lunedì 12 giugno 2017

Suor Forcades

Antonio Gnoli per la Repubblica

 Non si immagina facilmente cosa sia la vita di una suora senza pensare alla condizione in un certo senso di emarginazione in cui per lo più versa. Perciò quando ho incontrato la prima volta Teresa Forcades e l' ho sentita parlare non di Dio ma di uomini e donne, non di anime ma di corpi, non di astinenza ma di sessualità ho provato una sconcertante meraviglia.

Era come se nel ciclo di parole religiose si nascondesse una coscienza concretamente amorosa. Teresa Forcades è una monaca benedettina, di origine catalana. Ha poco più di cinquant' anni e osserva le regole della clausura, con alcune aperture dedicate alla socialità. È medico (ha studiato negli Stati Uniti), teologa (dottorato a Barcellona e a Berlino); si interessa di psicoanalisi e di femminismo.
Come è passata dalla medicina alla teologia?
«Avrei fatto volentieri il medico condotto in qualche piccolo paesino della Catalogna, dove il contatto con la gente è più forte. Ma quando finii l' università ho avvertito un bisogno di raccoglimento.
Per circa un anno mi ritirai solitaria in una casa di campagna».

Come passava le giornate?
«Le ore erano scandite da un ordine semplice: mangiare, dormire, meditare. Avevo con me gli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola. Ma non ero pronta a una vita diversa. Ero giovane, desiderosa ancora di approfondire lo studio della medicina. Preparai così l' ammissione a una università americana. Fui accettata e trascorsi un certo periodo in un ospedale di Buffalo. Sembrava una carriera assicurata.
Ma il destino aveva in serbo altre cose».

Quali?
«Conobbi Elisabeth Schüssler Fiorenza, teologa e femminista cattolica romena naturalizzata americana. Fu lei ad avvicinarmi alla teologia e al femminismo. Ma era complicato tenere insieme l' ospedale e i nuovi interessi. Avevo anche fatto domanda per Harvard e l' università aveva accettato il mio curriculum. Mi ritrovai in una situazione complicata: non volevo rinunciare ai miei studi di teologia».

Doveva scegliere tra la Chiesa e l' Università?
«Più esattamente tra un colloquio finale che mi avrebbe in seguito consentito l' ingresso nei migliori ospedali oppure...».

Oppure?
« In quel periodo, era il 1995, tornai per breve tempo in Spagna, presso il monastero di Montserrat. Ero confusa e inquieta. Ma sentii che quel luogo aveva per me un senso familiare».

Era un monastero benedettino?
«Per monache di clausura. Passai alcune settimane in preghiera. Un giorno la badessa mi convocò dicendomi che aveva saputo dei miei trascorsi di medico, in particolare di esperta di malattie infettive. Chiese se potevo spiegare a lei e alle sorelle cos' era il virus dell' Aids che in quegli anni mieteva molte vittime. Organizzammo l' incontro in un pomeriggio durante il quale volli parlare anche dell' omosessualità e del modo in cui nell' immaginario della gente era passato il messaggio sbagliato che la malattia fosse da attribuire al peccato di essere gay».

Come reagirono le monache?
«Con mio grande stupore benissimo. Ci furono molte domande e la discussione continuò durante la cena. Mi sembrava di aver trovato il mio mondo. Il giorno dopo manifestai alla badessa l' intenzione di entrare in convento. Si mise a ridere. Non se l' aspettava. Dissi convinta che preferivo Monserrat ad Harvard. Lei cercò di frenare il mio entusiasmo. Mi consigliò di andare ad Harvard e, se dopo i due anni di borsa di studio avessi sentito ancora la "chiamata", ne avremmo riparlato».

Il tempo non ha scalfito quella decisione.
«Infatti, nel 1997 presi i voti».

I suoi genitori come reagirono?
«Mio padre era incredulo, mia madre arrabbiatissima. Solo mia sorella appoggiò fino in fondo la decisione. Quanto ai miei amici, quasi tutti mi diedero della pazza. Lasciare la prospettiva di Harvard per il convento era una scelta inconcepibile».

La sua è una famiglia borghese?
«No, mio padre era un agente di commercio e mia madre infermiera. Si separarono che avevo undici anni. Ero la prima di tre sorelle. Un giorno mio padre, mentre ci accompagnava a scuola, ci informò che si era innamorato di un' altra donna».

Lei come la prese?
«Restai in silenzio. Fu una reazione strana. Mi sembrava un gesto enorme ma al tempo stesso temevo per lui».

Che anno era?
«Era il 1977. Il caudillo Franco era morto da un paio d' anni, dopo una lunghissima agonia. La Spagna appariva un Paese immobile. Isolato da tutto. Ricordo che quando nel 1978 con le sorelle e mia madre andammo a Parigi, provai una sensazione di libertà e un' emozione per tutto quello che lì percepivo».

Ha qualche memoria della dittatura franchista?
«In quanto catalani, i miei non erano favorevoli al regime. In famiglia circolava la storia dei due nonni. Quello paterno aveva militato per la sinistra. Quello materno era medico e durante la guerra civile venne arrestato dai repubblicani. Non aveva sentimenti franchisti, ma il fatto che fosse una delle autorità del Paese, convinse i " rossi" che il nonno era un nemico del popolo e come tale andava fucilato».

Ci fu l' esecuzione?
« Mia nonna pianse e implorò il comandante. Consegnò i gioielli di famiglia e disse che aspettava un figlio (era incinta di mia madre) e che se il padre fosse stato fucilato nessuno avrebbe potuto badare al loro sostentamento. Fu questo a salvargli la vita».

Come visse il suo ruolo di novizia?
«All' inizio ci fu entusiasmo. Poi cominciarono i dubbi. Accompagnati da un senso di oppressione, noia, assenza di prospettiva».

Si stava accorgendo della durezza di quei voti?
«Avvertivo il conforto della preghiera e la semplicità di quel mondo, governato da un silenzio armonico. E tuttavia mi sembrava di sprofondare nella disperazione. Era come se non avessi la forza, la convinzione, la tenuta per sostenere quella scelta. Mi chiedevo se Dio mi avrebbe aiutata. Vedevo intorno a me gente felice e provavo per contrasto un senso di profondo disagio».

Aveva capito cosa non andava?
«Non coglievo intorno a me nessuno stimolo culturale. Avevo girato il mondo e discusso con le menti più aperte, imparato lingue. Improvvisamente mi ritrovavo in una specie di calma piatta».

Dubitò della sua vocazione?
«Ero in crisi. Non avevo ancora preso i voti. Accadde in quel periodo che mi innamorassi di un giovane medico. Fu un mettere alla prova i miei veri sentimenti. Dovevo scegliere tra Dio e il mondo. Fu a quel punto che avvertii fortissima l' esigenza di diventare monaca».


Cosa significò essere chiamata? Glielo chiedo perché magari in quella "voce che chiama" ci può essere suggestione, fraintendimento, proiezione di sé. con l'uso delle armi e dell'omicidio.
"Può esserci tutto questo, solo il tempo decide il grado di autenticità di quella voce". Non avverte il peso dell'emarginazione? "Al contrario, mi sento al centro di tutto quel che faccio".

Cosa intende per centralità?
"Non intendo dominio o controllo di un ambiente. Penso semmai a una radicalità senza dogma. Ogni volta che si cerca un centro si cerca un vuoto".

Non rischia di essere un'illusione?
"Immagino il centro non come un principio di stabilità ma di rottura".

Forse occorrono entrambe.
"Stabilità e rottura si possono anche alternare. Come l'ordine e il disordine. La storia lo insegna. Ma penso che la mia vita riposi in un centro invisibile che non si può definire. E che per questo chiamerei esperienza mistica".

Ho letto nel suo "Siamo tutti diversi" (edito da Castelvecchi) che lei riconduce l'esperienza del vuoto al pensiero di Lacan.
"Può sorprendere che una monaca legga Lacan e tragga dal suo pensiero qualche utile suggerimento. Mi sono occupata di psicoanalisi e in particolare della nozione di "soggetto inconscio". Freud sostiene che l'autenticità interiore di una persona sia stata repressa".

Che può dunque essere liberata?
"È il ruolo che dovrebbe svolgere la psicoanalisi. Stiamo parlando di un ideale moderno: liberare le forze dell'uomo! Nel momento in cui si è sostituito a Dio, l'uomo ha sviluppato un desiderio infinito di sé. In teoria pensa di poter fare tutto".

E in pratica? 
"La società, lo Stato, la Chiesa sono le istituzioni che lo opprimono. È così che il soggetto scopre di non avere nessuna autentica interiorità. Ecco perché Lacan dice che l'interiorità è un vuoto e che questo vuoto lo si può rappresentare come la morte del soggetto".

La morte del soggetto viene dopo la morte di Dio?
"Non vi sarebbe quella senza questa".

Eppure desideriamo diventare persone autentiche.
"Nell'orizzonte mondano la nostra identità ci arriva dall'esterno, come i desideri, è indotta. Nell'infanzia è data dal rapporto con la madre. Pensiamo che da questa relazione originaria scaturisca la nostra autenticità. Ma non è così. La madre passa e cerchiamo una nuova identità, che troveremo in qualche altra cosa o situazione. È ciò che spinge Lacan a dire che non c'è nessuna autenticità in noi. Siamo abitati soltanto da un vuoto".

Anche il desiderio è una forma di vuoto?
"Il desiderio che si realizza nel vuoto è appunto ciò che chiamo misticismo. Ma si tratta di un desiderio senza determinazioni".

Il desiderio nasce sempre come una forma di assenza.
"Ma quasi sempre è indotto da ciò che ci manca del di fuori: un paio di pantaloni firmati, una giacca elegante, una macchina fuoriserie. Non è in questo senso che intendo il desiderio. Agostino si era spinto fino a dire che tutti desiderano Dio, ma non tutti danno lo stesso nome alla cosa".

Cosa significa desiderare Dio nell'epoca della sua morte?
"Per me significa difendere la verità".

Tutti sostengono, religiosamente, di volerla difendere, perfin con l’uso delle armi e dell’omicidio.
"Quella non è verità: è soltanto fanatismo. D'altro canto, la verità non può essere un concetto relativo, per cui ciascuno ha la propria brava verità pronta all'uso".

E allora?
"La verità per me è tutto ciò che essa non è. Ma il punto è che occorre argomentare ogni volta questo "non è"". Non si sente una privilegiata? "In che senso?".

Penso alla semplicità delle sue sorelle; al fatto che non posseggono né usano strumenti sofisticati; che non si occupano di filosofia e di omosessualità; che rispettano la clausura.
"Ho molta invidia per le sorelle che vivono permanentemente la loro clausura. Non parlerei di privilegio; ma di una disposizione a compiere alcune azioni. Quanto alla clausura dopo il concilio di Trento fu introdotta quella parziale. La comunità del monastero decide la dispensa, come applicarla e quando revocarla".

Com'è la sua vita nel monastero?
"È divisa in proporzioni uguali tra il lavoro e la preghiera".

Per lavoro cosa intende?
"Svolgo soprattutto un'attività intellettuale: faccio traduzioni, scrivo articoli, insegno. Quest'anno la mia lezione è divisa in due parti: sulla necessità dell'anima, che prende spunto dal libro di Simone Weil La prima radice, e sulla teologia femminista nella storia".

Lei ha parlato di una "teologia queer". Cosa significa?
"Queer è un termine che cominciò a circolare negli anni Novanta. Può voler dire "attraversamento", "passaggio", "transizione". Poi ha preso il significato di bizzarro, strano, stravagante".

È stato ricondotto all'universo transgender.
"È vero e si tratta di una declinazione possibile. Quello che intendo è affrontare una teologia fuori dagli schemi precostituiti. La teologia non è la difesa concettuale dell'esistenza di Dio. Il che potrebbe creare parecchi malintesi. No. È una forma di co-creazione".

Cioè?
"Penso che Dio non si sia limitato a creare il mondo e noi in sette giorni. Co-creazione significa che noi continuiamo a svolgere il suo lavoro con altri strumenti".

Però non siamo perfetti.
"Creare è anche rischiare. Senza il rischio, dice Weil, non c'è libertà. Dio ha creato dei pezzi unici. Sta a noi continuare a esserlo".

Questo vuol dire per lei essere monaca?
"Vuol dire anche questo".

Si potrebbe accostarla a un pensiero eretico.
"Non sono mai stata indottrinata a un cristianesimo conservatore. Per ogni giorno che passa dovremmo essere disposti ad apprendere qualcosa di nuovo".

Non teme la scomunica?
"Sono preparata, non la temo. La scomunica è stata la cosa peggiore del cattolicesimo. Equivale all'ostracismo dei greci".

È felice?
"Lo sono ogni volta che rientro in monastero. Ogni volta che faccio qualcosa che aiuta a trasformarci. Agostino ha detto: " Dio ci ha creato senza di noi, però non ci vuole salvare senza di noi". Felicità è anche questa consapevolezza del nostro essere umani per e con gli altri".

Gillo Dorfles

Estratti del libro “Paesaggi e personaggi” di Gillo Dorfles pubblicati dal “Corriere della Sera”

Fu negli anni del ginnasio che cominciai a nutrire una passione per i libri belli. Un giorno entrai nella piccola libreria antiquaria di via San Nicolò e notai un magnifico esemplare settecentesco del Fedone di Platone. « Cos' ti vol picio?» incalzò da sotto la visiera il proprietario del negozio, che era Umberto Saba.

« No xe roba per ti », proseguì con tono solo apparentemente più benevolo, senza sapere che io ero interessato più all' antica rivestitura di cuoio che al contenuto.
Fu questo il mio primo incontro con il vecchio e celebre poeta. Un uomo che presto si rivelò presuntuoso, nevrotico e poco espansivo, ma attraverso cui ebbi la possibilità di incontrare l' impareggiabile Lina - sua moglie - e la figlia Linuccia, una delle amiche più fedeli della mia adolescenza.

Mi recavo nel loro appartamento cupo e disadorno di via Crispi almeno un paio di pomeriggi a settimana, una delle mie mete preferite. Se Saba tollerava appena la mia presenza, la Lina non ha mancato una sola volta di accogliermi con affetto.

TOSCANINI
(…) 2003 Fu all' inizio degli anni Trenta che conobbi la famiglia Toscanini per una precisa ragione: mia moglie Lalla era stata affidata alla tutela del Maestro dopo la morte precoce dei suoi genitori. Fu così che, nel 1936, in occasione del mio matrimonio, una delle lettere indirizzate ad Ada così suonava: «Domattina Lalla si sposa Walter e Riccardo Polo sono i testimoni - io fungo da padre - l' accompagnerò all' altare Sarà motivo d' intensa commozione per me Che Dio le conceda tutta la gioia che le augura il mio cuore».

Basterebbero queste poche righe a illuminare la profonda affettività di Toscanini e, in un certo senso, a «redimere» alcune eccessive turbolenze erotiche quali risultano da molte altre lettere dense di dettagli intimi e pruriginosi che non mi sembra proprio il caso di menzionare.

Non potevo non citare questo minimo episodio perché spiega come e perché, in quegli anni, avessi potuto conoscere Ada - buona conoscente di mia moglie - e come avessi incontrato più volte tutta la famiglia Toscanini (soprattutto la figlia Wally, provvista di tutto il fascino paterno) e lo stesso Maestro che poi ebbi ancora occasione di ritrovare nella sua villa di Riverdale a New York, dopo il suo favoloso ritorno alla Scala del '46 e quando nuovamente si era stabilito a New York, dove sarebbe poi morto nel 1957.

T.S ELIOT
(…) 2017 Nei primi anni Sessanta, o forse ancora negli anni Cinquanta, sono stato a Londra con mia moglie per un paio di mesi, ospiti dell' Istituto italiano di cultura di Belgrave square.


Avevamo a disposizione un vero e proprio appartamento privato e io dovetti tenere alcune lezioni presso l' università cattolica, sebbene il mio inglese fosse piuttosto approssimativo. Il giorno in cui arrivai all' ateneo mi trattarono però come un cittadino ignoto e per poter entrare dovetti attendere l' arrivo di un responsabile del mio corso.
In quel periodo fui amico di T. S. Eliot, un uomo molto affascinante, molto riservato, però anche molto affettuoso.
Con lui feci parecchi giri della città e non conto le volte in cui andai a trovarlo nel suo istituto. In Inghilterra l' uso dell' istituto privato era molto diffuso.

LLOYD WRIGHT
(...) 1953 Appena raggiunta casa Wright, vedo due studenti che ciondolano davanti alla porta d' ingresso. Uno di loro mi dice balbettando che va a cercare qualcuno. (...
) Le decorazioni della Library sono abominevoli: un pannello cinese moderno sul soffitto accresce l' impressione di chinoiserie del locale. I mobili, dai wrightiani spigoli ottusi, sono del tutto datati e, anch' essi, deprecabili, per non parlare poi dei cuscini (probabilmente opera della moglie di Wright, Olgivanna).

Tutto in giro è duro e scomodo, la porta (con i chiodi a vista) non chiude, a ogni passo si rischia di sbattere la testa contro il soffitto. (...) Poi arriva finalmente anche Wright. Mi tratta con gentilezza, ricordando i nostri incontri di New York e San Francisco. Discutiamo un po' dei casi italiani. Io modero al massimo i miei giudizi, ovviamente sul gusto dell' abitazione e sulle sue (o di sua moglie) decorazioni. Poi gli manifesto la mia ammirazione (sincerissima, ovviamente) per le Praires Houses che ho visitato pochi giorni prima e che mi hanno molto colpito. Non ho bisogno di dilungarmi sull' incredibile spazialità della sua architettura, che mi ha impressionato, per esempio nella Robie House.

Ma il fatto che un genio creatore come Wright manifesti al contempo un gusto così discutibile continua a sconcertarmi. (...) Discuto garbatamente con Wright dell' International Style e del suo rapporto con il razionalismo europeo. «L' internazionalismo è comunismo», dice Wright, «solo in apparenza il Bauhaus ha contrastato il totalitarismo. In realtà ne ha fondato un altro». Il che è abbastanza esatto, anche se il personalismo wrightiano è dittatoriale, mentre il supporto impersonalism miesiano è spesso molto più lirico di quanto non appaia. (...)

domenica 11 giugno 2017

Nino D'Angelo

Malcom Pagani per “Il Fatto Quotidiano”

Il carretto passava e quell’uomo gridava gelati: “Li vendevo alla Stazione di Napoli, ma i soldi finivano molto prima che nella canzone di Battisti. Mi sono sempre sbattuto, fin da ragazzino. Un tempo si era più scugnizzi e sudarsi la giornata non era un problema”.

Oggi, dice Nino D’Angelo: “I diritti sono carta straccia, è diventato complicato anche lavorare e ogni cosa sembra faticosa. La sente la parola fatica? Il suono reca in sé un affanno, una disperazione. L’Italia ha fallito, se l’è mangiata la politica. Credevamo di stare bene, ma ci siamo distratti e la tavola è stata svuotata. Destra, sinistra e centro ce l’hanno messo in culo e oggi l’unica corsa possibile non è più a campà, ma a murì”.

A 57 anni, con la sincerità brutale di chi ha visto il mondo e attraversato decine di esistenze, il cantante di San Pietro a Patierno non ha più desideri per sé: “Io sono un miracolato. Ho guadagnato abbastanza per non volere altro e continuo a trascorrere buona parte dell’anno a Casoria. A cercare storie. Ad ascoltarle da chi è nei guai e non ha niente. Le storie dei ricchi non dicono nulla, mi danno noia e mi fanno addormentare. Non mi trasmettono la vita, ma la morte”.

Prima di vincere il David di Donatello, fare il tutto esaurito al Madison Square Garden e ottenere la patente culturale dai tanti Goffredo Fofi seguiti all’originale, Nino era solo una gialla collina di capelli stampata su dischi venduti e apprezzati soprattutto in periferia: “Napoli è una città molto classista e la sua parte ricca mi disprezzava. I figli di Posillipo e del Vomero, all’epoca, nascondevano le cassette sotto il sedile della macchina perché si vergognavano di me e non volevano farsi scoprire dai genitori”.

  
Era il D’Angelo di ‘nu jeans e ‘na maglietta.
Ho avuto successo con caschetto biondo, pop corn e patatine e quest’etichetta mi rimarrà addosso per sempre. È vero. È accaduto. Ma se vogliamo parlare seriamente di quel tempo, bisogna dire anche che qualche canzone interessante, nel mucchio, c’era.

Non glielo riconoscevano?
Non gliene fregava un cazzo a nessuno. Quel caschetto biondo di capelli, simbolo della Napoli che non contava, non era simpatico a tutti. Mi presentavano come nu guaglione derelitto di Scampia, uno scippatore, un mezzo delinquente. Ma cumm’è ‘stu fatto? Io nu ladro? Ma chi a ditto?

 Nella sua prima canzone, ‘A Storia mì’, lei descriveva la triste parabola di uno scippatore. “No, nun me chiammat ancor delinquent/ stu nomm, dic sul 'nfamità/ sentit, sentit primm tutt 'a storia mì/ e dopp me putit giudicà..."

   Ma nun aggio mai fatto nu scippo e non sono mai stato in galera. Raccontavo una vicenda comune e venivo trattato come un mascalzone. Mi faceva impazzire. Quanto mi sono incazzato su ‘sta cosa.

   Accadeva anche al grande Mario Merola. L’identificazione tra i suoi personaggi e l’uomo per alcuni era totale.
Ma io non volevo essere un semplice gregario. L’erede o peggio l’imitatore di Mario Merola o di Pino Mauro. La canzone napoletana di allora parlava di malavita e di pistole. Anticipava Gomorra di quarant’anni. Rispettavo l’immenso Merola come artista, ma sognavo di primeggiare in un mio genere. Così immaginai una canzone che potesse parlare ai giovani della mia città. Una melodia positiva che trattasse d’amore.

   Fofi gliel’aveva riconosciuto fin dal 1993. “D’Angelo ha avuto il merito di spostare la canzone napoletana dalle atmosfere malavitose alle storie d’amore”.
Ma non venivo dai quartieri alti e nei teatri classici per anni, prima di partecipare a Tano da morire di Roberta Torre, non ho potuto metter piede.

   Le negavano gli spazi per esprimersi?
Suonavo in posti che erano dei veri e propri cessi. Certe città mi erano precluse. A Bari, recentemente, mi è capitato di dirlo anche al pubblico pagante: “Ci ho messo trent’anni ad arrivare in Puglia, per suonare all’Olympia di Parigi e tornare in Italia ho impiegato solo trenta ore”. A Nino D’Angelo, al massimo, concedevano l’Arcobaleno di Secondigliano.

  La critica la spellava, ma non le mancava l’approvazione popolare.
Ho incominciato a interessarmi alla critica quando ho immaginato un salto di qualità. Da ragazzo, degli insulti sui giornali me ne fregavo. Gli articoli che mi riguardavano neanche li leggevo.

Nun aggio mai pensato che volevo diventare chissà chi. Vengo dal nulla, sono figlio di un’ignoranza, di una storia che non sarebbe neanche dovuta iniziare. Di un luogo in cui non puoi essere e devi soprattutto pensare a sopravvivere. A mio padre lo domandavo sempre.


  Cosa gli domandava?
“Perché siamo nati poveri, papà?”. “Perché dobbiamo mangiare la pasta riscaldata del giorno prima?” Sembrava colla quella pasta. Pareva Vinavìl.

   E lui cosa rispondeva?
Che sono forti, i poveri. E che mangiarla era meglio che digiunare. Me l’ha sempre buttata in faccia la povertà, mio padre. Mi portava davanti a una bella bicicletta e mi diceva: “La vedi, Nino? Ecco, questa io non te la potrò mai comprare”. Faceva il calzolaio, papà. Lo scarparo. Nel mio quartiere si costruivano le calzature per i militari. Quando l’industria bellica crollò fu costretto a emigrare a Lecco e andò a fare il muratore.

   Soffriste la partenza?
Lui soffrì molto. Si sentiva umiliato, declassato, disgregato come in quella vecchia canzone di Rino Gaetano. Al ritorno mi portò una fisarmonica e mi commossi nel profondo. Ma il vero regalo, il dono, era averlo tra noi. Vederlo trasire nuovamente int’ a casa. Con mia madre e i miei cinque fratelli affrontavamo un sacco di problemi economici, ma eravamo uniti. Allegri. Quando sei figlio è assai importante quello che succede ‘n copp a te.

   ‘N copp a lei che succedeva?
Sono un ragazzo degli anni 50, di un’età in cui la famiglia somigliava a un monumento. Ci siamo scordati come eravamo, di quanto poco ci bastasse per essere felici, della sorpresa quotidiana che ci portava a essere curiosi: “Che adda succede stammatina?”. Avevamo il divieto di lamentarci per le cose che ci mancavano. Non esisteva proprio, ma che stiamo pazziando? Poi le dico un’altra cosa.

   Dica, D’Angelo.
Eravamo curiosi. Ai nostri eredi abbiamo rubato anche quella dote. Non hanno più voglia di mistero, di scoperta. È ’na cosa troppo grande il desiderio. Non esser più capaci di desiderare niente è ’na tragedia. Non vorrei ripetermi, ma ai miei tempi annoiarsi era impensabile.

   Ancora la povertà.
Ancora la bellezza della povertà, una grande ricchezza. Mi ricordo la prima volta che vidi New York dal finestrino di una macchina. Ero atterrato da poco e scorgevo i grattacieli in lontananza. Mi venne da piangere.

   Perché?
Pensavo ai miei parenti che una cosa così straordinaria non l’avrebbero vista mai. Conobbi il successo. Chiudevo gli occhi e mi chiedevo se era ‘o vero. Al ritorno, con la borsa piena di dollari, rientrai in casa e la gettai in mezzo alla stanza. “Ora putimmo magnà” dissi.

Avevo smesso per sempre di indossare le magliette di terza mano dei cugini, di essere l’ultimo tra gli ultimi. Ero diventato normale, potevo comprare una casa, aiutare i miei genitori. Mi ero liberato dalla disperazione. All’inizio volevo solo cantare e al successo non pensavo. Claudio Villa, un gigante, aveva letto la seconda parte del libro in anticipo: “Statti accuorto, il giorno che dovessero scoprirti sarà un guaio”.

   Poi il successo arrivò. Divenne proverbiale: “Napule tre cose tene ‘e bello: Maradona, Nino D’Angelo e ‘e sfugliatelle”.
Pensavo sarebbe finita presto. Nella mia testa doveva durare poco, mai avrei pensato di essere qui a quarant’anni dall’esordio con i teatri gremiti. Nella tournée che sto affrontando “Concerto anni 80.. e non solo” incontro migliaia di persone. Generazioni diverse. C’è un filo teso tra chi mi seguiva agli inizi e chi ha imparato a conoscermi dopo lo sdoganamento degli anni 90.

   Lei litigava con Emanuele Filiberto, ma piaceva anche a Miles Davis. 
Con il principe eravamo a Sanremo. Portò in gara una canzone che era una vera e propria chiavica. Lo dissi pubblicamente e lui un po’ si risentì. Di Miles Davis seppi per caso. Era atterrato a Palermo e ascoltando un mio brano nel taxi che lo portava in albergo, chiese al guidatore di accompagnarlo a comprare tutti i miei dischi. Alla Vucciria, tra i banchi all’aperto, acquistò alcune cassette di contrabbando.

   Era di contrabbando anche il suo talento? L’ha salvata?
Non sapevo neanche che cazzo fosse ’sto talento. Vivevo alla giornata. Volavo sui miei vent’anni, esattamente come in altri palcoscenici accadeva a Maradona. Lei citava Diego. Ecco, Diego, come il calcio, mi è sempre piaciuto. Lei sa che sono nato lo stesso giorno di Michel Platini, il 21 giugno?

   È noto. Tifoso del Napoli che alla sua squadra dedicava cori anche nella finzione cinematografica.
Me li ricordo ancora. (Qui D’Angelo prende tempo e poi intona una antica canzone da ragazzo della curvaB) “Napoli/Napoli/Napoli/ la mia Napoli/Napoli /Napoli/ ‘a bandiera tutta azzurra ca rassumiglia ‘o cielo/ e o’ mare ‘ e sta città/ rint’all’uocchi e sti guaglioni ca se scordano ‘e problemi e si mettono a cantà”.

   Sempre a Maradona torniamo. Diego negli anni 80 fece dimenticare ai napoletani un mare di problemi.
Avrà le sue contraddizioni, Diego. Ma è un amico e una persona vera. Parla ai poveri e li illumina perché ai poveri, pur essendo diventato miliardario, appartiene. Non se li dimentica. Li difende perché da soli non potranno farlo mai. A chi importa un cazzo dei poveri? Ha visto che aria tira?

   Che vento in particolare?
Se devo dirlo con un parolone mi pare che si respiri un certa xenofobia, ma sempre di razzismo, esclusione, caccia alle streghe o comm ‘u vuoi chiammà si tratta. È qualcosa di strano. L’altro giorno in televisione ne stavano parlando, ma poi non l’hanno spiegato cchiu che era esattamente ‘sto razzismo. Io però lo so. Razzismo è la traduzione moderna di guerra tra poveri. Adesso che in Italia si sente la paura, lo avvertiamo. Ma certe cose non si inventano, se le vedi significa che nelle persone quei sentimenti sono sempre esistiti.

   La guerra tra poveri diceva.
Sugli stranieri si sta armando una strumentalizzazione esagerata. Esagerata proprio. I politici soffiano sul fuoco e vanno a fare passerella nei posti giusti. Sanno che sono gli ultimi voti da raccattare prima che sia tutto finito. E che tutto stia per tramontare, mi sembra evidente. La politica ha la coscienza malata e la gente se ne è accorta. È incazzata. Non sta bene con se stessa, la politica, ma le persone devono capire che i costi degli immigrati non li paga la collettività. Gli immigrati si ripagano da soli.



   Ne è sicuro? Salvini non è d’accordo.
Sicurissimo. Vederli come nemici solo quando ci fa comodo è di una disonestà bestiale. Salvini che si preoccupa del bene dell’Italia è una barzelletta. Questa Lega che va cercando voti dappertutto e con la demagogia sale nelle percentuali, non è la stessa Lega che per vent’anni ha condotto un’ignobile campagna antimeridionalista? Lo stesso partito che oggi fa finta di niente e sbarca a Lampedusa. Ma scherziamo? Chiedessero prima scusa ai campani, ai siciliani e ai calabresi e facessero nu bello lavaggio morale pure loro, poi ne riparliamo.

   Perché dovrebbero fare un lavaggio morale?
Ma perché amico mio, la gente non è scemma. Hanno rubato anche loro, sono stati presi con le mani nel sacco e allora, adesso, che cazzo vogliono? Che vanno cercando? Non avessero parlà proprio. Non ce l’ho con la gente che vota Lega e non la schifo affatto, ma con chi dovrebbe avere senso di responsabilità e invece tutte le sere urla in televisione dando l’impressione di passare lì per caso.

   Non la immaginavamo così politico.
Non devo prendere voti, devo solo vendere dischi, a me che me ne frega? È che se vedo certe cose non riesco a stare zitto.

   Almeno in Matteo Renzi crede?
Non è che non creda in Renzi, io non credo più in nessuno. Nun saccio proprio chi mi rappresenta. Chi mi rappresenta a me?

   Non saprei.
Glielo dico io, nessuno mi rappresenta. È tutto sconquassato. Ma l’ha vista Genova? Hanno detto che il maltempo non si poteva prevedere. Cazzate.

   Cazzate?
In una città sana, i tombini non saltano e i torrenti non devastano le strade. E allora dico, cumm’ è succiessa ‘sta cosa? Succede soltanto se per un secolo hai condonato qualsiasi porcata e hai fatto costruire i casermoni dove era assolutamente sconsigliato per intascarti i soldi. Hanno fatto le case n’copp e spiagge e poi si presentano con gli occhi bassi ai funerali. Ipocriti.

   Duro.
Si doveva fare prima la base, poi il resto. Se non dai gli strumenti giusti, le persone non crescono mai. Cento pecore senza una guida sapiente saranno sempre cento pecore. E a loro, è ovvio, va bene così.

   A loro chi?
Ai politici e a quelli che grazie a loro, attaccati alle poltrone, tengono i fili della cultura in Italia. Che la gente rimanga ignorante, a questo gruppo di potere conviene. In periferia, loro la cultura non la vogliono. A Forcella e a Tor Bella Monaca, l’arte non deve arrivare. “Come si permette Nino D’Angelo di portare migliaia di persone a teatro in una zona così?”. Ecco perché mi hanno tolto la direzione del Trianon licenziandomi come a nu poveru dio ed ecco perché Forcella non ha più il suo spazio di crescita. Cinquemila abbonamenti avevano fatto, lasciamo perdere.

   Una soluzione non c’è?
 A casa nostra noi D’Angelo avevamo regole semplici. Regole non scritte di buona creanza e civile convivenza. Sapevi quale era il tuo posto a tavola senza dover ingaggiare una discussione ogni volta, ma dovevi comportarti bene.


Qui invece se rubi e vieni beccato, non pensi a come restituire il maltolto ma a come non finire in galera. Ti premiano se ti comporti male, le regole valgono meno di zero e per colpa conclamata non paga mai nessuno. È sbagliato. Se uno toppa, deve pagare. Se sbagli e non paghi, sbagliamo tutti quanti. Paghiamo tutti quanti.

   Chi paga più di tutti?
I guaglioni che oggi hanno vent’anni. ‘Sta generazione di ragazzi tutti disoccupati. Nessuno ha pensato a loro. Dove li mettiamo adesso? Lei lo sa?

giovedì 8 giugno 2017

La morte

Vittorio Sabadin per www.lastampa.it

La morte è un’esperienza più piacevole di quanto siamo portati a pensare e l’idea che si tratti di qualcosa di triste e terrificante è molto lontana dalla realtà. L’università del North Carolina ha condotto una ricerca, pubblicata su Psycological Science, prendendo in esame le frasi pronunciate da malati terminali o da condannati a morte, e ha scoperto che più si avvicina il momento della fine, più i loro pensieri diventano positivi, al punto che la morte viene considerata quasi un’esperienza felice. 

Queste considerazioni sono state messe a confronto con quelle di un gruppo di volontari, ai quali è stato chiesto di immaginare la propria morte. Quasi tutti l’hanno descritta come un momento terrificante, triste e doloroso, solitario e privo di significato. Ma per chi sta per morire davvero non è mai così: i malati e i condannati a morte trovano grande conforto e serenità anche nella religione e nella famiglia, com’è testimoniato persino dalle lettere dei soldati delle due guerre mondiali. Le loro ultime parole sono piene di amore, di perdono, di connessione sociale e di significato. 

«Gli esseri umani – ha detto il professor Kurt Gray, uno degli autori della ricerca – si adattano a ogni situazione, sia fisicamente che emotivamente, e lo fanno anche nel momento estremo della morte. Pensiamo che sia un evento terrificante perché la nostra cultura ce lo fa credere, ma non è così: più ci si avvicina alla fine e più la visione della morte è positiva».  

Anche le persone che hanno avuto esperienze «ai confini della morte» (Near Death Experience), che hanno cioè ripreso le funzioni vitali dopo averle perse per alcuni minuti, hanno raccontato di avere provato una sensazione di pace e serenità mai avvertita prima nella stessa misura, e di tale intensità da generare la paura di «tornare indietro» allo stato precedente. Ma cosa ci sia davvero dall’altra parte di questo confine nessuno lo sa: logico quindi averne un po’ di paura. 

mercoledì 7 giugno 2017

Caterina da Siena

Silvia Ronchey per la Repubblica

Come svelano nuovi studi, il vero miracolo della mistica di Siena è la sua scrittura innovativa "Più luce!", furono le ultime parole di Goethe. "Sangue! Sangue!", furono le ultime parole di Caterina da Siena, con Dante il primo genio, come scrisse Tommaseo, della lingua italiana. Le sue opere - il "Libro", in seguito reintitolato "Dialogo della divina provvidenza", e le trecentottantuno Lettere - furono scritte col sangue, quasi letteralmente. Scrivo "nel prezioso sangue di Cristo", spiegava di continuo Caterina.

Non era solo una metafora. Il più attendibile dei suoi biografi, Tommaso Caffarini, narra di come un giorno, trovando in una stanza della rocca di Tentennano un vasetto di cinabro di quelli usati dai copisti per vergare i capilettera, lei lo afferrasse insieme al calamo e alla pergamena e prendesse a scrivere rapidamente, "con tratto leggibile e netto". 

Caterina, ed era forse questo uno dei suoi molti segreti, scriveva in inchiostro color sangue, e lo faceva di suo pugno, per quanto reticenti o deliberatamente svianti siano in proposito i suoi primi agiografi, attenti a far credere all' autorità ecclesiastica che quelle opere non nascessero dall' audacia di un carisma personale, bensì da miracolosa ispirazione divina; che fossero da lei dettate in stato di trance ai membri maschi della sua laica confraternita. 

Furono capaci di persuaderne i successivi studiosi, a loro volta inclini a credere all' inevitabile analfabetismo di quella strana figlia della piccola borghesia della buia contrada senese dell' Oca, adolescente anoressica uscita dal mondo per sprofondare nella sua "cella interiore", fuggita dal corpo per costruirsi un "corpo spirituale" nella perenne astensione dal cibo (un po' d' acqua e piccoli boli di erbe che subito rimetteva) e dal sonno (su una tavola per terra e "non più di mezz' ora ogni due giorni"), nelle piaghe delle catene e del cilicio, nelle penitenze, nei più implacabili e disciplinati stenti dell' ascesi, nelle devastazioni dell' estasi.


Come scriveva il suo amico William Flete all' indomani della morte, che la prese a trentatré anni, Caterina "abitava nella caverna del costato di Cristo". Nel Dialogo confessava: "La vita mia non è passata altro che in tenebre; ma io mi nascondarò nelle piaghe di Cristo crocifixo e bagnarommi nel sangue suo".


Vissuta in un tempo in cui l' accesso alla scrittura era nominalmente vietato a qualsiasi donna non fosse regina o principessa, la sua padronanza dello scrivere era nascosta in quella caverna, nota solo a quell' entourage di confessori in realtà segretari, direttori di coscienza in realtà sottoposti, padri spirituali in realtà figli, che costituivano la "bella brigata", la comunità di cui Caterina, il volto brunito come un capo indiano, indurito "come cuoio" dal sole della Francigena, era l' irrivelabile maestra, "madre" e profetessa.

Un libro di André Vauchez ( Caterina da Siena. Una mistica trasgressiva, Laterza) cerca oggi di contestualizzare la sua eversione spirituale e la sua militanza politica nella lotta tra chiesa e impero, regni e stati dello scacchiere trecentesco, ma anche fra ordini rivali e contrapposti papati nel tempo dello scisma avignonese, della Crociata contro l' Anticristo, della plurinvocata riforma della chiesa, al di là della narrazione della propaganda ecclesiastica, che della sua figura di outsider ha fatto prima una paladina del primato della sede papale romana, poi una costruzione patriottica, tanto da trasformarla in antesignana dell' unità d' Italia, e nel 1939, ad opera di Pio XII, in copatrona d' Italia: in un Francesco femmina - per quanto lei si considerasse uomo e per quanto meno scrittore, ancorché sublime, fosse di lei Francesco. Ma accomunava certo entrambi la simulata illetteratezza, la scelta del sermo humilis, l' esoterica semplicità del volgare con cui vollero trasporre nella lingua umana l' ineffabile.


Il Sangue, la passione, la tortura, è la scrittura. Perché "in sul cuore la pietra del diamante, se non si rompe col Sangue, non si può rompere". La sua anima, come dichiara nel prologo del Dialogo, era "ansietata di grandissimo desiderio", ed era "abituata e abitata nella cella del cognoscimento di sé", perché "al cognoscimento seguita l' amore" e "amando cerca di seguitare e vestirsi di verità".

Per Caterina l' opus della scrittura era un corpo a corpo con quell'"ansietato desiderio" di smarrire il proprio io in un amore non di questo mondo. Influenzata dall' agostiniano William Flete, il peccato era per lei solo mancanza d' amore: non realtà ma, scrive, "quella cosa che non c' è". E "l' attitudine dello scrivere", come confidò a Raimondo da Capua, era l' unica "con cui sfogare il cuore, perché non scoppiasse".

Come ha scritto Michel de Certeau, il mistico è la persona che vuole "offrire un corpo allo spirito, incarnare il discorso e dare un luogo alla verità". "Affogata e annegata nel sangue" dell' inchiostro, Caterina vi trovava "l' affocata sua verità".

Il discorso, il Logos, si fece carne in quella sofferenza, da Caterina paragonata alla passione di Cristo e assimilata al torchio dionisiaco da cui cola la bevanda redentrice del dio sacrificato e spremuto. Smembrata come Dioniso, le sue reliquie saranno sparse in più templi del mondo cattolico, ma la sua testa mummificata, oltre la grata del tabernacolo gotico, presidia quell' insospettabile tempio pagano che è la basilica senese dell' ordine cui fu più vicina, quello di San Domenico.

Se percorsa la navata centrale in direzione della Sagrestia Vecchia, varcata la balaustra di marmo, si accede alla Cappella del Testa, si verrà colpiti anzitutto, ai due lati del sottarco, da due misteriosi personaggi affrescati dal Sodoma, identificati oggi da Gioachino Chiarini ( Il calice e lo specchio, Nerbini) con Platone e Aristotele; ma soprattutto, al centro del pavimento policromo, da una figura tanto anomala quanto inconfondibile, identificata da Bernard Berenson con quella di un classico Orfeo che al posto della cetra regge uno specchio. 

Nella lettura di Chiarini l' intero programma iconografico della cappella, progettato tra fine Quattrocento e inizio Cinquecento dai seguaci senesi dei misteri cateriniani, è la coerente illustrazione delle pagine finali del Dialogo e l' Orfeo asessuato della tarsia marmorea è la chiave della teoria cateriniana dell' anima. Una teoria ermetica, dove la passione di Cristo è l' opus cui si rifà l' anima individuale nel laboratorio alchemico della salvazione, attraverso quella sua letterale e fisica imitazione che è l' opus della scrittura, attuata nel bagno vermiglio del sangue.

Più ci si addentra nella vicenda intellettuale di Caterina, più si è rapiti dalla sua indecifrabilità. Anche se oggi la riconosciamo certo ben più consapevole di quanto ogni versione ecclesiastica abbia voluto o potuto in origine ammettere, non conosciamo le fonti filosofiche dirette del suo Dialogo. Qualcuno ha evocato Agostino, qualcun altro lo Pseudo-Dionigi, ma molto era occultato nella composita comunità di cui Caterina era maestra, madre e profetessa.

Se le facce di Caterina sono tante quanto le reliquie in cui il suo corpo è oggi smembrato, se le ragioni della sua fortuna sono sotterranee, e anche per questo confondono storici e biografi, se tra i miracoli di Caterina il più grande è quello della scrittura, dietro il segreto della sua scrittura, così ben custodito dai suoi seguaci, ce n' è forse un altro: l' ermetismo, l' alchimia.

Un segreto di cui solo i suoi più tardi conoscitori e cultori, in quello spalancarsi del vaso di Pandora del pensiero medievale che fu il Rinascimento, hanno voluto fornirci, con le dovute precauzioni, la chiave.

Xi Jinping

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE Guido Santevecchi - Corriere della Sera
PECHINO C’è stato il Pensiero di Mao Zedong, sacro testo sul marxismo-leninismo adattato alle caratteristiche cinesi; poi la Teoria di Deng Xiaoping sulle aperture all’economia di mercato: il Pensiero rivoluzionario di Mao e la Teoria riformista di Deng sono stati iscritti nella Carta fondamentale del Partito-Stato. Ora Xi Jinping sta cercando di affiancarsi ai due timonieri della Cina moderna come nuovo «pensatore in capo». In autunno Xi si presenterà al 19° Congresso comunista che cade a metà del suo mandato decennale di segretario generale e capo dello Stato e molte voci si rincorrono a Pechino su un suo tentativo di mettere le basi per una proroga del potere assoluto oltre il 2022.
Le parole in politica significano molto, in Cina moltissimo e al leader serve una frase simbolica che dia il titolo ai suoi insegnamenti per il Paese e il mondo. Il telegiornale della sera, voce ufficiale dello Stato che va in onda a reti unificate, ha da poco introdotto la formula «I concetti di governo di Xi Jinping»: potrebbe essere questa l’etichetta che, adottata nella costituzione comunista, segnerebbe l’ascesa del segretario generale nell’empireo dei grandissimi.
È un piano al quale il leader sta dedicando molte energie e risorse: nel 2014 ha fatto pubblicare «Xi Jinping: la governance della Cina», un manuale con 79 suoi discorsi, conversazioni, interviste, lettere e frasi celebri tradotto in diverse lingue, dall’inglese allo spagnolo, dall’urdu al vietnamita e diffuso in 6,2 milioni di copie nel mondo. L’ultima edizione è stata presentata ieri: in lingua del Kazakistan.
Lo scorso ottobre, nell’ultimo Plenum del 18° Congresso, i delegati hanno attribuito al presidente Xi Jinping il rango di «lingdao hexin», che significa più o meno «nucleo centrale e cuore della leadership» del Partito. Prima di lui lo erano stati Mao e Deng. Ma quella definizione di «cuore della dirigenza» è solo onorifica; far includere il proprio pensiero politico nella Carta comunista rappresenterebbe il vero salto di qualità.
Per preparare il terreno è stato mobilitato anche il Quotidiano del Popolo , che ha raccolto 25 frasi pronunciate da Xi, una summa della sua visione. Tra le frasi dello Xi Pensiero si segnalano oltre all’ormai celebre «Sogno Cinese di Rinnovamento della Nazione», i «Cinque concetti di sviluppo», i «Quattro comprensivi», i «Cinque in Uno», gli «Otto preparativi». La Cina ha un culto ossessivo per gli slogan politici con numeri e programmi spesso oscuri per i non addetti ai lavori. I «Quattro comprensivi», per esempio sono una chiamata all’impegno dei quadri per «promuovere il completamento complessivo di una società moderatamente prospera, l’approfondimento della riforma (sempre complessivo, ndr ), la promozione dello stato di diritto (complessivo naturalmente, ndr ) e la gestione rigorosa e complessiva del Partito».
Può voler dire tutto e niente, solo Xi e i colleghi più vicini a lui lo possono sapere. Il segretario generale comunista, nonché presidente della Repubblica e della Commissione militare centrale e di un’altra dozzina di organismi statali e di Partito, ha parlato anche dei «Quattro venti contro»: che debbono soffiare contro il formalismo, la burocrazia, l’edonismo e la stravaganza, ha spiegato il Quotidiano del Popolo .
Riassumendo: il libro sulla governance con 79 discorsi e interventi vari; le 25 frasi chiave: è questo il contenuto del Pensiero di Xi da glorificare nel Congresso per cementare il suo potere e il suo rango di filosofo?
Manca ancora qualche mese e nuove frasi potrebbero aggiungersi ai Concetti. Una è appena stata pronunciata: serve «Lo Spirito del martellare il chiodo», ha detto Xi ai compagni. Un’esortazione ad avere la stessa determinazione necessaria a conficcare un chiodo nel legno battendo con forza e precisione con il martello, hanno spiegato gli esegeti di Pechino.

Kashoggi

KASHOGGI, LO SCEICCO ARMATO DI DIAMANTI
Tony Damascelli per ‘il Giornale

C' era soltanto l' imbarazzo della scelta: la casa a Parigi, la dimora a Madrid, il cottage a Cannes, il palazzo a Ryad, sedici alloggi a New York trasformati in un unico appartamento, la villa a Marbella, in verità non proprio una villa, ma duemila e cinquecento metri quadrati calpestabili. Nei vari garage 100 limousine, nell' hangar dell' aeroporto di Nizza, un DC8, tre jet privati, quindi al porto di Montecarlo il Nabila, valore in milioni di dollari, 80. Guardie del corpo varie, guidate da un sudcoreano campione intercontinentale di arti marziali. Figli otto, divorzi due.

Tutto finito, insieme con lui, Adnan Kashoggi, il più ricco dell' universo nei favolosi anni Settanta-Ottanta, morto in una clinica svizzera, costretto su una sedia a rotelle, sfinito, avvilito, dimenticato da quello stesso mondo di affari e di lusso che lui aveva creato, inventato e alimentato, da abile uomo di affari. I dollari erano diventati milioni e poi miliardi con il mercato delle armi.

Suo padre, medico personale del re d' Arabia Abdel Aziz al Saud, lo aveva spedito in Egitto, per gli studi al Victoria College di Alessandria. Sua sorella sarebbe stata la genitrice di Dodi Al Fayed, dunque zio Adnand anche per lady Diana. Va da sé che, al tempo, la parentela aumentò i sospetti dell' attentato.

Al Victoria college trovò come compagno di classe re Hussein di Giordania, in pratica, il destino bussava alla sua porta: «E quando il destino bussa devi aprire sempre», ripeteva spesso. Dall' Egitto in volo verso la California, ancora università ma senza risultati ufficiali. Meglio gli affari. A 19 anni un contratto di 3 milioni di dollari, per la fornitura di camion al governo egiziano, nella campagna contro Israele, gli fruttò il primo premio: 150mila dollari.

Spiccioli. Nel 1970 il colpo della vita, l' azienda aeronautica americana Northop procura gli F-5 all' esercito saudita in cambio di 4,2 miliardi di dollari, mister Kashoggi incassa la commissione di 184 milioni. I giochi sono fatti. La vita è bella e lui cerca di ribadire il concetto in modo «arabesco». Bello non era, anzi un po' tozzo, anche fragile, con i baffetti nerissimi a disegnare quel volto tondo come una luna piena.

Ma garbato, astuto, reattivo, lucidissimo a intuire chi gli si parava di fronte. Negli affari, l' estetica ha un valore marginale. Infatti Kashoggi citava Napoleone: «I denari non sono tutto ma sono il mezzo per avere tutto». Di uguale statura, dunque, il Napoleone della Mecca, vinse diverse battaglie di campo e di letto. Al suo fianco esibiva femmine bellissime, alcune erano innamorate di lui, la prima moglie, Soraya, di anni diciassette, al momento del divorzio, confermò la passione chiedendo un sostentamento di 2,4 miliardi, ridotto poi in tribunale a 874 milioni.


La seconda (entrambe convertite all' islam), l' italiana Lamia, ha volato più basso ma Adnan non si è mai lamentato dei denari, anzi ha approfittato in tutte le direzioni dei conti correnti mai visti così correnti prima di lui. Per far danzare i quattrocento ospiti alla festa del suo 50esimo compleanno nella villa di Marbella, chiamata Baraka, invitò, a pagamento ovviamente, Shirley Bassey che, uscendo dalla torta (sovrastata dalla corona, copiata dagli chef su quella di Luigi XIV esposta al Louvre) cantò Happy Birthday Adnan, mentre la band inglese The Queen, andava di rock.


Il party, al quale parteciparono tra gli altri Sean Connery in piena missione 007 e la spettacolare Brooke Shields, prevedeva un centinaio di camion refrigerati con migliaia di bottiglie magnum di champagne a disposizione degli invitati.

L' evento suggerì a Freddy Mercury, leggenda dei Queen, di scrivere addirittura un pezzo dal titolo Kashoggi' s ship, la barca di Kashoggi, inserito nell' ellepi Miracle. Madame Mimì, al secolo Mireille Griffon, nota maitresse della costa Azzurra, provvedeva al casting femminile per i gentili ospiti di sesso maschile.

Il piccolo grande Gatsby anticipava i tempi, erano anni da mille e una notte, la lampada di Aladino Kashoggi regalava la qualunque, anche Lory Del Santo fu tra le last lady, partecipò al carnevale ricevendo gioielli favolosi e notti d' amore. Ma Adnan non trascurava per questo gli affari. Finanziò la rielezione di Richard Nixon, alla cui figlia regalò un braccialetto da 60mila dollari.


 La giostra, la copertina del Time, gli onori, la Nabila finita tra le varie barche di Trump, le donne, i politici, i miliardi, improvvisamente, tutto si fermò. I denari avevano un cattivo odore, la vendita delle armi all' Iran procurò l' ira di Ronald Reagan, una storia di ricettazione, con i filippini Ferdinand e Imelda Marcos, per opere trafugate al museo di Manila, portò all' arresto e al carcere per tre mesi.


Il sultano si ritrovò smarrito, la corte scomparve, residui di gloria, amicizie scomparse, il mondo che lui aveva creato si era messo a correre velocemente, lasciandolo quasi solo. A ottantatrè anni, in una camera del St. Thomas Hospital, la sua avventura si è conclusa. Ma nessuno saprà mai se il tesoro sia veramente svanito.



LORY DEL SANTO: «TRADITA SVELAI LE FOTO DEL SUO YACHT»
Michela Proietti per il Corriere della Sera


Ha fatto conoscere al mond o, per primo, l' opulenza da nababbo. Dire Khashoggi, negli anni Ottanta, significava denaro, donne e potere: una vita milionaria vissuta tra business, party con fuochi d' artificio che finivano in nevicate, fiumi di champagne, intrighi amorosi e barche da mille e una notte, come il Nabila, lo yacht intitolato alla figlia.

È morto ieri a 83 anni, al St. Thomas' Hospital di Londra, Adnan Khashoggi, il miliardario saudita che negli anni Settanta e Ottanta si era costruito una fortuna come mediatore nella vendita di armi tra governi occidentali e mediorientali.


I problemi cardiaci, seguiti da un ictus devastante, lo avevano ridotto da un anno in carrozzella: un contrappasso crudele per chi era abituato a volare di fiore in fiore, spesso a bordo del suo Boeing 727.

Il fiuto per il business lo porta, giovanissimo, a trasferirsi da La Mecca alla Stanford University in California, dove si mantiene gli studi in Economia commerciando in auto.
Alla fine degli anni 80 conquista il titolo di uomo più ricco del mondo, con un patrimonio di 40 miliardi di dollari. È in quel periodo che inizia ad alimentarsi il mito Khashoggi, anche grazie al corollario mondano. Colleziona dozzine di case e, in mezzo ai due matrimoni celebrati con rito musulmano (uno con l' italiana Laura «Lamia» Biancolini), anche tanti flirt.

Spuntano i nomi di Farrah Fawcett, Rachel Welch, Brooke Shields e quello dell' italiana Lory Del Santo, all' epoca ventunenne. È lei a diffondere, forse per vendetta, le foto mai viste prima del Nabila, con rubinetterie d' oro massiccio ed elicottero in dotazione. «Adnan era pazzo di me - racconta la showgirl -. Ma quando l' ho sorpreso mano nella mano con un' altra ho deciso di interrompere la relazione. Avevo delle foto scattate in barca dai marinai e le ho date ai settimanali».

La relazione tra il «principe» saudita e la Cenerentola italiana fa sognare anche grazie ai doni generosi: Khashoggi le regala un collier con un rubino a forma di cuore, un tennis di diamanti e un anello di brillanti, che lei però rimanda indietro. «Non era il mio genere, un intreccio di fedi su più piani, rappresentava il cielo: oggi forse me lo terrei».

Come una Julia Roberts ante-litteram viene accompagnata nelle boutique del centro di Roma per scegliersi un guardaroba acconcio. «Mi portò da Christian Dior: non comperai granché, ero troppo rock per fare la signora abbottonata».


Nel frattempo per Khashoggi inizia la parabola discendente: nel 1985 finisce persino in carcere con l' accusa di ricettazione di opere d' arte acquistate da Marcos. Viene assolto, ma l' interruzione degli affari lo riduce sul lastrico e lo costringe a vendere il Nabila.
Viene acquistato da Donald Trump (che poi lo rivende), ironia della sorte anche lui invaghito di Lory Del Santo.

«Due uomini diversi: Donald molto maschio, Adnan più gongolone. Di lui ricorderò sempre il sorriso gentile, era un furbacchione gentleman».

MORIRE

  www.leggo.it  del 5 aprile 2024   JULIE MCFADDEN- 1 Julie McFadden è un'infermiera molto famosa sui social perché condivide le sue esp...