domenica 23 aprile 2017

Chiesa e Lutero

di PAOLO MIELI
Quando nel 1517 si trovò a dover gestire il «caso Lutero», il fiorentino Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico, aveva quarantadue anni, quattro dei quali già vissuti da Papa, con il nome di Leone X. Era stato avviato alla carriera religiosa quando di anni ne aveva sette, nominato cardinale — dopo un complesso negoziato tra suo padre e Innocenzo VIII — a tredici e, appena divenuto Papa (nel 1513), aveva affidato l’archidiocesi fiorentina al cugino Giulio de’ Medici. Il quale Giulio era figlio di Giuliano, fratello di Lorenzo il Magnifico, morto per un colpo di pugnale al culmine della congiura dei Pazzi (1478). Poco dopo avergli «donato» l’archidiocesi, Giovanni nominò Giulio cardinale e, successivamente, lo volle al proprio fianco come vicecancelliere, cioè nelle vesti di consigliere politico.
Uno dei non trascurabili meriti di Lutero l’eretico. La Riforma protestante vista da Roma— il libro di Volker Reinhardt che Marsilio si accinge a dare alle stampe a cinquecento anni esatti dall’affissione delle 95 tesi sul portone della chiesa del castello di Wittenberg (anche se Gianfranco Ravasi, sulla base di recenti studi, ha messo in dubbio che ciò sia accaduto nei termini in cui ci è stato tramandato) — uno dei meriti del libro, dicevamo, consiste nell’aver tratteggiato con accuratezza la figura di Leone X, il Papa che si trovò ad affrontare quella che per la Chiesa fu una crisi assai grave. L’autore, pur mettendone in evidenza i passi falsi, smonta una per una le leggende che dal Cinquecento hanno avvolto la figura del Pontefice fiorentino. A cominciare da quella che gli attribuì le parole: «Dio ci ha dato il papato, godiamocelo». Questo, tiene a precisare Reinhardt, «non tanto per riabilitare il papato rinascimentale, quanto per considerare nella sua interezza un processo storico complesso»
.
Per una singolare coincidenza, l’anno in cui Martin Lutero uscì allo scoperto, il 1517, fu lo stesso di una pericolosa cospirazione ordita ai danni di Leone X da un gruppo di cardinali guidati dal senese Alfonso Petrucci, che fu poi strangolato a Castel Sant’Angelo. Il cardinale Raffaele Sansoni Riario, nipote di Sisto IV della Rovere, che, se il complotto avesse avuto successo, avrebbe dovuto sostituire Papa Medici, dovette rinunciare — per punizione — alla proprietà del suo grande palazzo vicino a Campo de’ Fiori. Ma la vera rappresaglia per il tentativo di golpe subìto fu, secondo Reinhardt, la nomina da parte di Leone X di trentuno nuovi cardinali, «sei in più di quelli che avevano partecipato alla sua elezione quattro anni prima». Sicché, «con l’improvviso raddoppio del numero dei cardinali, il rapporto di forza tra Papa e collegio cardinalizio si spostò decisamente a vantaggio del secondo». Il che in quel frangente rinvigorì la posizione di Giovanni de’ Medici. Da quel momento la missione che Leone X (sul quale il giudizio di Reinhardt, pur senza minimamente giustificare le degenerazioni del pontificato rinascimentale, è complessivamente positivo) si assegnò fu quella di destreggiarsi tra Francia e Spagna, anche al prezzo di trascurare le terre tedesche. Terre da cui il Pontefice tentò ugualmente di trarre il massimo beneficio per la Chiesa (nonché per la propria famiglia).
Fu nell’ambito del mantenimento di questo complicato equilibrio che Giovanni de’ Medici avvertì tra i primi lo scricchiolio che nel 1517 si produsse a Wittenberg. L’umanista Girolamo Aleandro — detto dai suoi nemici «Aleandro il marrano» per la sua eccellente conoscenza dell’ebraico — che, per conto del Pontefice, era stato a lungo nella terra di Lutero, aveva messo Leone X prontamente in allarme a proposito del fatto che in Germania si stava preparando una «tempesta di inusitata violenza». I tedeschi, avvertiva Aleandro, erano convinti di essere «depredati dalla Curia». Ma per Leone X la Germania era e restava periferia, «anche se ciò era dissimulato, conformemente al suo ruolo ufficiale di padre di tutti i cristiani».
Leone X, pur non avendo letto personalmente le tesi luterane, intuì dunque immediatamente le dimensioni della valanga che si era messa in moto a Wittenberg. In una lettera a Gabriele della Volta — appena eletto generale degli eremiti agostiniani in sostituzione di Egidio da Viterbo, elevato al rango di cardinale — Papa Medici scriveva: «Voglio che vi occupiate in prima persona del problema Martin Lutero, un prete del vostro ordine. Come sicuramente saprete, questi introduce in Germania innovazioni senza precedenti e insegna ai nostri popoli nuove credenze. Dovreste contrastare questi intrighi con l’autorità che vi conferisce la vostra carica… Se realizzate il tutto rapidamente, a mio parere questa fiamma potrà spegnersi al più presto. Tutto ciò che è ancora piccolo e concepito sul nascere, non regge a contromisure forti. Ma se voi aspettate, ove mai il male acquistasse forza, temo che non potremo più spegnere l’incendio con nessun mezzo» (3 febbraio 1518).
Lutero in ogni caso non si piegò. Si giunse così, nel giugno del 1520, alla Bolla di scomunica. C’è un dettaglio di questa Bolla che colpisce Reinhardt ed è l’accusa di collaborazione segreta con i turchi. Che senso aveva quell’imputazione? Lutero avrebbe detto che la lotta contro i turchi sarebbe stata contro la volontà di Dio, il quale, tramite i musulmani, avrebbe inteso punire l’ingiustizia dei cristiani. In realtà, osserva lo storico, Lutero aveva effettivamente fatto riferimento ai turchi come alla «virga» con la quale Dio stava castigando i cristiani, dimentichi dei loro impegni. Aveva detto anche che, prima di inneggiare alla «guerra turca», le potenze d’Europa avrebbero dovuto pentirsi dei loro peccati e che, solo in seguito a questo atto di pentimento, la lotta contro i nemici del cristianesimo avrebbe potuto avere successo. Ma la verità era che Lutero non aveva dubbi sul fatto che la guerra contro l’Impero ottomano nelle condizioni dette era voluta da Dio e quindi poteva essere considerata una missione cristiana. Bollarlo in modo sommario come simpatizzante degli infedeli, significava «stravolgere il senso delle sue parole» e di ciò «chiunque avesse letto i suoi scritti avrebbe potuto convincersi».
Davvero, si domanda Reinhardt, «la Curia era così ottusa da non comprendere l’autentico significato delle sue affermazioni»? E davvero «era così prevenuta rispetto all’immagine del nemico da attribuire all’eretico anche questo tradimento del cristianesimo»? La risposta a queste domande è che «ci sono molti indizi che la percezione romana della parte opposta era all’epoca già così offuscata da attribuirgli di riflesso le motivazioni più basse». Fu a quel punto, in ogni caso, che i rapporti di forza tra il grande Pontefice e il grande eretico iniziarono a capovolgersi. E Lutero approfittò dell’occasione: il 10 dicembre del 1520 , assieme ai suoi studenti, diede alle fiamme la bolla di scomunica davanti alle mura di Wittenberg.
Il 27 gennaio 1521 ebbe inizio la Dieta di Worms che, malgrado la Bolla di scomunica avesse suscitato in Germania una tempesta di indignazione, si concluse con un editto di condanna imperiale nei confronti di Lutero (16 maggio). Eppure Lutero conobbe in quella Dieta un suo personale successo. Aleandro aveva lottato fino all’ultimo per evitare che al monaco fosse concesso il diritto di parlare. Poi fu lo stesso Aleandro a pronunciare, il 13 febbraio, al cospetto dei prìncipi elettori, una requisitoria di tre ore contro l’eretico. Il 16 aprile però fu concessa la parola a Lutero. Il quale, a differenza di Aleandro, sottolinea Reinhardt, «aveva in mente con precisione chi fossero le persone che lo avrebbero ascoltato: io sono tedesco, franco e diretto, la finzione ad arte non è cosa per me — così suonava il suo messaggio d’esordio che doveva procurargli la simpatia per lo meno dei principi tedeschi», sintetizza Reinhardt.
Nel 1521 Leone X morì, all’età di quarantasei anni. Il conclave a quel punto restò paralizzato ed esitò di fronte alla prospettiva di nominare Papa un altro Medici. Nel gennaio del 1522 fu individuato un successore: il sessantatreenne Adriaan Florensz, nato a Utrecht (sarebbe stato l’ultimo Papa non italiano prima di Giovanni Paolo II), al momento vescovo di Tortosa in Spagna. Prese il nome di Adriano VI e per indole avrebbe potuto aprire alla Riforma: invitò a Roma Erasmo da Rotterdam che, però, scelse di restare a Basilea. Costretto a proseguire nella politica dei grandi equilibri inaugurata dal suo predecessore, ostaggio di una curia più che ostile nei suoi confronti, Adriano VI morì dopo un anno e mezzo di pontificato, nel 1523.
E fu la volta dell’altro Medici. Dopo otto anni da «vice-Papa» di Leone X, Giulio de’ Medici ascese a sua volta al soglio pontificio il 19 novembre 1523 e prese il nome di Clemente VII. Fu Francesco Guicciardini il primo a interrogarsi sulla politica «irragionevole» di quel Pontefice che, pur essendo un intellettuale di notevole spessore, di lì alla morte (1534) diede alla Chiesa un decennio di totale incertezza. Tant’è che il grande storico tedesco della Riforma Leopold von Ranke lo avrebbe definito, nell’Ottocento, il «più nefasto di tutti i Papi». Appena giunto, con fatica, ad una decisione, dopo una lunga riflessione su vantaggi e svantaggi della stessa, scrive Reinhardt (sulla scia dell’analisi guicciardiniana), Clemente VII cadeva preda della «forza persuasiva delle ragioni opposte»; al punto da revocare la decisione presa poco prima ed emanare un ordine contrario.
Leone X e Giulio de’ Medici erano stati «una squadra forte perché neutralizzavano reciprocamente le loro debolezze». Con Clemente VII, invece, regnò il caos in Vaticano, a maggior ragione per il fatto che le lobby del partito francese e di quello spagnolo si bilanciavano in Curia. Fu proprio Francesco Guicciardini a rilevare che spesso venivano inviati corrieri con importanti aperture verso Francia o Spagna ai quali, a breve distanza, seguivano messaggeri che revocavano le disposizioni precedenti. Talvolta mandando a monte accordi appena conclusi. In questo modo, secondo Reinhardt, «venivano disattesi trattati validi e fomentati i rancori». Per di più il nuovo Papa Medici «non aveva fiuto per i pericoli che si avvicinavano, vedeva rischi dove non esistevano e li sottovalutava dove, invece, diventavano minacciosi». Ma, osserva lo storico, «per quanto queste diagnosi siano indiscutibilmente corrette, esse non sono sufficienti a spiegare i fenomeni di dissoluzione, fino al limite dell’autodistruzione, del centro di potere vaticano tra il 1524 e il 1534».
Per quel che riguarda Lutero, poi, assai grave fu l’equivoco in cui Clemente VII cadde nel 1525, quando ritenne esser l’eretico l’ispiratore della guerra dei contadini che sconvolse gran parte della Germania meridionale. E che perciò, dopo la sconfitta dei rivoltosi, avrebbe pagato le conseguenze di quell’azzardo. Sfuggì alla Curia che nella sanguinaria repressione della guerra dei contadini si erano «concordemente uniti i prìncipi imperiali cattolici e quelli luterani». Venne così allo scoperto «l’incapacità romana di distinguere tra i riformisti radicali, come Thomas Müntzer», e la Riforma fedele all’autorità. Clemente VII sarebbe morto nel 1534 (dopo essersi opposto al divorzio di Enrico VIII d’Inghilterra da Caterina d’Aragona e aver provocato lo scisma anglicano). Lutero fece in tempo a cimentarsi con un altro Papa, Paolo III (Alessandro Farnese), e morì nel 1546.
Oggi «non si tratta di stabilire chi avesse torto e chi ragione — come accadeva nel XVI secolo — né chi sostenesse gli argomenti migliori o presentasse la moralità più alta». Nel libro di Reinhardt non ci sono né «buoni» né «cattivi», e neanche si esprimono preferenze per un partito o per l’altro. Soprattutto non ci si propone di stabilire chi sia stato il primo a «denunciare, diffamare o demonizzare», quanto piuttosto di riesaminare gli eventi al culmine dei quali si giunse a quella rottura che sconvolse la storia della Chiesa. La più grave dell’intero millennio.
La grande svolta che sconvolse le coscienze in tutta Europa
S’intitola Lutero l’eretico. La riforma protestante vista da Roma il libro dello storico tedesco Volker Reinhardt (traduzione di Claudio Bonaldi e Elisabetta Tangorra, Marsilio, pagine 320, e 28). Sui rapporti tra cattolici e luterani sono fondamentali i testi del cardinale Walter Kasper Martin Lutero. Una prospettiva ecumenica (Traduzione di Gianni Francesconi, Queriniana, 2016) e di papa Francesco Dialogo sulla fede. Un colloquio atteso da cinquecento anni (San Paolo, 2016). Da segnalare anche: Roland H. Bainton, Lutero (traduzione di Aldo Comba, Einaudi, 1960); Heinz Schilling, Martin Lutero (a cura di Roberto Tresoldi, Claudiana, 2016). Usciti da poco: Franco Ferrarotti, Attualità di Lutero (Ebd, pp. 72, e 7,50); Mario Dal Bello, Lutero. L’uomo della rivoluzione (Città nuova, pp. 136, e 13).
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venerdì 14 aprile 2017

Bandito Giuliano


E Besozzi smontò le bugie Luce sul bandito Giuliano

FERRUCCIO DE BORTOLI 


Salvatore Giuliano (1922-1950) fu ucciso da un membro della sua banda, Gaspare Pisciotta (1924-1954)
Non ho conosciuto Tommaso Besozzi ma è come se mi avesse accompagnato, precedendomi, in tutti i giornali in cui sono stato: l’«Europeo», ovviamente, il «Corriere della Sera», il «Corriere d’Informazione», il «Sole». Montanelli, Biagi, Afeltra, Perazzi e tanti altri non mancavano di raccontare un aneddoto su Tom. Con quell’affetto, non privo di perfidia, che caratterizza i giornalisti quando parlano dei colleghi. Incapaci di resistere alla tentazione di specchiarsi nelle gesta degli altri, mettendole qualche volta in dubbio. La storia italiana del dopoguerra è scandita dallo scoop dell’«Europeo» sulla morte del bandito Salvatore Giuliano. Una pietra miliare del giornalismo investigativo. In tempi amari di post verità e di fatti alternativi, risplende ancora di più come la plastica dimostrazione di come sia utile a una società democratica una stampa non allineata, non conformista, non banalmente sdraiata. Le falsità ufficiali sono il veleno sottile che corrode la fiducia popolare nelle istituzioni. L’antidoto, non sempre apprezzato, è nel coraggio e nella competenza di cronisti liberi e indipendenti. Giornalisti che non raramente pagano la propria libertà con la vita o con un umiliante isolamento. Besozzi smontò la goffa verità ufficiale sulla fine del bandito di Montelepre e consentì di capire meglio i legami tra la mafia non solo siciliana — che si sbarazzò dell’ormai scomodo Turiddu — la politica e diversi apparati dello Stato. Ma non si limitò solo a questo, che sarebbe già stato molto. Analizzò in profondità il «fenomeno Giuliano», spogliandolo da tutta la retorica dello «spietato giustiziere», dell’«arcangelo che leva la spada fiammeggiante a difesa degli oppressi». Giuliano era solo — scrive Besozzi — «uno sventurato e disperato picciotto», senza una particolare vocazione, che «camminava dondolando», parlava a voce bassa. E soprattutto era convinto di essere nel giusto, anche quando diventò una pedina sanguinaria in mano alla mafia e ai «baroni» dell’Isola. E il consenso perverso di cui godeva faceva sì che pochi credettero alle sue responsabilità della strage di Portella della Ginestra. Emanuele Macaluso nel suo libro La Mafia e lo Stato è esplicito nel delineare responsabilità, distrazioni, amnesie. La mafia è una infezione, non solo siciliana, con la quale lo Stato ha stretto patti di reciproca convenienza. E la vicenda di Giuliano è emblematica di questo intreccio perverso. Di questa convergenza di interessi. Giuliano era diventato scomodo, dopo essere stato usato, ai suoi stessi committenti.
Sono stato caporedattore dell’«Europeo» nello stesso periodo in cui vi lavorò Enrico Mannucci, che è custode attento e non acritico dell’eredità besozziana. Direttore era Lanfranco Vaccari. Quell’incipit del famoso reportage di Tom «Di sicuro c’è solo che è morto», era scritto nella bacheca della capo-redazione e faceva parte della corposa eredità professionale di Arrigo Benedetti: no alle frasi fatte, agli slogan logori, alle espressioni oscure e circonvolute. Un’altra scritta recitava: dieci regole per una didascalia immortale. L’ossessione dell’attacco, delle prime parole di un articolo era quotidiana. I «pezzi» si rifacevano due, tre, infinite volte. E non c’erano i computer. La professione aveva qualcosa di artigianale.
Besozzi, nelle descrizioni dei colleghi che lo avevano conosciuto, poteva sembrare, nell’aspetto, un manovale del giornalismo con quelle sahariane con le tasche piene di oggetti. Aveva la passione degli esperimenti elettrici o chimici. E il suicidio lo preparò con cura meccanica tornendo il proiettile che lo avrebbe ucciso. Cercai di riconoscere i tratti di Tom lavorando e parlando a lungo con il figlio Lodovico al «Sole 24 Ore». Il direttore di allora, Gianni Locatelli, gli aveva affidato la cura dell’inserto culturale della domenica, che Lodovico confezionò con intelligenza e fantasia. Era un uomo schivo, quasi piegato da una sofferenza incomprensibile. Parlava a stento del padre. Ne sentiva il peso dell’eredità. Non era impercettibile un senso di disagio, di rancore.
La vera storia del bandito Giuliano, che viene riproposta in questa edizione strappata dall’oblio, è scritta con un linguaggio scorrevole, moderno. Quello dei grandi inviati che non hanno bisogno di romanzare nulla perché sono in grado di descrivere tutto. Con serietà, con rispetto della realtà, che non piegano ai loro desiderata. Besozzi si mimetizza. Osserva, cerca di capire. Non è schiavo di pregiudizi nordici. Non si comporta come l’autista di autobus, il «milanese infame», che non crede alla leggenda del bandito giustiziere e pone davanti a sé il velo protettivo dell’ignoranza o del pregiudizio. Non è embedded, come si direbbe oggi con un termine umiliante per la professione giornalistica. È insieme cronista e storico. Scopre i fili invisibili del potere mafioso, le convenienze che spingono i poteri forti dell’isola a servirsi del bandito giustiziere, a commissionargli la strage di Portella della Ginestra del primo maggio del 1947. Tributa a Gerolamo Li Causi l’onore che merita. Ma descrive con esattezza e distacco anche l’incredibile favore che la popolazione ha nei confronti del «brigante senza vocazione», taciturno. «L’hanno velenatu».
L’omertà è nel codice d’onore del potere mafioso la misura dell’appartenenza e della fedeltà. L’autorità statale è vissuta come una violenza su costumi e abitudini secolari. Lo Stato, prima con la polizia e poi con i carabinieri guidati dal colonnello Ugo Luca, esercita una repressione tanto violenta quanto sciocca, fino ad arrivare a un razionamento punitivo dell’acqua per uso civile. La banda di Giuliano si macchia di un centinaio di omicidi, ma riesce fino all’ultimo a interpretare un insidioso codice di giustizia alternativa. Quella dei padrini che sanno ascoltare, indirizzare, proteggere. E punire.
Il capomafia don Calogero Vizzini è figura che concentra in sé il fascino perverso del potere occulto mafioso. Montanelli lo intervistò e raccontò più volte il personaggio nella sua inquietante gentilezza. E poco prima della morte, sulle pagine del «Corriere», nella sua rubrica di corrispondenza con i lettori, scrisse di don Calò, parlando di Mori. Inviato nell’Isola da Mussolini, il «prefetto di ferro» sbatté in carcere don Calò senza tanti complimenti. «Sì, è di mano spiccia», disse il capomafia a Montanelli... E dopo una lunga pausa: «ma òmmo era». Era un uomo.
Besozzi capisce quanta importanza abbia la vanità umana, estrema debolezza del fuorilegge rifugiato tra le montagne, che ama vedersi riprodotto sui rotocalchi, che adora la visita di giornalisti, e soprattutto giornaliste straniere. Gaspare Pisciotta, il traditore di Giuliano, è un infantile vanesio, l’anello debole del potere criminale, fragile nella sua ferocia. Besozzi non si lascia distrarre. Spiega con la freddezza del chirurgo le gesta dei criminali, calcola la loro potenza economica, l’incasso dal 1942 al 1950 di circa un miliardo e mezzo. Si favoleggia di un tesoro che non verrà mai ritrovato. Si intuiscono, nei capitoli del libro, le ramificazioni di un potere occulto, quello mafioso, trasversale per eccellenza, emerge la porosità indolente di una società civile, se non connivente, in ostaggio alla paura e agli interessi sotterranei. Un libro di straordinaria attualità, che il tempo, purtroppo per noi non ha scalfito. La grandezza originale di Besozzi risplende. La scrittura è limpida, tagliente. Il temperamento ribelle, e desolatamente solitario.

martedì 11 aprile 2017

Bisanzio

Silvia Ronchey per “la Repubblica”
Nel 1913 un giovane viaggiatore francese arrivò a Costantinopoli a bordo dell'Orient Express. Aveva venticinque anni e da pochi mesi era entrato nel corpo diplomatico, dopo essersi classificato primo al concorso del Quai d'Orsay. Si chiamava Paul Morand e sarebbe diventato, oltre che un grande viaggiatore, un eccellente scrittore dal lucido sguardo politico.
Già in quel suo primo viaggio, che narrerà nel libro Adieu à l'Orient Express, la situazione dello scacchiere mediterraneo gli era ben chiara. E con nettezza vedeva risorgere, negli anni della caduta dell'impero ottomano, l'esprit bizantino. Un altro ventenne, uno svizzero francese, era approdato nella Polis tre anni prima, nel 1910.
Anche lui era destinato a un luminoso futuro e dotato di un occhio particolare per il presente, e per quel passato che la storia presente ciclicamente, quando gli eventi lo reclamano, rirappresenta. Anche lui, Charles-Edouard Jeanneret- Gris, che assumerà lo pseudonimo di Le Corbusier, più che dal decadere del mondo ottomano era stato colpito dal risorgere di quello bizantino e della sua estetica, che, nelle pagine stambuliote del suo Voyage d' Orient, emerge con l'immediatezza della visione e con la forza del sogno.
Negli anni 10 del Novecento un terzo ventenne, un poeta russo, Iosip Mandel' tam, aveva sognato Bisanzio. Dall' estremo lembo dei secoli e dell'impero degli ultimi cesari, gli csar, la sua sfida poetica si misurava con la prosodia bizantina di Paolo Silenziario e ne emergeva vittoriosa. Mandel' tam non vide mai Santa Sofia, descritta in absentia ma in essenza in questi versi visionari pubblicati nel 1913.
La vide invece uno scrittore francese, allora deputato conservatore nella repubblica patriottica di Poincaré, che visitò Costantinopoli l'anno dopo per un'indagine sulla condizione delle scuole finanziate dal suo governo nell'impero ottomano. Maurice Barrès esplicitò nel suo diario di viaggio, pubblicato nove anni dopo, la nostalgia per Bisanzio suscitata dalla visione di Santa Sofia.
Nello stesso anno in cui Barrès vide in Santa Sofia una "casa di morte" dell' ellenismo, abitata tuttavia dalla speranza del suo risorgere, e una "casa-madre del divino orientale-occidentale", contemplandovi il sincretismo di una tradizione mistica in cui paganesimo e cristianesimo confluivano e si fondevano e ancora intatti attendevano di essere liberati dalla memoria di sangue e dalla "mano di calce" dell' usurpazione ottomana, e solo un anno dopo il semionirico, sapientemente ermetico ma non meno preciso incunearsi degli stessi temi nella visione poetica di Mandel' tam, un altro giovane russo, Pavel Florenskij, consegnò quella che possiamo considerarne la visione o re-visione teologica al suo capolavoro, La colonna e il fondamento della verità.
Potremmo fornire altri esempi dell'impennarsi, nel ritrarsi e prosciugarsi del dominio ottomano, e peraltro proprio alla vigilia della rivoluzione russa, di una nuova ondata di spiritualità bizantina, sospinta, a volte inquinata, da un afflato nazionalistico e patriottico panortodosso.
Ma non è questo che vogliamo evidenziare, bensì il fenomeno più alto e vasto e genericamente culturale, legato cioè non alle locali emergenze ideologiche dell' uno o dell'altro angolo dello scacchiere politico erede dell' impero multietnico di Bisanzio - storicamente suddiviso fin dal XV secolo nei due tronconi russo e ottomano - bensì allo Zeitgeist còlto dal giovane Morand: negli anni di cui ci occupiamo, e che coincidono con gli estremi cronologici entro cui convenzionalmente collochiamo la caduta dell' impero ottomano, tra il 1912 e il 1922, lo spirito "rivoluzionario" di Bisanzio stava slittando in primo piano, decalcandosi sull'immagine percepita di Costantinopoli, scolorendone i tratti ottomani, imponendone una nuova percezione estetica, poetica, spirituale e religiosa, avvertita dai giovani intellettuali del tempo anzitutto a livello fantastico, visionario, quasi ipnotico: una fantasmatica phantasia della capitale sultaniale, una Seconda Roma che affrancata da quasi cinque secoli di tradizione islamica si manifestava di nuovo bizantina nella percezione della sua facies monumentale e urbanistica così come del suo antevita religioso; dove il riaffermarsi della religione cristiana ortodossa su quella musulmana veniva presentito e vagheggiato nel richiamo alla tradizione giustinianea e visualizzato anzitutto nella sua Grande Chiesa, che pure era più che attiva come moschea.
Nella percezione dei molti letterati attratti in questa fase storica dalla capitale turca il processo di emersione della Costantinopoli bizantina (e cristiana) si era avviato già prima, all' inizio del secolo. La protofemminista Marie Léra, visitando due volte Costantinopoli, nel 1901 e nel 1903, e raccontandola nei suoi Souvenirs de Rhamazan, rimase rapita dalla visita alla Karyie Camii, l'antica chiesa del monastero di San Salvatore in Chora, e particolarmente colpita proprio dalla pervicace resistenza alla tradizione islamica di quella cristiano-bizantina.
«Agli albori della potenza islamica», osserva peraltro Marie Léra, «non sembra che il Profeta e i primi conquistatori siano stati mossi da un fanatismo tanto feroce quanto quello di alcuni dei loro successori»: la prossimità di Bisanzio è garanzia di tolleranza, coesistenza, pluralità; l'impero ottomano è storicamente tanto più decaduto quanto più se ne è distaccato.
La rivalutazione dell'eredità bizantina della capitale ottomana era cominciata in realtà nella seconda metà dell'Ottocento, dopo che la guerra di Crimea aveva privato i turchi del dominio sul Mar Nero togliendo loro, con la conquista di Sebastopoli nel 1855, il controllo delle sue sponde settentrionali, ma soprattutto dopo il processo di deottomanizzazione avviato dalla guerra russo-turca e dalle rivolte balcaniche, che tra il 1876 e il 1878 avevano portato al distacco dall'impero dei suoi residui possedimenti e protettorati occidentali (Bosnia e Erzegovina, Bulgaria, Serbia, Romania e Montenegro), e terminato con l'occupazione inglese dell' Egitto nel 1882. Non a caso si situa allora, tra il 1875 e il 1885, l' atto di nascita della bizantinistica, segnato dai viaggi dei due fondatori della scuola francese e tedesca: Gustave Schlumberger e Karl Krumbacher.
È alla vigilia della fine, all' indomani del trattato di Sèvres e dell' insediamento del governo provvisorio della Grande Assemblea Nazionale Turca, che a bordo dell' Orient Express raggiunge Costantinopoli un eccentrico venticinquenne americano, John Dos Passos, trovandola occupata dagli alleati e brulicante di spie. Nel racconto del suo soggiorno, che intitola Pera Palace come l' albergo in cui alloggia e la cui hall, una sera del '21, vede «inondata del sangue di un diplomatico levantino che vi è appena stato assassinato », le strade di Pera sono «piene zeppe di rifugiati russi bianchi, macilenti, senza casa, disperati», la Città è «percorsa da tutti gli Alleati» e «inglesi, francesi e italiani rivaleggiano in idiozia militare» mentre «i turchi hanno rinunciato e quel poco di organizzazione loro rimasta è nelle mani dei greci locali».
Al di là del Corno d' Oro divenuto "color acciaio", la Polis bizantina è cosparsa ovunque di cupole e minareti lucenti «come pedoni d' avorio su una scacchiera». Meno di due anni dopo, il 12 gennaio del '23, nell' infittirsi degli intrighi e nel precipitare degli eventi all'indomani della deposizione di Mehmet VI, sempre a bordo dell' Orient Express arrivò a Costantinopoli, e come Dos Passos scese al Pera Palas, uno scrittore francese incaricato di corrispondenze per il quotidiano Le Journal ma anche di missioni confidenziali da parte di Ahmet Ferid Tek, allora capo della delegazione diplomatica insediata a Parigi dal governo provvisorio di Ankara.
Di giorno, sul Corno d'Oro, il futuro accademico di Francia Pierre Benoît intervistava i composti leader ottomani. Di notte, nei caffè fumosi di Galata, abbordava ufficiali e fuorusciti. Percorrendo la città sotto assedio, l' agente segreto dilettante descrisse quel crinale della geografia e della storia sul cui ciglio passeggiava: «Costantinopoli non esiste più. Costantinopoli è morta».
L'anno dopo, l' aristocratico, stravagante ventunenne scozzese Steven Runciman, futuro agente di Sua Maestà britannica su quelle rive, futuro bizantinista avventuroso e geniale, potrà osservare: «I turchi pretendono che la chiamiamo Istanbul, un nome che deriva dalla corruzione dell' espressione greca medievale stin polin, "in città", che ricorda la consuetudine inglese di dire going to town quando ci si riferisce a una visita a Londra.
I greci, invece, pretendono che la chiamiamo Costantinopoli, una parola mai usata dai loro antenati bizantini, e che invece era stata adottata dai loro nemici arabi e dallo stesso Profeta, nella forma Konstantiniye, e anche dagli odiati latini. Questa forma, peraltro, compare nella titolatura ufficiale del Patriarca Ecumenico, "Patriarca e Vescovo della Nuova Roma ossia Costantinopoli" e, ogni tanto, anche in autori bizantini particolarmente estrosi, benché gli scrittori preferissero comunque il termine Basileousa, Città Imperiale».

Guernica

Francesco Agnoli - La Verità

Una delle balle spaziali più longeve è quella che i libri di arte, di storia ecc. continuano a raccontare sul celeberrimo quadro di Guernica.

Secondo la vulgata, Guernica fu dipinto per commemorare un fatto storico, avvenuto il lunedì 26 aprile 1937: il bombardamento con bombe incendiarie, accompagnate da raffiche di mitra, di un paesino inerme in giorno di mercato. I morti furono 1.654 e 889 i feriti, su una popolazione di circa 7.000 persone, a carico dei bombardieri nazisti. La prima menzogna è già nella narrazione dei fatti.

Scrive lo storico Arrigo Petacco: «Guernica non era una cittadina inerme: distava infatti pochi chilometri dal fronte, vi erano acquartierati 3 battaglioni baschi ed era un importante snodo ferroviario che consentiva un rapido collegamento con Bilbao. Il mercato settimanale del lunedì era stato in realtà sospeso e, in previsione di attacchi dal cielo, erano stati costruiti 7 rifugi antiaerei che salvarono la vita a molte persone... I morti furono 126, i feriti 889. I giornali baschi dell' epoca non avvallarono mai le cifre diffuse dall' estero perché tutti conoscevano i risultati reali del bombardamento».


Saranno giornalisti italiani, tra cui Achille Benedetti del Corriere della Sera e Sandro Sandri della Stampa, inglesi e americani come William Carney del New York Times, «a diffondere la prima versione taroccata del bombardamento di Guernica» (Arrigo Petacco, Viva la muerte! Mito e realtà della guerra civile spagnola 1936-39, Mondadori, Milano, 2006; Stefano Mensurati, Il bombardamento di Guernica. La verità tra due leggende, Ideazione, 2004).

Lo storico e giornalista Vittorio Messori annota che la versione romanzesca creata da alcuni giornalisti, fu colta al balzo da «due propagande: quella anarcocomunista, naturalmente; ma anche quella britannica, poiché il nuovo governo di Chamberlain doveva convincere l' opinione pubblica della necessità di affrontare grandi spese per il riarmo, vista la barbarie tedesca e la potenza delle sue armi» (Vittorio Messori, Le cose della vita, San Paolo, Milano 1995).

Poche pagine di storia sono state così falsate come quelle della guerra di Spagna. Ed eccoci al celebre dipinto. Chi scrive ingenuamente immagina che a determinati fatti (bombardamento di un mercato, uso di bombe al fosforo, incendi, muri crollati, aerei che ronzano nel cielo...) corrisponda una narrazione compatibile.

No, ci raccontano sempre che il pittore Picasso, allora chiamato dalla Repubblica a dirigere il Prado, decise di denunciare i bombardamenti nazisti in modo simbolico: niente aerei, niente mercati, niente muri diroccati, per quanto tutto ciò costituisse uno spettacolo piuttosto inedito e originale, ma un toro (il solito toro di molti dipinti di Picasso), un cavallo morente, una donna che regge una lampada...

A prima vista Guernica appare come una giustapposizione di immagini poco connesse, la cui interpretazione è per forza di cose molteplice. Alcuni anni dopo il dipinto, fu proprio Picasso a spiegare che, in Guernica, il toro delle amate corride non va interpretato quale simbolo positivo in opposizione al franchismo ma rappresenterebbe, al contrario, «la brutalità» del franchismo, del nazisfascismo, della guerra (Patrick O' Brien, Picasso, Tea, Milano, 1996). Suona tutto molto strano.

Il già citato Petacco racconta che la tela di Guernica era in origine un quadro dedicato a un torero ucciso, e che cambiò destinazione dopo che il governo repubblicano commissionò al pittore un quadro «dal contentuto politico». Del resto, chiosa Petacco, Guernica «consente le più diverse interpretazioni».

Più prodigo di dettagli, Vittorio Messori, nel testo citato: «Da buon spagnolo, Pablo Ruiz Biasco y Picasso amava le corride. Fu, dunque, sconvolto dalla tragica morte di un suo beniamino, il famoso torero Joselito. Per celebrarne la memoria, mise in cantiere un' enorme tela di 8 metri per 3 e mezzo, che gremì di figure tragicamente atteggiate, a colori luttuosi. Finita che l' ebbe, la chiamò En muerte del torero Joselito. 
Correva però il 1937, in Spagna infuriava la guerra civile e il governo anarcosocialcomunista si rivolse a Picasso per avere da lui un quadro per il padiglione repubblicano all' Esposizione universale in programma a Parigi l' anno dopo. Il Picasso (che diventerà, non a caso, uno degli artisti più ricchi della storia) ebbe una pensata geniale: fece qualche modifica alla tela per il torero, la ribattezzò Guernica e la vendette al governo «popolare» per la non modica cifra di 300.000 pesetas dell' epoca.

Qualcosa come qualche miliardo - pare 2 o 3 - di lire di oggi, che furono versati da Stalin attraverso il Comintern. Contento Picasso, ovviamente; contenti anche i socialcomunisti, che di quel quadro di tori e toreri fecero un simbolo che è giunto sino a noi ed è continuamente riprodotto, con emozione, come simbolo della protesta dell' umanità civile contro la barbarie nazifascista. Stando a molti critici d' arte, Guernica è il più celebre quadro del secolo. E, ciò, grazie proprio alla "sponsorizzazione" da parte delle sinistre, a cominciare dai liberals occidentali: la tela picassiana ebbe una sala tutta per sé al Metropolitan Museum di New York e vide milioni di "pellegrini" sfilare in religioso silenzio».

Oggi, per Wikipedia, Guernica è «una delle opere che meglio incarnano l' impegno morale e civile» di Picasso.
Profumatamente pagato dal governo repubblicano e da Mosca, alla fine della seconda guerra mondiale Picasso, si iscrisse al partito dei proletari, e degli artisti e intellettuali alla moda: il Partito comunista.
Purtroppo, però, non trovò mai il tempo per accorgersi delle brutalità dei regimi comunisti e per dedicare un quadro anche ad esse.

Anzi, come fanno tutti quelli che hanno vinto una volta, ripeté la commedia. Racconta Lucio Villari, sulla Repubblica del 9 dicembre 1998, che nel dopoguerra Picasso trasformò un piccione in una colomba per la pace, ad uso del solito partito comunista allora impegnato a presentarsi al mondo come un' ideologia di pace.

Difficile quindi non attribuire anche a Picasso quanto scriveva George Orwell: «Tra gli intellettuali, direi che i cambiamenti di opinione avvengono per effetto del denaro o in considerazione della propria posizione personale».

sabato 8 aprile 2017

Le monete


Roberta Mercuri per “la Verità”

 Per il debutto dell' euro, il 1° gennaio 2002, vennero coniate in Italia 6,7 miliardi di monete. Da allora sono passati 15 anni e ne sono state emesse nel nostro Paese 15 miliardi e mezzo. Un lavoro - riassunto in una tabella diffusa nei giorni scorsi da palazzo Koch - svolto dal ministero dell' Economia, che ha assicurato quest' enorme produzione tramite l' Istituto Poligrafico e la Zecca dello Stato per poi trasferire le monete alla Banca d' Italia per la loro distribuzione alle banche e al pubblico.
Le curiosità dei primi 15 anni di questa storia metallica sono tante, a partire dal primato delle monetine da 1 centesimo: tanti le ritengono inutili ma sono state le più prodotte, con 3,5 miliardi di pezzi, seguite dai 2 centesimi (2,78 miliardi) e i 5 centesimi (2,15 miliardi). Mentre la meno coniata in assoluto è stata la moneta da 2 euro, l' unica che nel quindicennio si è fermata sotto la soglia del miliardo, a 767 milioni. E poi c' è l' andamento delle emissioni della moneta da 1 euro, quella che con orgoglio il presidente Carlo Azeglio Ciampi mostrò come prima prova del debutto avvenuto dell' unità monetaria. Negli ultimi 4 anni, anziché aumentare, il numero di monete da 1 euro s' è via via ridotto. La domanda è scesa a favore di altri tagli. 
Ma l' equilibrio variabile tra diversi tagli monetari è legato anche ad altri fattori come gli afflussi di monete in euro da Paesi esteri associati a movimenti turistici. La Banca d' Italia governa questi flussi non producendo monete. Nell' Eurozona, diversamente dal caso dell' emissione delle banconote che fa capo all' Eurosistema, le monete sono infatti emesse dai singoli Stati membri.

QUADRUPLO
Per fabbricare 1 centesimo di euro ce ne vogliono 4,5. Per la moneta da 2 centesimi ne servono 5,2. Quella da 5 ne costa 5,7.

COSTI
A pochi mesi dall' introduzione dell' euro, la Finlandia, visti gli eccessivi costi, decise di fermare la produzione delle monete da 1 e 2 centesimi. L' Olanda ha abbandonato gli spiccioli nel 2004.

ELIMINARE
Secondo il Codacons 9 italiani su 10 vorrebbero eliminare le monete da 1, 2 e 5 centesimi. 
ROSSE
Le monetine rosse sono fatte al 94,35% di acciaio al carbonio placcato di rame. Sul lato uguale per tutti i paesi dell' Eurozona presentano un disegno dell' artista belga Luc Luycx. Quelle da 1 centesimo hanno un diametro di 16,25 millimetri e un peso di 2,30 grammi.

FALSIFICATE
La moneta da 2 euro è quella più falsificata. Seguono quella da 1 euro e da 50 centesimi.

ASTA
Qualche anno fa è stato venduto da Bolaffi a 6.600 euro il centesimo emesso per errore 15 anni fa che reca sul retro, anziché il Castel del Monte vicino ad Andria, la Mole Antonelliana, immagine che sta sugli spiccioli da 2 centesimi. La base d' asta era fissata a 2.500 euro.

COLLEZIONISTI
Erano collezionisti di monete alcuni imperatori romani, Francesco Petrarca, il cardinale Pietro Barbo futuro Paolo II, Cosimo de' Medici, il re Vittorio Emanuele III.

SESTERZIO
Un sesterzio di Adriano particolarmente bello e ben conservato fu venduto negli anni Ottanta per 20 milioni di lire; la stessa moneta è stata battuta poi nel 1990, in un' asta a New York, 300.000 dollari (circa 270.000 euro). Nel 2009 il medesimo sesterzio è ricomparso in un' asta di Ginevra dove è stato venduto per 2 milioni di franchi svizzeri (quasi 1,9 milioni di euro).

RECORD
La moneta di maggior valore in assoluto realizzato in una vendita all' asta: un dollaro in argento coniato negli Stati Uniti nel 1794 e acquistato nel 2010 per 7.850.000 dollari.
PRIMA
Pare che la prima moneta sia stata coniata dal re Creso della Lidia, nel VII secolo a.C.
Era in elettro, una lega naturale di oro e argento molto diffusa in quelle regioni dell' Asia Minore.

NOMI
In Grecia la moneta si chiamava «nomisma», che poi diventò «nummus» tra i latini. La parola moneta fu introdotta a Roma dopo il 390 a.C.: la città era assediata dai Galli di Brenno. Sul Campidoglio era il tempio di Giunone dove si allevavano le sacre oche dedicate alla dea.

Una notte, all' arrivo degli invasori, gli animali si misero a starnazzare svegliando l' ex console Marco Manlio che diede l' allarme e l' attacco fu sventato. Da allora la dea acquisì l' appellativo di moneta, dal verbo monere, ammonire: era stata lei a svegliare le oche. In seguito, accanto al tempio di Giunone fu costruita la zecca, che era sotto la protezione della dea.

MORTI
Tra i romani si metteva una moneta in bocca al defunto perché potesse pagare il passaggio in barca a Caronte verso il regno dei morti.
FONDAMENTA
Gli antichi romani infilavano sempre una moneta nelle fondamenta di una nuova costruzione.

RISCATTO
Lo storico Erodoto racconta che Policrate, tiranno di Samo, assediato nella sua isola nel 525/524 a.C. dagli Spartani, si liberò dall' occupazione pagando ai Lacedemoni un riscatto in monete false (stateri di piombo dorato effettivamente ritrovati).

CROCE
Le uniche monete studiate in modo da essere perfettamente equilibrate nel gioco di testa o croce sono quelle canadesi.

FORME
Monete a forma di spada, zappa e stella circolavano in Cina fino agli anni Trenta del Novecento.

GRANDE
La moneta europea più grande mai realizzata: d' oro, da 150 zecchini, emessa dalla Zecca di Venezia sotto il doge Lodovico Manin. Peso: 350 grammi. Su una faccia il doge inginocchiato di fronte a San Marco, sull' altra Cristo circondato di stelle.

PICCOLA
Tra le monete più piccole, quella coniata in Sicilia tra il VI e V secolo a.C conservata in Danimarca: pesa solo 0,06 grammi.

REGINA
Il ritratto della Regina Elisabetta è stato impresso sulle monete di 33 diversi Paesi. La prima apparizione sulla valuta canadese nel 1935, quando aveva solo 9 anni.

PORCELLINO
L' uso dei salvadanai a forma di maiale risale al Settecento. Molti storici ritengono che derivi da un gioco di parole: la pygg era un tipo di argilla utilizzata per custodire anche il denaro. L' assonanza con la parola pig (maiale) spinse i ceramisti inglesi alla produzione di massa di salvadanai-porcellino a partire dal XIX secolo.
SCIMMIE
Secondo i ricercatori dell' Università di Yale le scimmie cappuccino possono imparare a usare la moneta per fare degli scambi. Durante l' esperimento le scimmie hanno anche mostrato una certa disinvoltura finanziaria: alcune di loro rubavano le monete, altre le usavano per accumulare beni da rivendere e c' è stata anche una scimmia che ha usato i soldi per ottenere dei favori sessuali.

IL PANE

  Maurizio Di Fazio per il  “Fatto quotidiano”   STORIA DEL PANE. UN VIAGGIO DALL’ODISSEA ALLE GUERRE DEL XXI SECOLO Da Omero che ci eternò ...