.

lunedì 17 luglio 2017

La cavalleria in battaglia

Emanuele Trevi per il Corriere della Sera – La Lettura

Tutti gli scrittori di argomenti bellici, che siano romanzieri o cronisti, poeti o storici, dovrebbero, prima di mettersi all' opera, meditare profondamente sull' episodio iniziale della Certosa di Parma di Stendhal, uno scrittore che la guerra l' aveva sperimentata sulla propria pelle prima che sulla pagina bianca.

Il giovanissimo protagonista del romanzo, Fabrizio Del Dongo, fervente ammiratore di Napoleone Bonaparte, scappa di casa nel 1815 per unirsi alle armate francesi, proprio alla vigilia della decisiva battaglia di Waterloo.

Sembra una mossa inaugurale vincente per una vita all' insegna delle passioni: una fuga dal conformismo sociale e familiare, una di quelle ribellioni che inaugurano un intero destino. Ma l' inesperto Fabrizio aveva sottovalutato una verità che, per essere paradossale, non è meno vera: più noi ci collochiamo nel cuore stesso delle cose, e meno le vediamo.

Gli storici potranno raccontarci la battaglia di Waterloo nei minimi dettagli, come si fa da duecento anni alla ricerca del particolare decisivo che ha risolto l' incertezza dello scontro a favore del duca di Wellington.

Intesa in senso classico, ogni narrazione si avvale di una comoda prospettiva aerea. Fabrizio, invece, vede solo la polvere alzata dai cavalli, il fango, e una serie di dettagli indecifrabili. Poteva restarsene a casa, e ne avrebbe capito molto di più dalle gazzette.

Infaticabile viaggiatore oltre che scrittore coltissimo e raffinato, Stefano Malatesta conosce benissimo questi problemi di rappresentazione. L' avvincente galleria di ritratti di guerrieri e di scene di battaglia raccolta nel suo ultimo libro, La vanità della cavalleria (Neri Pozza), ha il merito (letterario prima ancora che culturale) di rendere evidente ciò che non è affatto evidente.

Dalle battaglie dell' antichità alla Seconda guerra mondiale, collabora all' efficacia del tour de force la brevità imposta dalle originarie misure da articolo di giornale poi trasformato in capitolo del libro. E questo non è affatto un limite: come ci ha insegnato il Borges degli Scritti prigionieri, si può fare dell' ottima prosa impiegando in maniera estetica, se non addirittura poetica, i dannati limiti di spazio.

Se ho a disposizione non più di qualche decina di righe per raccontare (faccio un esempio tra mille pescando in questo libro così ricco) la distruzione di ben tre legioni romane nella selva di Teutoburgo, dovrò puntare su un numero ristretto di particolari circoscritti ma significativi, finendo per somigliare di più al pittore o al regista di cinema che allo storico.

Nel corso di una lunga carriera, Malatesta ha trasformato in modo magistrale la necessità in virtù. Com' è abbastanza evidente fin dal titolo, non sono rari in questo libro gli squarci di ironia o di sarcasmo. Come ogni arte, anche quella della guerra non si può certo definire immune dalla vanità. E come in ogni arte, non è infrequente la presenza attiva della nullità o del raccomandato a fianco del genio.


Per non parlare dei casi di fama del tutto o in parte usurpata (paga il suo dazio, nel libro di Malatesta, anche una figura quasi mitica come Lawrence d' Arabia. E in generale, considerando la situazione della Siria e dell' Iraq, si rimane sconcertati nel constatare come le tragedie attuali affondino le loro radici nelle scelte demenziali di Francia e Gran Bretagna ormai risalenti a un secolo fa).

Non meno della letteratura o della musica, gli eserciti sono anche dei prodotti culturali, riflettono modi di vita e mentalità. Solo una civiltà splendida ma intimamente minata come quella asburgica poteva concepire l' idea di mandare dei soldati in guerra impeccabilmente vestiti di bianco, come se fossero concorrenti di Masterchef . E dunque nei racconti di Malatesta i fili, più prevedibili, del valore e del coraggio si intrecciano sapientemente a quelli dell' imbecillità, dell' arroganza, dell' incapacità di interpretare i segnali più evidenti di ciò che sta accadendo.

Accennavo prima al disastro romano di Teutoburgo (in molti ricorderanno, dai tempi della scuola, il lamento di Ottaviano Augusto: «Varo, Varo, rendimi le mie legioni!»). Ebbene, stando al racconto bene informato del grande e misconosciuto storico romano Velleio Partercolo, così bene messo a frutto da Malatesta, sembra proprio di capire che contarono molto meno il valore e la furbizia del vincitore, il terribile Arminio, della supponenza e della cecità di Quintilio Varo, archetipo dell' idiota al comando, questa figura ahimè eterna della storia umana.

In molte altre storie che ci racconta, Malatesta è abilissimo nel rendere per pochi minuti ancora incerti gli esiti di battaglie che sappiamo benissimo come siano andate a finire. Personalmente, confesso che ogni volta che leggo qualcosa sull' andamento di Waterloo, spero sempre che alla fine Napoleone ce la faccia.

Ma questa è proprio la suprema abilità dello scrittore di cose belliche: rendere incerto anche il risaputo. Non è un semplice trucchetto narrativo: la verità è che non solo le battaglie, ma tutte le cose umane vanno in un modo mentre potevano benissimo andare al contrario. Non c' è nulla di più prezioso da imparare e meditare nella storia delle battaglie, antiche e moderne.

MORIRE

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