venerdì 5 gennaio 2018

La Grande Guerra

Vittorio Feltri per Libero Quotidiano

Un secolo fa, nel 1918, si concluse la Prima guerra mondiale, che noi pensammo e ancora pensiamo di aver vinto. Sciocchezza, falsità utilizzata dai retori dell' epoca allo scopo di esaltare il cosiddetto amor patrio. La nostra fu una sconfitta in ogni senso, politico e militare.

Non si capisce perché partecipammo al conflitto. Se interroghi qualunque studente universitario in proposito non sa come rispondere oppure ripete una serie di luoghi comuni in cui lui stesso non crede. Provate a trasformare questa domanda sui motivi del nostro intervento in una sorta di test e scoprirete che nessuno sa qualcosa sulla tragedia in questione. Morirono centinaia di migliaia di uomini nelle trincee e durante gli assalti assurdi alle truppe austriache, e non abbiamo capito chi ce lo abbia fatto fare di organizzare ai nostri confini nordici una enorme macelleria.

L' Unità d' Italia era fresca, aveva poco più di 50 anni, e un brutto dì gli idioti del governo e del Parlamento, non certo migliori degli attuali, decisero di buttarsi in battaglia per ottenere non si sa quali benefici. I nostri soldati erano ignari dei motivi per cui dovevano andare in montagna a farsi massacrare e a massacrare colleghi stranieri. Le soldatesche sotto il tricolore che combattevano lassù tra i bricchi non parlavano neppure la lingua italiana, si esprimevano in massima parte nel dialetto della loro regione. A fatica si comprendevano.

D' altronde tra un alpino bergamasco e uno abruzzese, a quei tempi, l' incomunicabilità era totale. Essi erano uniti da un solo denominatore comune, costituito dalla sofferenza fisica, ai limiti della resistenza, e dalla paura di morire, che poi era una certezza. L' ordine dei generali, lacchè dei politici dissennati, era secco e indiscutibile: premere il grilletto e uccidere il nemico presunto.

Accadde di tutto durante le carneficine. Gli alpini che andavano avanti cadevano sotto i colpi austriaci, quelli che giustamente cercavano scampo indietreggiando erano ammazzati dagli ufficiali al grido: «crepate traditori e vigliacchi». E adesso c' è ancora chi ci viene a raccontare che quella sul Grappa e quella lungo il Piave furono pagine eroiche. Menzogne. La disperazione e il terrore spinsero i nostri militari denutriti e sfiancati a reagire: non volevano perire; della Patria, che manco sapevano cosa fosse, non gliene importava un accidente.


Gli storici, insufflati dai servi del potere, non hanno mai detto la verità. E quando i cannoni hanno smesso di sparare, hanno cominciato a sparare cazzate gli strateghi da salotto romano, dipingendo le intrepide gesta del nostro esercito quale prova dell'italico valore. Oggi, nonostante il tempo trascorso, che avrebbe dovuto indurre gli studiosi a rivedere la realtà alla luce della ragionevolezza, siamo tuttora qui ad abbeverarci ai sacri testi del militarismo più vieto, e seguitiamo a ruminare retorica per lodare il sacrificio dei soldati trucidati ubbidendo alla regia volontà.

Tutto ciò è insopportabile. Reiterare le bugie a scopo propagandistico è un esercizio ignobile, che rifiutiamo, al quale tuttavia pochi si sottraggono. Come cittadini, che conoscono a fondo l' Italia e la sua miseria intellettuale, ci vergogniamo di assistere a certe sceneggiate disgustose o, peggio, ridicole.

Nel rispetto delle vittime della Prima guerra mondiale, invochiamo almeno un po' di silenzio: basta far passare da scemi gli alpini che ci lasciarono la pelle per non realizzare i sogni di gloria d' un manipolo di deficienti seduti in poltrona. Dal gravissimo evento bellico il Paese non ricavò alcun vantaggio, ma solo funerali di terza categoria: nessuna pensione per i superstiti e un immenso dolore per i familiari.

Per comprendere quanto avvenne sulle Alpi è più utile ascoltare una canzone napoletana del 1915 'O surdato 'nnammurato che leggere tanti libri scritti da tromboni stonati e prezzolati.

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