di PAOLO MIELI
Quando nel 1517 si trovò a dover gestire il «caso Lutero», il fiorentino Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico, aveva quarantadue anni, quattro dei quali già vissuti da Papa, con il nome di Leone X. Era stato avviato alla carriera religiosa quando di anni ne aveva sette, nominato cardinale — dopo un complesso negoziato tra suo padre e Innocenzo VIII — a tredici e, appena divenuto Papa (nel 1513), aveva affidato l’archidiocesi fiorentina al cugino Giulio de’ Medici. Il quale Giulio era figlio di Giuliano, fratello di Lorenzo il Magnifico, morto per un colpo di pugnale al culmine della congiura dei Pazzi (1478). Poco dopo avergli «donato» l’archidiocesi, Giovanni nominò Giulio cardinale e, successivamente, lo volle al proprio fianco come vicecancelliere, cioè nelle vesti di consigliere politico.
Uno dei non trascurabili meriti di Lutero l’eretico. La Riforma protestante vista da Roma— il libro di Volker Reinhardt che Marsilio si accinge a dare alle stampe a cinquecento anni esatti dall’affissione delle 95 tesi sul portone della chiesa del castello di Wittenberg (anche se Gianfranco Ravasi, sulla base di recenti studi, ha messo in dubbio che ciò sia accaduto nei termini in cui ci è stato tramandato) — uno dei meriti del libro, dicevamo, consiste nell’aver tratteggiato con accuratezza la figura di Leone X, il Papa che si trovò ad affrontare quella che per la Chiesa fu una crisi assai grave. L’autore, pur mettendone in evidenza i passi falsi, smonta una per una le leggende che dal Cinquecento hanno avvolto la figura del Pontefice fiorentino. A cominciare da quella che gli attribuì le parole: «Dio ci ha dato il papato, godiamocelo». Questo, tiene a precisare Reinhardt, «non tanto per riabilitare il papato rinascimentale, quanto per considerare nella sua interezza un processo storico complesso»
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Per una singolare coincidenza, l’anno in cui Martin Lutero uscì allo scoperto, il 1517, fu lo stesso di una pericolosa cospirazione ordita ai danni di Leone X da un gruppo di cardinali guidati dal senese Alfonso Petrucci, che fu poi strangolato a Castel Sant’Angelo. Il cardinale Raffaele Sansoni Riario, nipote di Sisto IV della Rovere, che, se il complotto avesse avuto successo, avrebbe dovuto sostituire Papa Medici, dovette rinunciare — per punizione — alla proprietà del suo grande palazzo vicino a Campo de’ Fiori. Ma la vera rappresaglia per il tentativo di golpe subìto fu, secondo Reinhardt, la nomina da parte di Leone X di trentuno nuovi cardinali, «sei in più di quelli che avevano partecipato alla sua elezione quattro anni prima». Sicché, «con l’improvviso raddoppio del numero dei cardinali, il rapporto di forza tra Papa e collegio cardinalizio si spostò decisamente a vantaggio del secondo». Il che in quel frangente rinvigorì la posizione di Giovanni de’ Medici. Da quel momento la missione che Leone X (sul quale il giudizio di Reinhardt, pur senza minimamente giustificare le degenerazioni del pontificato rinascimentale, è complessivamente positivo) si assegnò fu quella di destreggiarsi tra Francia e Spagna, anche al prezzo di trascurare le terre tedesche. Terre da cui il Pontefice tentò ugualmente di trarre il massimo beneficio per la Chiesa (nonché per la propria famiglia).
Fu nell’ambito del mantenimento di questo complicato equilibrio che Giovanni de’ Medici avvertì tra i primi lo scricchiolio che nel 1517 si produsse a Wittenberg. L’umanista Girolamo Aleandro — detto dai suoi nemici «Aleandro il marrano» per la sua eccellente conoscenza dell’ebraico — che, per conto del Pontefice, era stato a lungo nella terra di Lutero, aveva messo Leone X prontamente in allarme a proposito del fatto che in Germania si stava preparando una «tempesta di inusitata violenza». I tedeschi, avvertiva Aleandro, erano convinti di essere «depredati dalla Curia». Ma per Leone X la Germania era e restava periferia, «anche se ciò era dissimulato, conformemente al suo ruolo ufficiale di padre di tutti i cristiani».
Leone X, pur non avendo letto personalmente le tesi luterane, intuì dunque immediatamente le dimensioni della valanga che si era messa in moto a Wittenberg. In una lettera a Gabriele della Volta — appena eletto generale degli eremiti agostiniani in sostituzione di Egidio da Viterbo, elevato al rango di cardinale — Papa Medici scriveva: «Voglio che vi occupiate in prima persona del problema Martin Lutero, un prete del vostro ordine. Come sicuramente saprete, questi introduce in Germania innovazioni senza precedenti e insegna ai nostri popoli nuove credenze. Dovreste contrastare questi intrighi con l’autorità che vi conferisce la vostra carica… Se realizzate il tutto rapidamente, a mio parere questa fiamma potrà spegnersi al più presto. Tutto ciò che è ancora piccolo e concepito sul nascere, non regge a contromisure forti. Ma se voi aspettate, ove mai il male acquistasse forza, temo che non potremo più spegnere l’incendio con nessun mezzo» (3 febbraio 1518).
Lutero in ogni caso non si piegò. Si giunse così, nel giugno del 1520, alla Bolla di scomunica. C’è un dettaglio di questa Bolla che colpisce Reinhardt ed è l’accusa di collaborazione segreta con i turchi. Che senso aveva quell’imputazione? Lutero avrebbe detto che la lotta contro i turchi sarebbe stata contro la volontà di Dio, il quale, tramite i musulmani, avrebbe inteso punire l’ingiustizia dei cristiani. In realtà, osserva lo storico, Lutero aveva effettivamente fatto riferimento ai turchi come alla «virga» con la quale Dio stava castigando i cristiani, dimentichi dei loro impegni. Aveva detto anche che, prima di inneggiare alla «guerra turca», le potenze d’Europa avrebbero dovuto pentirsi dei loro peccati e che, solo in seguito a questo atto di pentimento, la lotta contro i nemici del cristianesimo avrebbe potuto avere successo. Ma la verità era che Lutero non aveva dubbi sul fatto che la guerra contro l’Impero ottomano nelle condizioni dette era voluta da Dio e quindi poteva essere considerata una missione cristiana. Bollarlo in modo sommario come simpatizzante degli infedeli, significava «stravolgere il senso delle sue parole» e di ciò «chiunque avesse letto i suoi scritti avrebbe potuto convincersi».
Davvero, si domanda Reinhardt, «la Curia era così ottusa da non comprendere l’autentico significato delle sue affermazioni»? E davvero «era così prevenuta rispetto all’immagine del nemico da attribuire all’eretico anche questo tradimento del cristianesimo»? La risposta a queste domande è che «ci sono molti indizi che la percezione romana della parte opposta era all’epoca già così offuscata da attribuirgli di riflesso le motivazioni più basse». Fu a quel punto, in ogni caso, che i rapporti di forza tra il grande Pontefice e il grande eretico iniziarono a capovolgersi. E Lutero approfittò dell’occasione: il 10 dicembre del 1520 , assieme ai suoi studenti, diede alle fiamme la bolla di scomunica davanti alle mura di Wittenberg.
Il 27 gennaio 1521 ebbe inizio la Dieta di Worms che, malgrado la Bolla di scomunica avesse suscitato in Germania una tempesta di indignazione, si concluse con un editto di condanna imperiale nei confronti di Lutero (16 maggio). Eppure Lutero conobbe in quella Dieta un suo personale successo. Aleandro aveva lottato fino all’ultimo per evitare che al monaco fosse concesso il diritto di parlare. Poi fu lo stesso Aleandro a pronunciare, il 13 febbraio, al cospetto dei prìncipi elettori, una requisitoria di tre ore contro l’eretico. Il 16 aprile però fu concessa la parola a Lutero. Il quale, a differenza di Aleandro, sottolinea Reinhardt, «aveva in mente con precisione chi fossero le persone che lo avrebbero ascoltato: io sono tedesco, franco e diretto, la finzione ad arte non è cosa per me — così suonava il suo messaggio d’esordio che doveva procurargli la simpatia per lo meno dei principi tedeschi», sintetizza Reinhardt.
Nel 1521 Leone X morì, all’età di quarantasei anni. Il conclave a quel punto restò paralizzato ed esitò di fronte alla prospettiva di nominare Papa un altro Medici. Nel gennaio del 1522 fu individuato un successore: il sessantatreenne Adriaan Florensz, nato a Utrecht (sarebbe stato l’ultimo Papa non italiano prima di Giovanni Paolo II), al momento vescovo di Tortosa in Spagna. Prese il nome di Adriano VI e per indole avrebbe potuto aprire alla Riforma: invitò a Roma Erasmo da Rotterdam che, però, scelse di restare a Basilea. Costretto a proseguire nella politica dei grandi equilibri inaugurata dal suo predecessore, ostaggio di una curia più che ostile nei suoi confronti, Adriano VI morì dopo un anno e mezzo di pontificato, nel 1523.
E fu la volta dell’altro Medici. Dopo otto anni da «vice-Papa» di Leone X, Giulio de’ Medici ascese a sua volta al soglio pontificio il 19 novembre 1523 e prese il nome di Clemente VII. Fu Francesco Guicciardini il primo a interrogarsi sulla politica «irragionevole» di quel Pontefice che, pur essendo un intellettuale di notevole spessore, di lì alla morte (1534) diede alla Chiesa un decennio di totale incertezza. Tant’è che il grande storico tedesco della Riforma Leopold von Ranke lo avrebbe definito, nell’Ottocento, il «più nefasto di tutti i Papi». Appena giunto, con fatica, ad una decisione, dopo una lunga riflessione su vantaggi e svantaggi della stessa, scrive Reinhardt (sulla scia dell’analisi guicciardiniana), Clemente VII cadeva preda della «forza persuasiva delle ragioni opposte»; al punto da revocare la decisione presa poco prima ed emanare un ordine contrario.
Leone X e Giulio de’ Medici erano stati «una squadra forte perché neutralizzavano reciprocamente le loro debolezze». Con Clemente VII, invece, regnò il caos in Vaticano, a maggior ragione per il fatto che le lobby del partito francese e di quello spagnolo si bilanciavano in Curia. Fu proprio Francesco Guicciardini a rilevare che spesso venivano inviati corrieri con importanti aperture verso Francia o Spagna ai quali, a breve distanza, seguivano messaggeri che revocavano le disposizioni precedenti. Talvolta mandando a monte accordi appena conclusi. In questo modo, secondo Reinhardt, «venivano disattesi trattati validi e fomentati i rancori». Per di più il nuovo Papa Medici «non aveva fiuto per i pericoli che si avvicinavano, vedeva rischi dove non esistevano e li sottovalutava dove, invece, diventavano minacciosi». Ma, osserva lo storico, «per quanto queste diagnosi siano indiscutibilmente corrette, esse non sono sufficienti a spiegare i fenomeni di dissoluzione, fino al limite dell’autodistruzione, del centro di potere vaticano tra il 1524 e il 1534».
Per quel che riguarda Lutero, poi, assai grave fu l’equivoco in cui Clemente VII cadde nel 1525, quando ritenne esser l’eretico l’ispiratore della guerra dei contadini che sconvolse gran parte della Germania meridionale. E che perciò, dopo la sconfitta dei rivoltosi, avrebbe pagato le conseguenze di quell’azzardo. Sfuggì alla Curia che nella sanguinaria repressione della guerra dei contadini si erano «concordemente uniti i prìncipi imperiali cattolici e quelli luterani». Venne così allo scoperto «l’incapacità romana di distinguere tra i riformisti radicali, come Thomas Müntzer», e la Riforma fedele all’autorità. Clemente VII sarebbe morto nel 1534 (dopo essersi opposto al divorzio di Enrico VIII d’Inghilterra da Caterina d’Aragona e aver provocato lo scisma anglicano). Lutero fece in tempo a cimentarsi con un altro Papa, Paolo III (Alessandro Farnese), e morì nel 1546.
Oggi «non si tratta di stabilire chi avesse torto e chi ragione — come accadeva nel XVI secolo — né chi sostenesse gli argomenti migliori o presentasse la moralità più alta». Nel libro di Reinhardt non ci sono né «buoni» né «cattivi», e neanche si esprimono preferenze per un partito o per l’altro. Soprattutto non ci si propone di stabilire chi sia stato il primo a «denunciare, diffamare o demonizzare», quanto piuttosto di riesaminare gli eventi al culmine dei quali si giunse a quella rottura che sconvolse la storia della Chiesa. La più grave dell’intero millennio.
La grande svolta che sconvolse le coscienze in tutta Europa
S’intitola Lutero l’eretico. La riforma protestante vista da Roma il libro dello storico tedesco Volker Reinhardt (traduzione di Claudio Bonaldi e Elisabetta Tangorra, Marsilio, pagine 320, e 28). Sui rapporti tra cattolici e luterani sono fondamentali i testi del cardinale Walter Kasper Martin Lutero. Una prospettiva ecumenica (Traduzione di Gianni Francesconi, Queriniana, 2016) e di papa Francesco Dialogo sulla fede. Un colloquio atteso da cinquecento anni (San Paolo, 2016). Da segnalare anche: Roland H. Bainton, Lutero (traduzione di Aldo Comba, Einaudi, 1960); Heinz Schilling, Martin Lutero (a cura di Roberto Tresoldi, Claudiana, 2016). Usciti da poco: Franco Ferrarotti, Attualità di Lutero (Ebd, pp. 72, e 7,50); Mario Dal Bello, Lutero. L’uomo della rivoluzione (Città nuova, pp. 136, e 13).
17 aprile 2017 (modifica il 17 aprile 2017 | 22:22)
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