venerdì 10 agosto 2018

Le stelle cadenti

Silvia Ronchey per ''la Repubblica''



Nel mondo cristiano la notte delle stelle cadenti è una festa della luce e una celebrazione dello sguardo.
In Grecia, e in genere nel calendario ortodosso, è associata alla contigua festa della Metamorphosis, ossia della Trasfigurazione, quando Cristo sul Tabor appare ai discepoli in una mandorla accecante di luce.

Un' esortazione, nell' esegesi teologica bizantina e poi russa, alla metamorfosi dello sguardo, all' esercizio di quella capacità di percepire la struttura spirituale delle cose, di intravedere, come ha scritto Pavel Florenskij, «tra le crepe del mondo sensibile l' azzurro dell' eternità», che in altre tradizioni mistiche, come quella buddista, è chiamato appunto "retto sguardo".

Mea nox obscurum non habet, sed omnia in luce clarescunt, recitano, in metrica classica, i Vespri della liturgia di San Lorenzo: «La mia notte non ha oscurità, ma tutto nella luce diventa chiaro».


Quello di Lorenzo, uno dei sette diaconi martirizzati a Roma nel Terzo secolo, secondo la leggenda agiografica è il sacrificio dei sacrifici: oltre ai tratti dell' olocausto pagano (Lorenzo fu "cotto", arso vivo sul fuoco come un' antica hostia animale) conserva anche, nella tradizione cristiana, un elemento cannibalesco, come ricorda la frase che secondo il De Officiis di Ambrogio pronunciò durante il supplizio: Assum est. Versa et manduca, «Questa parte è cotta. Gira e mangia».

Secondo la tradizione popolare sono le lacrime di san Lorenzo, o le scintille di fuoco sprigionate in alto dalla graticola, le scie luminose dello sciame meteorico più visibile dell' anno, che la Terra nella sua rivoluzione si trova ad attraversare tra la fine di luglio e la seconda metà di agosto, con un picco di visibilità concentrato, appunto, questa notte. In età più antica questa pioggia di luci è stata interpretata anche altrimenti.

I romani le ritenevano spruzzi di bianco sperma del dio Priapo, sparsi a inseminare i campi, associati quindi alla grande festa della divinità femminile fecondatrice della terra che cade tra pochi giorni, il 15 agosto. Il radiante della pioggia meteorica, ossia il punto dal quale sembrano provenire tutte le scie, è nella costellazione di Perseo.

Per questo le stelle cadenti si chiamano Perseidi, richiamando il mito antico della decapitazione della Gorgone Medusa, il cui sguardo fisso nel nostro ci impedisce di guardare rettamente il mondo, ci pietrifica e ci inocula la morte negli occhi, secondo la definizione di Jean-Pierre Vernant. Anche nel mito greco cui gli astronomi ottocenteschi associano queste particelle siderali, rilasciate da un' antica cometa durante le sue passate orbite, si celebra dunque la liberazione dello sguardo.


Che si tratti di Ulisse o del pastore errante nell' Asia, del salmista o di Elia rapito sul carro, da sempre lo sguardo umano si è diretto al cielo. Se è nell' immenso ricamo astrale che ogni sapienza antica riconosce il disegno dei suoi eventi sacri, è nel cielo stellato sopra di sé che i navigatori dei mari o dei deserti, gli ispirati o i mistici trovano la propria rotta nel mondo esteriore così come il retto orientamento interiore.

Se è alla vertigine cosmica che il filosofo affida la sua visione del mondo, se oggi le luci delle città oscurano il cielo, se la scienza moderna ci insegna che è di stelle morte anche da migliaia e migliaia di anni la luce che arriva allo sguardo dei terrestri, è ancora più necessario, una volta l' anno, rivolgerlo a questo universale, letterale simbolo di caducità.
Come scriveva Pascoli: «E tu, Cielo, dall' alto dei mondi / sereni, infinito, immortale,/ oh! d' un pianto di stelle lo inondi /quest' atomo opaco del Male».


lunedì 6 agosto 2018

Debito e sovranismo

Carlo Cottarelli e Giampaolo Galli per ''La Stampa''


Agli allarmi degli economisti sui rischi di crisi finanziaria che incombono sull' Italia se si abbandonasse una linea di fermezza circa l' appartenenza all' euro e di prudenza in materia di conti pubblici, alcuni esponenti dell' attuale maggioranza rispondono che la volontà del popolo è sovrana e non può accettare di essere subordinata a volontà terze, men che meno alla volontà dei mercati finanziari.

Dunque può anche darsi che ci siano dei rischi, ma se il popolo sovrano ritiene che sia giusto, ad esempio, aumentare la spesa per il reddito di cittadinanza, questa cosa deve essere fatta. Sulla base di questo argomento vengono censurati i governi degli anni scorsi, in quanto rei di aver ceduto alle pressioni dei mercati e dunque, in qualche modo, di aver svenduto la democrazia italiana, se addirittura l' Italia stessa, a una élite finanziaria che, secondo alcuni, dominerebbe il mondo.

Questi argomenti connotano in modo molto netto, le posizioni che generalmente vengono definite sovraniste e che sono largamente trasversali fra destra e sinistra.

Occorre riconoscere che una riflessione sui limiti della globalizzazione è del tutto legittima e si può forse accettare il ragionamento di Dani Rodrik, dell' Università di Harvard, secondo cui la globalizzazione, spinta oltre certi limiti, rischia di entrare in conflitto con la sovranità nazionale, specie quando questa si esprima in forme democratiche.


Ma ci sono due obiezioni che anche i sovranisti più convinti dovrebbero prendere in considerazione.

La prima attiene al principio di realtà. Può darsi che il mondo ideale sia diverso da quello reale, ma noi abbiamo a che fare con il mondo reale. E in questo mondo, noi abbiamo un debito pubblico al 132% del Pil e dobbiamo convincere i mercati a comprare ogni anno circa 400 miliardi di titoli del debito pubblico italiano.

Se venisse meno la fiducia dei mercati, le aste dei titoli di Stato andrebbero deserte e lo Stato non avrebbe più i mezzi per pagare gli stipendi, le pensioni e i fornitori della pubblica amministrazione. Si materializzerebbe quel baratro spesso evocato in passato, ma sempre sin qui evitato, grazie proprio alle politiche di quei governi che i sovranisti mettono sotto accusa.

La seconda obiezione è che il mondo ideale vagheggiato dai sovranisti non è mai esistito.
Sempre, in qualunque epoca e in qualunque regime economico, uno Stato troppo indebitato è finito in crisi.

Nella seconda metà del terzo secolo D.C., gli imperatori romani, a corto di denari per pagare le milizie, ricorsero all' ingegneria monetaria riducendo progressivamente la quantità di argento contenuto nel conio imperiale, il che provocò iperinflazione, impoverì i detentori del conio, portò alla diffusione del baratto e al caos economico, di cui è testimonianza il famoso editto di Diocleziano del 301 D.C. con cui si tentò, senza successo, di fissare un prezzo massimo per una gran quantità di beni.

Nella Francia ante rivoluzione, la monarchia affrontò più volte il problema dei debiti ricorrendo all' esecuzione fisica dei creditori della corona, operazioni che meritarono l' appellativo di «saignée», dissanguamenti.


Venendo ai tempi nostri, gli attacchi speculativi avvenivano anche nei primi decenni del dopoguerra, malgrado che il regime di Bretton Woods prevedesse controlli sui movimenti di capitali e una apertura assai limitata al commercio internazionale.


Il Regno Unito fu costretto fin dal 1949 ad accettare svariate e rilevanti svalutazioni della sterlina, cosa che era assolutamente contraria alla politica scelta dal popolo sovrano. In Italia, nel gennaio del 1976, in presenza di controlli ferrei sui movimenti di capitali e di vincoli sulle banche italiane, la perdita di fiducia nel paese portò ad azzerare le riserve valutarie del paese nel giro di pochi giorni e obbligò le autorità a chiedere aiuto per l' ennesima volta al Fmi e alla Comunità Europea.

Ancora, nei primi Anni Ottanta i mercati piegarono la Francia di Mitterrand che cercava di perseguire politiche di espansione del deficit pubblico. Nel 1987, piegarono persino gli Stati Uniti dei mega deficit reaganiani tanto che le autorità americane furono costrette, nel G-7 del Louvre, a chiedere aiuto agli altri grandi paesi per evitare una caduta eccessiva del dollaro.


La conclusione è che i controlli sui movimenti di capitali, che alcuni sovranisti sembrano rimpiangere, forse servivano a rallentare la speculazione in tempi normali, ma non servivano quasi a nulla quando i risparmiatori avevano ragione di temere per la sorte dei loro soldi.



C' è un solo modo per ripristinare la sovranità nazionale rispetto ai mercati: evitare di far debiti e ridurre quelli esistenti, almeno rispetto alla dimensione dell' economia. Göran Persson, ex primo ministro di un paese, la Svezia, che ha sempre avuto una moneta indipendente, ha dichiarato che negli Anni 90 il governo si decise a ridurre drasticamente il debito attraverso politiche di bilancio restrittive anche perché era umiliante per la nazione dover «mendicare» a Londra o New York per convincere gli investitori esteri a comprare titoli di stato.

Se invece si fa di tutto per aumentare il deficit, non si fa altro che stringersi il cappio attorno al collo. Anche perché i creditori di oggi sono in gran parte cittadini italiani che detengono titoli del debito pubblico, direttamente o attraverso i fondi. E la soluzione francese di dissanguarli difficilmente troverebbe il consenso del popolo sovrano.

Europa e sovranismo

Giorgio Gandola per “la Verità”

giordano bruno guerriGIORDANO BRUNO GUERRI
«Il più grande errore dell' Europa? Non avere capito che i popoli non corrono». Gli storici sono affascinanti, guardano un fenomeno politico oggi dalla spiaggia e lo catalogano secondo categorie millenarie, perché tutto torna e tutto è già stato scritto.

In questo esercizio di ginnastica mentale Giordano Bruno Guerri è il numero uno: da 40 anni interpreta i fenomeni della contemporaneità con la profondità dello studioso e la leggerezza calviniana del divulgatore. E lo fa stando con i piedi ben piantati nel presente: «Sono stato il primo a pubblicare un libro di storia in cui si parla del governo di Giuseppe Conte».

Giordano Bruno GuerriGIORDANO BRUNO GUERRI
Un giorno disse: «Leggendo le nubi del passato si anticipano i temporali di domani». Così Movimento 5 stelle, Lega, sovranismo, orticaria diffusa per Bruxelles, l' Italia più o meno razzista, la sinistra più o meno sfinita, faccette nere all' orizzonte e perfino la battaglia per la presidenza della Rai si capiscono meglio se viste da dietro i suoi occhiali da sole.

Con i quali si ripara non dai raggi bollenti di agosto ma dai turisti molesti che lo scambiano per l' attore John Malkovich.

Professor Guerri, chiariamo subito la metafora podistica dei popoli pigri.
«Tutti i grandi condottieri e poi dittatori, da Cesare a Napoleone, sono caduti perché hanno preteso di far correre i loro popoli, di completare rivoluzioni nell' arco temporale della loro vita. Presuntuosi, poco lungimiranti».


L' Europa cosa ci azzecca?
«L' Europa ha fatto lo stesso, ha immaginato un' integrazione inesistente solo con la moneta e qualche regola sovrastrutturale.

Ma le identità, che costituiscono il Dna dei popoli, non si cambiano in poco tempo. Da sempre i politici sanno correre i cento metri, mai la maratona. Ed ecco spiegato l' euroscetticismo».

Il concetto va attualizzato.
«La richiesta di maggiore autonomia è così evidente che ne scrissi 20 anni fa con la grande Ida Magli, la prima vera antieuropeista italiana. C' è tutto nel libro Per una rivoluzione italiana, edito da Bompiani, dove si sottolineano i problemi che l' Europa unita ci avrebbe portato in casa».

Che effetto ebbe la denuncia?
«Il volume fu trattato come un libretto satanico, allora parlare male dell' Ue era come insultare la mamma. Era evidente che avremmo perso sovranità a favore di Bruxelles.
Ora chi lo nega ne paga le conseguenze in termini di consenso».

Quindi bisognerebbe favorire una Italexit?
«Vent' anni fa avrei detto di sì, ma credo che uscire dall' Europa oggi sia un disastro senza pari. Piuttosto dovremmo essere capaci di difendere e far rispettare gli interessi nazionali da dentro l' Unione.
giordano bruno guerriGIORDANO BRUNO GUERRI

E se questo significa essere sovranista, allora sono sovranista anch' io, anche se mi fa orrore la parola dal punto di vista semantico. Viene usata per non riportare in auge quell' altra, nazionalista, che tanti danni ha fatto nel '900».

Ha da poco pubblicato un libro dal titolo: Antistoria degli italiani da Romolo a Grillo. Qual è il nesso fra i due?
«Faccio una premessa. La storia ci insegna che noi siamo un grande popolo dispensatore nei millenni di intuizioni e bellezza, ma non siamo capaci di costruire uno Stato efficiente e funzionale. Ogni spallata, ogni sterzata deriva da questo deficit strutturale».


Poi cosa succede?
«Succede che a differenza della maschera di Arlecchino, che serviva due padroni, noi italiani ne abbiamo sempre serviti almeno tre: il signore locale, l' imperatore e il Papa.

Ma come Arlecchino abbiamo imparato a gestire i problemi, a cavarcela, con la furbizia. Insomma a rubacchiare. Concetto che ci fu appioppato da Carlo V nel '500. Eravamo furbi e contenti di esserlo».

E oggi come siamo?
«Come allora, sempre servitori di tre padroni: 5 stelle, Lega, Ue. La storia prosegue come se niente fosse dentro il proprio alveo naturale».
federico e giulia d'annuzio, giordano bruno guerriFEDERICO E GIULIA D'ANNUZIO, GIORDANO BRUNO GUERRI

Dalla storia alla cronaca: il ticket Di Maio-Salvini fa parecchio discutere.
«Ma la crisi italiana non dipende da loro e le responsabilità non sono loro. Diciamolo chiaro: le responsabilità sono di mezzo secolo di assistenzialismo dc a fini elettorali, di clientelismo endemico, di incapacità o non volontà di perseguire l' evasione fiscale e di sconfiggere la mafia, di riformare la giustizia, di costruire un' Europa diversa da questa.

Tutto ciò ci ha legati a doppio filo al debito pubblico, diventato mostruoso. Che c' entrano Salvini e Di Maio?».

Gli italiani pensano che abbiano la bacchetta magica.
«Loro sono conseguenze del problema; gli elettori hanno deciso di sterzare e di percorrere una strada nuova, avventurosa. È un esperimento interessante e da fare. Vedremo in autunno, davanti alla legge di bilancio, se questa strada andrà oltre o si fermerà».


Domanda al manager del Vittoriale. Musei gratis o a pagamento la domenica?
«Di sicuro musei aperti. Poi su questa decisione del ministro Alberto Bonisoli sono diviso. Da una parte è un dovere politico e civile dello Stato favorire la diffusione della cultura, dall' altra lo è anche tenere d' occhio i bilanci».

Una non esclude l' altra.
«L' iniziativa del suo predecessore Dario Franceschini era buona, ma lo è anche lasciare ai direttori la libertà di decidere. Glielo dice chi ha privatizzato il Vittoriale, come chiedevano tutti i governi dagli anni '90 in poi. Rinunciai al finanziamento pubblico ma non ho mai chiuso le porte. Poi mi sono fatto venire un' idea».
vittoriale d'annunzio 1VITTORIALE D'ANNUNZIO 1

Quale?
«Al lunedì per il sabato annunciavamo la giornata speciale, gratuita. Un successo. I direttori dei musei statali hanno potere ma libertà limitata. Devono sapere loro quali sono i vantaggi delle scelte».

Ad agitare le acque in Parlamento c' è anche il decreto Dignità. Ci ha capito qualcosa?
«Guardi, ci vedo aspetti positivi per ciò che riguarda la limitazione degli spot sul gioco. Se parliamo di lavoro, mi pare che gli intenti buoni siano almeno pari agli effetti molto meno buoni per i lavoratori».

Veniamo alle parole d' ordine del momento: antifascista.
«Il pericolo di un ritorno in Italia di gente con camicia nera e stivali è ridicolo, inimmaginabile. Vedo più un rischio in questo esasperato populismo dell' uno vale uno, facendo credere che le decisioni siano prese al computer con una democrazia globale e invece sono prese da un gruppo ristretto».

Una deriva orwelliana?
franceschini-2FRANCESCHINI-2
«Non ne sono convinto. Temo molto di più lo strapotere dell' economia. Mercati ed Europa, per quando abbiamo visto, sono il vero Grande Fratello di oggi».

Altra parola: inclusione. Nel senso che ogni clandestino è una benedizione.
«Temo che a parte i toni e i modi volutamente sgradevoli, Salvini abbia posto all' attenzione di tutti il problema numero uno: ridiscutere con l' Europa che fine fanno i clandestini.


Poi sarà importante riuscire ad arginarne il flusso, non con la violenza o con i campi sognati da Marco Minniti. Nel vicino Oriente e in Africa servono programmi di sviluppo a lungo raggio».

Il Pd è per l' accoglienza diffusa, ma non sa dove mettere i migranti se non per strada.
«Il Pd sta reagendo nel modo sbagliato e anche qui la storia ci aiuta a capire. Si sono formati due partiti di massa (5 stelle e Lega) con i quali confrontarsi sui programmi, ma a sinistra vanno avanti per dibattiti interni come fanno dai tempi di Filippo Turati. È bello spaccare il cecio in quattro, ma poco pratico e oggi per niente funzionale».


Se manca la politica arrivano a cavallo gli intellettuali come Saviano.
«La funzione dell' intellettuale non è guidare, ma offrire soluzioni. E non è esprimere certezze, ma seminare dubbi. I concetti di Saviano sono umorali, pregiudiziali, senza il minimo peso, almeno se penso a Pier Paolo Pasolini. Saviano dovrebbe mandare a memoria un suo pensiero».

Quale?
«L' ho retwittato qualche giorno fa. "Noi intellettuali tendiamo a identificare la cultura con la nostra cultura: quindi la morale con la nostra morale e l' ideologia con la nostra ideologia. Esprimiamo, con questo, un certo insopprimibile razzismo verso coloro che vivono, appunto, un' altra cultura". Perfetto».

In Italia si riesce a litigare pure sul presidente Rai.
VITTORIALEVITTORIALE
«In Rai non cambia mai niente, regole e modus vivendi sono sempre gli stessi. Credo che nessuno abbia nulla contro Marcello Foa, ma che Berlusconi si sia risentito per non essere stato consultato e abbia deciso che lasciar correre avrebbe significato la sua resa.

Su Twitter c' è un movimento che ha lanciato la campagna: #GuerripresidenteRai. Senza consultazione preventiva, Berlusconi avrebbe bocciato anche me».

C' è chi dice che viviamo dentro una mediocrazia.
«Verissimo, questo perché le eccellenze se ne vanno; sono i ragazzi più intraprendenti.
Però c' è un lato positivo».

Meno male, qual è?

«I più brillanti si affermano. Si sa che sono italiani e che hanno studiato in Italia, ci restituiscono in prestigio ciò che abbiamo perso. Come gli artisti che nel Rinascimento partivano per donare cultura e bellezza alle corti d' Europa. Al Vittoriale abbiamo istituito il premio Genio Vagante».

Chi l' ha vinto?
«Un giovane chimico partito disoccupato da Reggio Emilia, che ora dirige un' azienda in Canada. E una ragazza siciliana che ha scoperto come si formano l' oro e l' argento. E adesso lavora alla Nasa».

In quest' epoca di trasformazioni ci siamo dimenticati della Chiesa.
«Di cambiamenti globali lì non ne esistono mai. Ricorda il concetto iniziale? Papa Francesco o no, la Chiesa cammina sempre più lentamente di tutti. Del resto, a differenza nostra, ha di fronte l' Eternità».

venerdì 12 gennaio 2018

Churchill - Hitler


Paolo Mieli per il Corriere della Sera

Per Londra fu il momento più difficile nel corso dell' intera Seconda guerra mondiale. A provocare la crisi del governo britannico presieduto dal conservatore Arthur Neville Chamberlain fu, ai primi di maggio del 1940, lo sfondamento hitleriano in Norvegia e la fuga dei soldati inglesi dal porto di Trondheim. La campagna norvegese era costata al Regno Unito 1.800 soldati, una portaerei, due incrociatori, sette cacciatorpediniere e un sottomarino. Per l' Inghilterra (e per l' Europa tutta) fu - come dicevamo - l' inizio del mese più brutto della sua storia, che si sarebbe concluso con la caduta della Francia in mano nazista e con la drammatica evacuazione di oltre 300 mila soldati britannici da Dunkerque.

Adesso un libro di Anthony McCarten, edito da Mondadori, L' ora più buia (da cui è stato tratto liberamente il film omonimo diretto da Joe Wright e interpretato da Gary Oldman e Kristin Scott Thomas nei panni di Winston e Clementine Churchill) descrive, sulla base di una ricchissima documentazione, i momenti in cui il nostro continente rischiò di cadere per sempre sotto il dominio della svastica.

Winston Churchill fu il primo a entrare in scena offrendosi - in quanto primo lord dell' Ammiragliato - come capro espiatorio per l' esito della disastrosa campagna norvegese: «Mi assumo la piena responsabilità di tutto ciò che è stato fatto, e mi prendo la mia fetta di colpa», scandì di fronte alla Camera dei Comuni il 9 maggio, giorno dell' importante dibattito sull' esito infausto di quella fase della guerra (anche se il peggio doveva ancora venire). All' epoca Churchill non godeva di grande popolarità. A lui veniva addebitata la catastrofe di Gallipoli nella Prima guerra mondiale; di lui era rimasto ben impresso - quanto meno tra i commentatori dei giornali - l' andirivieni tra il Partito conservatore e quello liberale. Veniva irriso, scrive McCarten, considerato un egocentrico, un voltagabbana, un «mezzosangue americano»; un uomo che, per usare le parole del deputato conservatore sir Henry «Chips» Channon, era militante di «una sola causa: se stesso».

Oggi, ricorda McCarten, allo statista con il sigaro sono intitolati 3.500 tra pub e hotel, oltre 1.500 negozi, 25 strade, «e il suo volto si trova un po' ovunque, dai sottobicchieri da birra agli zerbini». All' epoca, invece, era tenuto nel conto di un personaggio vanesio, bizzarro, imprevedibile. Ma quella sua ammissione di colpa nel momento in cui il primo ministro entrava nella tempesta non passò inosservata.

La notò lo stesso Chamberlain, il premier settantunenne, l' uomo dell' appeasement , colui che - nel settembre 1938 alla Conferenza di Monaco - aveva «regalato» ad Hitler la Cecoslovacchia nella speranza di ottenere in cambio la pace. Chamberlain, però, non fece in tempo a compiacersene perché proprio il 9 maggio fu travolto dal Parlamento. David Lloyd George, il liberale che era stato a capo del governo nel precedente conflitto mondiale, gli si rivolse in questi termini: «Voglia dare un esempio di sacrificio, dal momento che in questa guerra nulla può contribuire alla vittoria più di una sua rinuncia all' alta carica». Il laburista Clement Attlee puntò l' indice contro di lui e gli chiese con risolutezza di lasciare la guida del governo: «Non si tratta solo della Norvegia; la Norvegia è il culmine di molti altri sbagli La gente dice che la responsabilità di condurre le cose è affidata per lo più a uomini che hanno collezionato una serie pressoché ininterrotta di fallimenti». Dopodiché i laburisti si dissero pronti a entrare in un gabinetto di unità nazionale, a patto però che a tenerne le redini fosse chiunque, ma non Chamberlain, definito «quell' uomo».


Persino Leo Amery, parlamentare del suo partito, lo accusò: «Troppo a lungo siete stato seduto qui, per quel poco di bene che avete saputo fare andatevene, vi dico, e che con voi sia finita per sempre». L' ammiraglio Roger Keyes (anch' egli conservatore) si presentò alla Camera dei Comuni vestito in alta uniforme e, a sorpresa, si scagliò contro l'«impressionante storia di inettitudine dell' esecutivo». Nel suo diario il deputato Channon così descrisse quel 9 maggio: «Tra i miei colleghi è tutto un tramare e intrigare, complottare e ancora complottare».

L' aula del Parlamento precipitò nel caos. La moglie di Lloyd George, Margaret, annotò: «Non avevo mai visto uno spettacolo del genere. La Camera appariva decisa a togliere Chamberlain di mezzo L' urlo che ha accompagnato la sua uscita di scena era impressionante con quelle grida "vattene, vattene!" Non ho mai visto un primo ministro ritirarsi così ignominiosamente». Venne poi il momento del voto. Chamberlain prevalse, sia pure di misura.
Ma capì che era tutto finito quando si accorse che ben 41 deputati conservatori, appartenenti al suo stesso partito, si erano pronunciati contro di lui. Del resto era preparato all' uscita di scena anche perché affetto da un cancro al colon che - ne era da tempo consapevole - gli avrebbe lasciato pochi mesi di vita.

Il prescelto per la successione era Edward Wood, lord Halifax, già viceré in India e ora ministro degli Esteri in sostituzione di Anthony Eden, fatto fuori nel 1938 in quanto nemico della pacificazione con Hitler. Grande fautore anche Halifax della politica di appeasement , nel 1937 - quando non era ancora ministro degli Esteri - aveva accolto un invito di Hermann Goering a una battuta di caccia in Germania e nell' occasione aveva avuto un abboccamento con Hitler (che la prima volta non riconobbe: lo scambiò per un maggiordomo e gli affidò la giacca). Subito dopo, però, ne fu ammaliato. Si complimentò davanti a tutti con il dittatore nazista riconoscendogli di aver «reso grandi servigi alla Germania» e disse che «se in Inghilterra l' opinione pubblica si era dimostrata critica in parte dipendeva dal fatto che il popolo inglese non era del tutto consapevole» dei meriti di Hitler. Scrisse poi un appunto a Eden (contrario all' incontro) in cui rivelava di aver discusso con Hitler delle «modifiche dell' assetto europeo che avrebbero potuto verificarsi con il tempo».

Confidò a Stanley Baldwin la propria ammirazione per i cardini dell' ideologia nazionalsocialista («nazionalismo e razzismo sono una forza straordinaria suppongo che, al loro posto, la penseremmo allo stesso modo», gli disse parlando dei nazisti). Diede, con un anno di anticipo, una sorta di luce verde all' annessione dell' Austria: «Il popolo britannico», sentenziò, «non acconsentirebbe mai a entrare in guerra perché due Paesi tedeschi hanno deciso di fondersi». E quando fu nominato ministro degli Esteri restò delle stesse opinioni.

Il 12 ottobre del 1938, undici mesi prima dell' esplosione della guerra, l' ambasciatore americano a Londra, Joseph Kennedy, ebbe con lui un incontro e così relazionò a Washington: «Halifax non crede che Hitler voglia entrare in conflitto con la Gran Bretagna, né che per la Gran Bretagna abbia senso entrare in guerra con Hitler, a meno di un' interferenza diretta nei domini inglesi». Halifax, secondo Kennedy, suggeriva di salvaguardare gli interessi angloamericani e di «lasciare che Hitler continuasse a fare i propri comodi in Europa centrale», e che «facesse quel che voleva per se stesso».

Tutto ciò in Inghilterra alla fine degli anni Trenta appariva nient' affatto riprovevole, anzi «realistico». I colleghi di partito apprezzavano Halifax (anche quelli che criticavano Chamberlain, che del resto pensava le stesse cose del suo ministro), e così anche i laburisti. Halifax poteva inoltre vantare un rapporto di autentica amicizia con il re Giorgio VI. Così, quando Chamberlain decise di farsi da parte, il sovrano fece l' impossibile per sostituirlo con Halifax. Ma fu proprio questa insistenza di Chamberlain e di Giorgio VI a provocare in Halifax un' esitazione. Prevedeva lucidamente che la Norvegia fosse solo l' inizio della catastrofe, che le armate hitleriane avrebbero travolto l' intera Europa continentale e temeva che l' ira del Parlamento, già coagulatasi contro Chamberlain, si sarebbe ripresentata, ancora più forte, a danno del suo successore.

Soprattutto se il nuovo premier si fosse presentato, come era nel suo caso, in una esplicita linea di continuità. Ritenne che fosse più prudente saltare un giro, attendere che l' onda negativa travolgesse qualcun altro, per poi riapparire sulla scena con un piano negoziale concordato insieme a Benito Mussolini (e tramite lui con Hitler). I suoi compatrioti, pensava, lo avrebbero salutato come colui che aveva riportato la pace. A un prezzo - il consenso alla dominazione nazista sull' Europa continentale e qualche concessione nelle colonie - che sarebbe apparso irrisorio.

Churchill appena nominato da Giorgio VI (malvolentieri) alla guida del governo, confermò agli Esteri Halifax, con il quale aveva rapporti ostili da una ventina di anni e che aveva soprannominato The Holy Fox (la volpe furba). Poi pronunciò il celeberrimo discorso in cui prometteva agli inglesi «sangue, fatica, lacrime e sudore». E mentre Hitler invadeva la Francia provocandone l' immediato collasso, sfidò costantemente Halifax (e con lui Chamberlain, probabilmente anche il sovrano) a uscire allo scoperto con il loro «piano di pace».

Il momento della verità giunse, dopo una lunga serie di sconfitte militari, con le riunioni del gabinetto di guerra il 26 e 27 maggio. Il 25 Halifax aveva incontrato l' ambasciatore italiano a Londra Giuseppe Bastianini - una personalità di grande rilievo politico - e aveva concordato con lui le mosse da fare (un passo a cui McCarten attribuisce grandissima importanza). Parigi stava cadendo nelle mani dei nazisti, oltre 300 mila soldati inglesi erano intrappolati sulla costa settentrionale della Francia e la Gran Bretagna appariva alla mercé degli umori di Hitler. Halifax passò all' attacco. Accusò Churchill di non essere sufficientemente lucido e ripropose di sondare Mussolini («preoccupato come crediamo per il potere di Hitler») in vista del famoso negoziato.

Chamberlain annotò sul diario che Churchill dava l' impressione di essere scettico ma, a questo punto, se avesse potuto «trarsi d' impaccio» rinunciando a Malta, Gibilterra e qualche colonia africana, secondo lui, avrebbe «colto l' occasione al volo». E mentre il primo ministro varava l' operazione «Dynamo» per rimpatriare da Dunkerque quanti più militari inglesi possibile, Halifax lo mise con le spalle al muro: «Se scoprissimo di poter ottenere (da Hitler) condizioni che non presuppongono l' annientamento della nostra indipendenza, saremmo degli sciocchi a non accettarle».


Churchill appariva prostrato, confuso e pronto a cedere all' idea prospettata da Halifax. L' uomo, scrive McCarten, «si trovò messo nell' angolo e dovette riconoscere (la prima di una lunga serie di concessioni le quali, secondo lo storico, metterebbero in discussione l' immagine che abbiamo di lui, ndr ) che pur dubitando dell' utilità di un confronto con l' Italia la questione meritava il vaglio del Gabinetto di guerra».

In quel momento Churchill «prese in seria considerazione l' ipotesi di trattare la pace con Hitler», scrive McCarten, «per quanto tale idea possa oggi sembrarci disgustosa». So bene, prosegue l' autore, «che questa conclusione è impopolare e che mi pone in rotta di collisione con la quasi totalità degli storici e degli studiosi». Ma non si può non tenere conto di «un progressivo cedimento della sua precedente propensione a combattere a ogni costo, e un crescente interesse per l' ipotesi di negoziare la pace». In quel momento Churchill effettivamente diede disposizione che il ministro degli Esteri predisponesse un memorandum in cui venivano fissati i termini dell' iniziativa di pace. Si era arrivati a un passo dalla sua resa. Dopo di che sarebbe stato disarcionato e, quando la «mediazione Mussolini» fosse andata in porto, con ogni probabilità sarebbe stato sostituito con lo stesso Halifax.

A sorpresa, però, l' operazione Dynamo diede risultati insperati, oltre 330 mila soldati inglesi riuscirono a tornare nell' isola. Ma soprattutto Giorgio VI vinse le diffidenze della prim' ora, manifestò a Churchill il proprio impegno al suo fianco. Il primo ministro si riprese e giunse ad una resa dei conti con Halifax. Durissima. Churchill disse ad Halifax: «L' approccio che proponete è non solo futile, ma mortalmente pericoloso». E Halifax rispose così: «Qui il pericolo mortale è la romantica fantasticheria di combattere fino all' ultimo Cosa vuol dire "l' ultimo" se non la completa devastazione?». Churchill di rimando: «Ma quando la apprenderete la lezione? Dio santo! Quanti dittatori dovremo ancora vezzeggiare, blandire, favorire con immensi privilegi per capire che non si può ragionare con una tigre quando si ha la testa nelle sue fauci!».

Halifax: «Signor primo ministro, penso sia necessario mettere agli atti che se è questa la vostra unica prospettiva allora, sappiatelo, le nostre strade si dividono». E la «divisione delle strade» - questo era il senso della sfida - avrebbe fatto cadere il governo. Ma quel guanto fu lanciato in ritardo. Churchill con il sostegno del re e del Parlamento, conquistato con il secondo celeberrimo discorso nel quale impegnava il Paese a combattere «fino a quando Dio lo vorrà», piegò addirittura Chamberlain e riuscì a isolare Halifax. Che avrebbe mantenuto agli Esteri qualche mese per poi farlo fuori mandandolo, come ambasciatore, negli Stati Uniti.

venerdì 5 gennaio 2018

La Grande Guerra

Vittorio Feltri per Libero Quotidiano

Un secolo fa, nel 1918, si concluse la Prima guerra mondiale, che noi pensammo e ancora pensiamo di aver vinto. Sciocchezza, falsità utilizzata dai retori dell' epoca allo scopo di esaltare il cosiddetto amor patrio. La nostra fu una sconfitta in ogni senso, politico e militare.

Non si capisce perché partecipammo al conflitto. Se interroghi qualunque studente universitario in proposito non sa come rispondere oppure ripete una serie di luoghi comuni in cui lui stesso non crede. Provate a trasformare questa domanda sui motivi del nostro intervento in una sorta di test e scoprirete che nessuno sa qualcosa sulla tragedia in questione. Morirono centinaia di migliaia di uomini nelle trincee e durante gli assalti assurdi alle truppe austriache, e non abbiamo capito chi ce lo abbia fatto fare di organizzare ai nostri confini nordici una enorme macelleria.

L' Unità d' Italia era fresca, aveva poco più di 50 anni, e un brutto dì gli idioti del governo e del Parlamento, non certo migliori degli attuali, decisero di buttarsi in battaglia per ottenere non si sa quali benefici. I nostri soldati erano ignari dei motivi per cui dovevano andare in montagna a farsi massacrare e a massacrare colleghi stranieri. Le soldatesche sotto il tricolore che combattevano lassù tra i bricchi non parlavano neppure la lingua italiana, si esprimevano in massima parte nel dialetto della loro regione. A fatica si comprendevano.

D' altronde tra un alpino bergamasco e uno abruzzese, a quei tempi, l' incomunicabilità era totale. Essi erano uniti da un solo denominatore comune, costituito dalla sofferenza fisica, ai limiti della resistenza, e dalla paura di morire, che poi era una certezza. L' ordine dei generali, lacchè dei politici dissennati, era secco e indiscutibile: premere il grilletto e uccidere il nemico presunto.

Accadde di tutto durante le carneficine. Gli alpini che andavano avanti cadevano sotto i colpi austriaci, quelli che giustamente cercavano scampo indietreggiando erano ammazzati dagli ufficiali al grido: «crepate traditori e vigliacchi». E adesso c' è ancora chi ci viene a raccontare che quella sul Grappa e quella lungo il Piave furono pagine eroiche. Menzogne. La disperazione e il terrore spinsero i nostri militari denutriti e sfiancati a reagire: non volevano perire; della Patria, che manco sapevano cosa fosse, non gliene importava un accidente.


Gli storici, insufflati dai servi del potere, non hanno mai detto la verità. E quando i cannoni hanno smesso di sparare, hanno cominciato a sparare cazzate gli strateghi da salotto romano, dipingendo le intrepide gesta del nostro esercito quale prova dell'italico valore. Oggi, nonostante il tempo trascorso, che avrebbe dovuto indurre gli studiosi a rivedere la realtà alla luce della ragionevolezza, siamo tuttora qui ad abbeverarci ai sacri testi del militarismo più vieto, e seguitiamo a ruminare retorica per lodare il sacrificio dei soldati trucidati ubbidendo alla regia volontà.

Tutto ciò è insopportabile. Reiterare le bugie a scopo propagandistico è un esercizio ignobile, che rifiutiamo, al quale tuttavia pochi si sottraggono. Come cittadini, che conoscono a fondo l' Italia e la sua miseria intellettuale, ci vergogniamo di assistere a certe sceneggiate disgustose o, peggio, ridicole.

Nel rispetto delle vittime della Prima guerra mondiale, invochiamo almeno un po' di silenzio: basta far passare da scemi gli alpini che ci lasciarono la pelle per non realizzare i sogni di gloria d' un manipolo di deficienti seduti in poltrona. Dal gravissimo evento bellico il Paese non ricavò alcun vantaggio, ma solo funerali di terza categoria: nessuna pensione per i superstiti e un immenso dolore per i familiari.

Per comprendere quanto avvenne sulle Alpi è più utile ascoltare una canzone napoletana del 1915 'O surdato 'nnammurato che leggere tanti libri scritti da tromboni stonati e prezzolati.

mercoledì 3 gennaio 2018

Tom Wolfe

Alexandre Devecchio per Le Figaro / LENA, Leading European Newspaper Alliance pubblicato da la Repubblica

È uno dei più importanti scrittori viventi. Forse il più grande "scrittore francese" contemporaneo, tanto la sua opera è impregnata di quelle di Zola e Balzac. Il progetto dell' autore delle Illusioni perdute era di identificare le "specie sociali" dell' epoca, «scrivere la storia dimenticata da tanti storici, quella dei costumi».

E nello stesso modo Tom Wolfe, inventore del New Journalism, è l' etnologo delle tribù postmoderne: gli astronauti ( La stoffa giusta, 1979), i golden boys di Wall Street ( Il falò delle vanità, 1987), gli studenti decadenti delle grandi università ( Io sono Charlotte Simmons, 2004).

Vestirsi di bianco, come fa sempre, è un diversivo. Un modo per distrarre l' attenzione e non dover parlare troppo della propria arte o di se stesso. Alla psicologia e alle spiegazioni testuali Wolfe ha sempre preferito i fatti e le lunghe descrizioni, ma, a 86 anni, il dandy reazionario non ha più niente da perdere e non si sottrae a nessun argomento. Il fenomeno Harvey Weinstein - con le sue conseguenze - potrebbe essere, secondo lui, «la più grande farsa del Ventunesimo secolo».

In uno dei suoi libri, "Radical Chic", lei fustiga il politicamente corretto, la sinistra intellettuale, la tirannia delle minoranzeL' elezione di Donald Trump è una conseguenza di quel politicamente corretto?
«In quel reportage, inizialmente pubblicato nel giugno 1970 sul New York Magazine, descrivevo una serata organizzata il 14 gennaio precedente dal compositore Leonard Bernstein nel suo appartamento di tredici stanze con terrazzo, distribuito su due piani. Lo scopo della festa era una raccolta fondi per l' organizzazione Black Panther


Gli ospiti si erano premurati di assumere dei domestici bianchi per non urtare la sensibilità delle Panthers. Il politicamente corretto, da me soprannominato PC - che sta per "polizia cittadina" - è nato dall' idea marxista che tutto quello che separa socialmente gli esseri umani deve essere bandito per evitare il predominio di un gruppo sociale su un altro.

In seguito, ironicamente, il politicamente corretto è diventato uno strumento delle "classi dominanti", l' idea di un comportamento appropriato per mascherare meglio il loro "predominio sociale" e mettersi la coscienza a posto. A poco a poco, il politicamente corretto è perfino diventato un marcatore di questo "predominio" e uno strumento di controllo sociale, un modo di distinguersi dai "bifolchi" e di censurarli, di delegittimare la loro visione del mondo in nome della morale.

Ormai la gente deve fare attenzione a quello che dice. E va di male in peggio, specialmente nelle università. La forza di Trump nasce probabilmente dall' aver rotto con questa cappa di piombo. Per esempio, la gente molto ricca in genere tiene un profilo basso mentre lui se ne vanta. Suppongo che una parte degli elettori preferisca questo all' ipocrisia dei politici conformisti».
  
Nella sua opera, la posizione sociale è la chiave principale per la comprensione del mondo. Il voto per Trump è il voto di quelli che non hanno o non hanno più una posizione sociale o di quelli la cui posizione sociale è stata disprezzata?
«Attraverso Radical Chic descrivevo l' emergere di quella che oggi chiameremmo la "gauche caviar" o il "progressismo da limousine", vale a dire una sinistra che si è ampiamente liberata di qualsiasi empatia per la classe operaia americana.

Una sinistra che adora l' arte contemporanea, si identifica in cause esotiche e nella sofferenza delle minoranze ma disprezza i rednecks (bifolchi ndr) dell' Ohio. Certi americani hanno avuto la sensazione che il partito democratico fosse così impegnato a fare qualsiasi cosa per sedurre le diverse minoranze da arrivare a trascurare una parte considerevole della popolazione.

In pratica quella parte operaia della popolazione che, storicamente, ha sempre costituito il midollo del partito democratico. Durante queste elezioni l' aristocrazia democratica ha deciso di favorire una coalizione di minoranze e di escludere dalle sue preoccupazioni la classe operaia bianca. E a Donald Trump è bastato chinarsi a raccogliere tutti quegli elettori e convogliarli sulla sua candidatura».


Che considerazioni le ispirano l'affare Weinstein e la polemica #MeToo?
«Nessuno si prende la briga di definire correttamente cosa si intende per aggressione sessuale. È una categoria estremamente sommaria che va dal tentato stupro alla semplice attrazione, e da questa confusione nascono tutti gli eccessi. Sono diviso tra lo spavento, come cittadino, e il divertimento, come romanziere, per questa meravigliosa commedia umana. Se continua di questo passo, questa storia può diventare la più grossa farsa del Ventunesimo secolo. Sulla stampa, ancora adesso sul New York Post e sul New York Times, ci sono articoli in prima pagina con titoli a caratteri cubitali.
Oggi qualsiasi uomo dedichi qualsiasi sorta di attenzioni a qualsiasi donna, per esempio sul posto di lavoro, diventa un "predatore". Da quando è scoppiato il caso Weinstein, sento dappertutto uomini che dicono alle giovani donne che frequentano "non dovrei farmi vedere con te in questo o quel posto", "lavoriamo nella stessa impresa e sono in una posizione più alta della tua, farebbe una pessima impressione". Ormai gli uomini si preoccupano perché trovano attraenti certe donne. Improvvisamente ci ritroviamo in opposizione con le leggi naturali dell' attrazione che ora bisognerebbe ignorare.

Nessuno parla di quelle donne, tuttavia numerose, che provano un piacere concreto e considerevole a incontrare sul posto di lavoro un collega che trovano attraente. Un uomo che altrimenti non avrebbero avuto occasione di incontrare.


Penso che il mondo non sia cambiato così tanto da mettersi a proclamare che oggi all' improvviso le donne non vogliono più suscitare l' attenzione degli uomini. In realtà non è cambiato niente, eccetto il fatto che le donne dispongono di un potente strumento di intimidazione che prima non avevano.

Adesso possono rimettere al loro posto gli uomini le cui attenzioni sono troppo estreme o che esse giudicano troppo volgari, possono eliminare un rivale sul piano professionale o magari vendicarsi di un amante "troppo mascalzone". Per accusare qualcuno di aggressione sessuale sembra che ormai basti la parola di una donna e alcuni stanno già chiedendo un rovesciamento dell' onere della prova e che sia l' uomo sospettato a dover provare la propria innocenza».


 
Lei è l' inventore del New Journalism, un giornalismo che nella forma si avvicina alla letteratura ma che si fonda anche sul dettaglio delle ricerche e la precisione dei fatti riportati. L' era del digitale e dell' immediatezza ha spazzato via questo modo di fare informazione?
«A quel tempo, bastava scendere in strada e fare delle domande alla gente. Utilizzavo quella che chiamo la tecnica del marziano. Arrivavo e dicevo: "Sembra interessante quello che state facendo! Io vengo da Marte e non so niente: che cos'è?". Oggi certi giornalisti non escono mai dall' ufficio. Scrivono gli articoli navigando in internet. Ma non c' è alternativa: bisogna uscire!
Quando dei giovani scrittori o giornalisti mi chiedono un consiglio, cosa che capita raramente, io rispondo sempre: "Esci!"».


IL PANE

  Maurizio Di Fazio per il  “Fatto quotidiano”   STORIA DEL PANE. UN VIAGGIO DALL’ODISSEA ALLE GUERRE DEL XXI SECOLO Da Omero che ci eternò ...