venerdì 12 gennaio 2018

Churchill - Hitler


Paolo Mieli per il Corriere della Sera

Per Londra fu il momento più difficile nel corso dell' intera Seconda guerra mondiale. A provocare la crisi del governo britannico presieduto dal conservatore Arthur Neville Chamberlain fu, ai primi di maggio del 1940, lo sfondamento hitleriano in Norvegia e la fuga dei soldati inglesi dal porto di Trondheim. La campagna norvegese era costata al Regno Unito 1.800 soldati, una portaerei, due incrociatori, sette cacciatorpediniere e un sottomarino. Per l' Inghilterra (e per l' Europa tutta) fu - come dicevamo - l' inizio del mese più brutto della sua storia, che si sarebbe concluso con la caduta della Francia in mano nazista e con la drammatica evacuazione di oltre 300 mila soldati britannici da Dunkerque.

Adesso un libro di Anthony McCarten, edito da Mondadori, L' ora più buia (da cui è stato tratto liberamente il film omonimo diretto da Joe Wright e interpretato da Gary Oldman e Kristin Scott Thomas nei panni di Winston e Clementine Churchill) descrive, sulla base di una ricchissima documentazione, i momenti in cui il nostro continente rischiò di cadere per sempre sotto il dominio della svastica.

Winston Churchill fu il primo a entrare in scena offrendosi - in quanto primo lord dell' Ammiragliato - come capro espiatorio per l' esito della disastrosa campagna norvegese: «Mi assumo la piena responsabilità di tutto ciò che è stato fatto, e mi prendo la mia fetta di colpa», scandì di fronte alla Camera dei Comuni il 9 maggio, giorno dell' importante dibattito sull' esito infausto di quella fase della guerra (anche se il peggio doveva ancora venire). All' epoca Churchill non godeva di grande popolarità. A lui veniva addebitata la catastrofe di Gallipoli nella Prima guerra mondiale; di lui era rimasto ben impresso - quanto meno tra i commentatori dei giornali - l' andirivieni tra il Partito conservatore e quello liberale. Veniva irriso, scrive McCarten, considerato un egocentrico, un voltagabbana, un «mezzosangue americano»; un uomo che, per usare le parole del deputato conservatore sir Henry «Chips» Channon, era militante di «una sola causa: se stesso».

Oggi, ricorda McCarten, allo statista con il sigaro sono intitolati 3.500 tra pub e hotel, oltre 1.500 negozi, 25 strade, «e il suo volto si trova un po' ovunque, dai sottobicchieri da birra agli zerbini». All' epoca, invece, era tenuto nel conto di un personaggio vanesio, bizzarro, imprevedibile. Ma quella sua ammissione di colpa nel momento in cui il primo ministro entrava nella tempesta non passò inosservata.

La notò lo stesso Chamberlain, il premier settantunenne, l' uomo dell' appeasement , colui che - nel settembre 1938 alla Conferenza di Monaco - aveva «regalato» ad Hitler la Cecoslovacchia nella speranza di ottenere in cambio la pace. Chamberlain, però, non fece in tempo a compiacersene perché proprio il 9 maggio fu travolto dal Parlamento. David Lloyd George, il liberale che era stato a capo del governo nel precedente conflitto mondiale, gli si rivolse in questi termini: «Voglia dare un esempio di sacrificio, dal momento che in questa guerra nulla può contribuire alla vittoria più di una sua rinuncia all' alta carica». Il laburista Clement Attlee puntò l' indice contro di lui e gli chiese con risolutezza di lasciare la guida del governo: «Non si tratta solo della Norvegia; la Norvegia è il culmine di molti altri sbagli La gente dice che la responsabilità di condurre le cose è affidata per lo più a uomini che hanno collezionato una serie pressoché ininterrotta di fallimenti». Dopodiché i laburisti si dissero pronti a entrare in un gabinetto di unità nazionale, a patto però che a tenerne le redini fosse chiunque, ma non Chamberlain, definito «quell' uomo».


Persino Leo Amery, parlamentare del suo partito, lo accusò: «Troppo a lungo siete stato seduto qui, per quel poco di bene che avete saputo fare andatevene, vi dico, e che con voi sia finita per sempre». L' ammiraglio Roger Keyes (anch' egli conservatore) si presentò alla Camera dei Comuni vestito in alta uniforme e, a sorpresa, si scagliò contro l'«impressionante storia di inettitudine dell' esecutivo». Nel suo diario il deputato Channon così descrisse quel 9 maggio: «Tra i miei colleghi è tutto un tramare e intrigare, complottare e ancora complottare».

L' aula del Parlamento precipitò nel caos. La moglie di Lloyd George, Margaret, annotò: «Non avevo mai visto uno spettacolo del genere. La Camera appariva decisa a togliere Chamberlain di mezzo L' urlo che ha accompagnato la sua uscita di scena era impressionante con quelle grida "vattene, vattene!" Non ho mai visto un primo ministro ritirarsi così ignominiosamente». Venne poi il momento del voto. Chamberlain prevalse, sia pure di misura.
Ma capì che era tutto finito quando si accorse che ben 41 deputati conservatori, appartenenti al suo stesso partito, si erano pronunciati contro di lui. Del resto era preparato all' uscita di scena anche perché affetto da un cancro al colon che - ne era da tempo consapevole - gli avrebbe lasciato pochi mesi di vita.

Il prescelto per la successione era Edward Wood, lord Halifax, già viceré in India e ora ministro degli Esteri in sostituzione di Anthony Eden, fatto fuori nel 1938 in quanto nemico della pacificazione con Hitler. Grande fautore anche Halifax della politica di appeasement , nel 1937 - quando non era ancora ministro degli Esteri - aveva accolto un invito di Hermann Goering a una battuta di caccia in Germania e nell' occasione aveva avuto un abboccamento con Hitler (che la prima volta non riconobbe: lo scambiò per un maggiordomo e gli affidò la giacca). Subito dopo, però, ne fu ammaliato. Si complimentò davanti a tutti con il dittatore nazista riconoscendogli di aver «reso grandi servigi alla Germania» e disse che «se in Inghilterra l' opinione pubblica si era dimostrata critica in parte dipendeva dal fatto che il popolo inglese non era del tutto consapevole» dei meriti di Hitler. Scrisse poi un appunto a Eden (contrario all' incontro) in cui rivelava di aver discusso con Hitler delle «modifiche dell' assetto europeo che avrebbero potuto verificarsi con il tempo».

Confidò a Stanley Baldwin la propria ammirazione per i cardini dell' ideologia nazionalsocialista («nazionalismo e razzismo sono una forza straordinaria suppongo che, al loro posto, la penseremmo allo stesso modo», gli disse parlando dei nazisti). Diede, con un anno di anticipo, una sorta di luce verde all' annessione dell' Austria: «Il popolo britannico», sentenziò, «non acconsentirebbe mai a entrare in guerra perché due Paesi tedeschi hanno deciso di fondersi». E quando fu nominato ministro degli Esteri restò delle stesse opinioni.

Il 12 ottobre del 1938, undici mesi prima dell' esplosione della guerra, l' ambasciatore americano a Londra, Joseph Kennedy, ebbe con lui un incontro e così relazionò a Washington: «Halifax non crede che Hitler voglia entrare in conflitto con la Gran Bretagna, né che per la Gran Bretagna abbia senso entrare in guerra con Hitler, a meno di un' interferenza diretta nei domini inglesi». Halifax, secondo Kennedy, suggeriva di salvaguardare gli interessi angloamericani e di «lasciare che Hitler continuasse a fare i propri comodi in Europa centrale», e che «facesse quel che voleva per se stesso».

Tutto ciò in Inghilterra alla fine degli anni Trenta appariva nient' affatto riprovevole, anzi «realistico». I colleghi di partito apprezzavano Halifax (anche quelli che criticavano Chamberlain, che del resto pensava le stesse cose del suo ministro), e così anche i laburisti. Halifax poteva inoltre vantare un rapporto di autentica amicizia con il re Giorgio VI. Così, quando Chamberlain decise di farsi da parte, il sovrano fece l' impossibile per sostituirlo con Halifax. Ma fu proprio questa insistenza di Chamberlain e di Giorgio VI a provocare in Halifax un' esitazione. Prevedeva lucidamente che la Norvegia fosse solo l' inizio della catastrofe, che le armate hitleriane avrebbero travolto l' intera Europa continentale e temeva che l' ira del Parlamento, già coagulatasi contro Chamberlain, si sarebbe ripresentata, ancora più forte, a danno del suo successore.

Soprattutto se il nuovo premier si fosse presentato, come era nel suo caso, in una esplicita linea di continuità. Ritenne che fosse più prudente saltare un giro, attendere che l' onda negativa travolgesse qualcun altro, per poi riapparire sulla scena con un piano negoziale concordato insieme a Benito Mussolini (e tramite lui con Hitler). I suoi compatrioti, pensava, lo avrebbero salutato come colui che aveva riportato la pace. A un prezzo - il consenso alla dominazione nazista sull' Europa continentale e qualche concessione nelle colonie - che sarebbe apparso irrisorio.

Churchill appena nominato da Giorgio VI (malvolentieri) alla guida del governo, confermò agli Esteri Halifax, con il quale aveva rapporti ostili da una ventina di anni e che aveva soprannominato The Holy Fox (la volpe furba). Poi pronunciò il celeberrimo discorso in cui prometteva agli inglesi «sangue, fatica, lacrime e sudore». E mentre Hitler invadeva la Francia provocandone l' immediato collasso, sfidò costantemente Halifax (e con lui Chamberlain, probabilmente anche il sovrano) a uscire allo scoperto con il loro «piano di pace».

Il momento della verità giunse, dopo una lunga serie di sconfitte militari, con le riunioni del gabinetto di guerra il 26 e 27 maggio. Il 25 Halifax aveva incontrato l' ambasciatore italiano a Londra Giuseppe Bastianini - una personalità di grande rilievo politico - e aveva concordato con lui le mosse da fare (un passo a cui McCarten attribuisce grandissima importanza). Parigi stava cadendo nelle mani dei nazisti, oltre 300 mila soldati inglesi erano intrappolati sulla costa settentrionale della Francia e la Gran Bretagna appariva alla mercé degli umori di Hitler. Halifax passò all' attacco. Accusò Churchill di non essere sufficientemente lucido e ripropose di sondare Mussolini («preoccupato come crediamo per il potere di Hitler») in vista del famoso negoziato.

Chamberlain annotò sul diario che Churchill dava l' impressione di essere scettico ma, a questo punto, se avesse potuto «trarsi d' impaccio» rinunciando a Malta, Gibilterra e qualche colonia africana, secondo lui, avrebbe «colto l' occasione al volo». E mentre il primo ministro varava l' operazione «Dynamo» per rimpatriare da Dunkerque quanti più militari inglesi possibile, Halifax lo mise con le spalle al muro: «Se scoprissimo di poter ottenere (da Hitler) condizioni che non presuppongono l' annientamento della nostra indipendenza, saremmo degli sciocchi a non accettarle».


Churchill appariva prostrato, confuso e pronto a cedere all' idea prospettata da Halifax. L' uomo, scrive McCarten, «si trovò messo nell' angolo e dovette riconoscere (la prima di una lunga serie di concessioni le quali, secondo lo storico, metterebbero in discussione l' immagine che abbiamo di lui, ndr ) che pur dubitando dell' utilità di un confronto con l' Italia la questione meritava il vaglio del Gabinetto di guerra».

In quel momento Churchill «prese in seria considerazione l' ipotesi di trattare la pace con Hitler», scrive McCarten, «per quanto tale idea possa oggi sembrarci disgustosa». So bene, prosegue l' autore, «che questa conclusione è impopolare e che mi pone in rotta di collisione con la quasi totalità degli storici e degli studiosi». Ma non si può non tenere conto di «un progressivo cedimento della sua precedente propensione a combattere a ogni costo, e un crescente interesse per l' ipotesi di negoziare la pace». In quel momento Churchill effettivamente diede disposizione che il ministro degli Esteri predisponesse un memorandum in cui venivano fissati i termini dell' iniziativa di pace. Si era arrivati a un passo dalla sua resa. Dopo di che sarebbe stato disarcionato e, quando la «mediazione Mussolini» fosse andata in porto, con ogni probabilità sarebbe stato sostituito con lo stesso Halifax.

A sorpresa, però, l' operazione Dynamo diede risultati insperati, oltre 330 mila soldati inglesi riuscirono a tornare nell' isola. Ma soprattutto Giorgio VI vinse le diffidenze della prim' ora, manifestò a Churchill il proprio impegno al suo fianco. Il primo ministro si riprese e giunse ad una resa dei conti con Halifax. Durissima. Churchill disse ad Halifax: «L' approccio che proponete è non solo futile, ma mortalmente pericoloso». E Halifax rispose così: «Qui il pericolo mortale è la romantica fantasticheria di combattere fino all' ultimo Cosa vuol dire "l' ultimo" se non la completa devastazione?». Churchill di rimando: «Ma quando la apprenderete la lezione? Dio santo! Quanti dittatori dovremo ancora vezzeggiare, blandire, favorire con immensi privilegi per capire che non si può ragionare con una tigre quando si ha la testa nelle sue fauci!».

Halifax: «Signor primo ministro, penso sia necessario mettere agli atti che se è questa la vostra unica prospettiva allora, sappiatelo, le nostre strade si dividono». E la «divisione delle strade» - questo era il senso della sfida - avrebbe fatto cadere il governo. Ma quel guanto fu lanciato in ritardo. Churchill con il sostegno del re e del Parlamento, conquistato con il secondo celeberrimo discorso nel quale impegnava il Paese a combattere «fino a quando Dio lo vorrà», piegò addirittura Chamberlain e riuscì a isolare Halifax. Che avrebbe mantenuto agli Esteri qualche mese per poi farlo fuori mandandolo, come ambasciatore, negli Stati Uniti.

venerdì 5 gennaio 2018

La Grande Guerra

Vittorio Feltri per Libero Quotidiano

Un secolo fa, nel 1918, si concluse la Prima guerra mondiale, che noi pensammo e ancora pensiamo di aver vinto. Sciocchezza, falsità utilizzata dai retori dell' epoca allo scopo di esaltare il cosiddetto amor patrio. La nostra fu una sconfitta in ogni senso, politico e militare.

Non si capisce perché partecipammo al conflitto. Se interroghi qualunque studente universitario in proposito non sa come rispondere oppure ripete una serie di luoghi comuni in cui lui stesso non crede. Provate a trasformare questa domanda sui motivi del nostro intervento in una sorta di test e scoprirete che nessuno sa qualcosa sulla tragedia in questione. Morirono centinaia di migliaia di uomini nelle trincee e durante gli assalti assurdi alle truppe austriache, e non abbiamo capito chi ce lo abbia fatto fare di organizzare ai nostri confini nordici una enorme macelleria.

L' Unità d' Italia era fresca, aveva poco più di 50 anni, e un brutto dì gli idioti del governo e del Parlamento, non certo migliori degli attuali, decisero di buttarsi in battaglia per ottenere non si sa quali benefici. I nostri soldati erano ignari dei motivi per cui dovevano andare in montagna a farsi massacrare e a massacrare colleghi stranieri. Le soldatesche sotto il tricolore che combattevano lassù tra i bricchi non parlavano neppure la lingua italiana, si esprimevano in massima parte nel dialetto della loro regione. A fatica si comprendevano.

D' altronde tra un alpino bergamasco e uno abruzzese, a quei tempi, l' incomunicabilità era totale. Essi erano uniti da un solo denominatore comune, costituito dalla sofferenza fisica, ai limiti della resistenza, e dalla paura di morire, che poi era una certezza. L' ordine dei generali, lacchè dei politici dissennati, era secco e indiscutibile: premere il grilletto e uccidere il nemico presunto.

Accadde di tutto durante le carneficine. Gli alpini che andavano avanti cadevano sotto i colpi austriaci, quelli che giustamente cercavano scampo indietreggiando erano ammazzati dagli ufficiali al grido: «crepate traditori e vigliacchi». E adesso c' è ancora chi ci viene a raccontare che quella sul Grappa e quella lungo il Piave furono pagine eroiche. Menzogne. La disperazione e il terrore spinsero i nostri militari denutriti e sfiancati a reagire: non volevano perire; della Patria, che manco sapevano cosa fosse, non gliene importava un accidente.


Gli storici, insufflati dai servi del potere, non hanno mai detto la verità. E quando i cannoni hanno smesso di sparare, hanno cominciato a sparare cazzate gli strateghi da salotto romano, dipingendo le intrepide gesta del nostro esercito quale prova dell'italico valore. Oggi, nonostante il tempo trascorso, che avrebbe dovuto indurre gli studiosi a rivedere la realtà alla luce della ragionevolezza, siamo tuttora qui ad abbeverarci ai sacri testi del militarismo più vieto, e seguitiamo a ruminare retorica per lodare il sacrificio dei soldati trucidati ubbidendo alla regia volontà.

Tutto ciò è insopportabile. Reiterare le bugie a scopo propagandistico è un esercizio ignobile, che rifiutiamo, al quale tuttavia pochi si sottraggono. Come cittadini, che conoscono a fondo l' Italia e la sua miseria intellettuale, ci vergogniamo di assistere a certe sceneggiate disgustose o, peggio, ridicole.

Nel rispetto delle vittime della Prima guerra mondiale, invochiamo almeno un po' di silenzio: basta far passare da scemi gli alpini che ci lasciarono la pelle per non realizzare i sogni di gloria d' un manipolo di deficienti seduti in poltrona. Dal gravissimo evento bellico il Paese non ricavò alcun vantaggio, ma solo funerali di terza categoria: nessuna pensione per i superstiti e un immenso dolore per i familiari.

Per comprendere quanto avvenne sulle Alpi è più utile ascoltare una canzone napoletana del 1915 'O surdato 'nnammurato che leggere tanti libri scritti da tromboni stonati e prezzolati.

mercoledì 3 gennaio 2018

Tom Wolfe

Alexandre Devecchio per Le Figaro / LENA, Leading European Newspaper Alliance pubblicato da la Repubblica

È uno dei più importanti scrittori viventi. Forse il più grande "scrittore francese" contemporaneo, tanto la sua opera è impregnata di quelle di Zola e Balzac. Il progetto dell' autore delle Illusioni perdute era di identificare le "specie sociali" dell' epoca, «scrivere la storia dimenticata da tanti storici, quella dei costumi».

E nello stesso modo Tom Wolfe, inventore del New Journalism, è l' etnologo delle tribù postmoderne: gli astronauti ( La stoffa giusta, 1979), i golden boys di Wall Street ( Il falò delle vanità, 1987), gli studenti decadenti delle grandi università ( Io sono Charlotte Simmons, 2004).

Vestirsi di bianco, come fa sempre, è un diversivo. Un modo per distrarre l' attenzione e non dover parlare troppo della propria arte o di se stesso. Alla psicologia e alle spiegazioni testuali Wolfe ha sempre preferito i fatti e le lunghe descrizioni, ma, a 86 anni, il dandy reazionario non ha più niente da perdere e non si sottrae a nessun argomento. Il fenomeno Harvey Weinstein - con le sue conseguenze - potrebbe essere, secondo lui, «la più grande farsa del Ventunesimo secolo».

In uno dei suoi libri, "Radical Chic", lei fustiga il politicamente corretto, la sinistra intellettuale, la tirannia delle minoranzeL' elezione di Donald Trump è una conseguenza di quel politicamente corretto?
«In quel reportage, inizialmente pubblicato nel giugno 1970 sul New York Magazine, descrivevo una serata organizzata il 14 gennaio precedente dal compositore Leonard Bernstein nel suo appartamento di tredici stanze con terrazzo, distribuito su due piani. Lo scopo della festa era una raccolta fondi per l' organizzazione Black Panther


Gli ospiti si erano premurati di assumere dei domestici bianchi per non urtare la sensibilità delle Panthers. Il politicamente corretto, da me soprannominato PC - che sta per "polizia cittadina" - è nato dall' idea marxista che tutto quello che separa socialmente gli esseri umani deve essere bandito per evitare il predominio di un gruppo sociale su un altro.

In seguito, ironicamente, il politicamente corretto è diventato uno strumento delle "classi dominanti", l' idea di un comportamento appropriato per mascherare meglio il loro "predominio sociale" e mettersi la coscienza a posto. A poco a poco, il politicamente corretto è perfino diventato un marcatore di questo "predominio" e uno strumento di controllo sociale, un modo di distinguersi dai "bifolchi" e di censurarli, di delegittimare la loro visione del mondo in nome della morale.

Ormai la gente deve fare attenzione a quello che dice. E va di male in peggio, specialmente nelle università. La forza di Trump nasce probabilmente dall' aver rotto con questa cappa di piombo. Per esempio, la gente molto ricca in genere tiene un profilo basso mentre lui se ne vanta. Suppongo che una parte degli elettori preferisca questo all' ipocrisia dei politici conformisti».
  
Nella sua opera, la posizione sociale è la chiave principale per la comprensione del mondo. Il voto per Trump è il voto di quelli che non hanno o non hanno più una posizione sociale o di quelli la cui posizione sociale è stata disprezzata?
«Attraverso Radical Chic descrivevo l' emergere di quella che oggi chiameremmo la "gauche caviar" o il "progressismo da limousine", vale a dire una sinistra che si è ampiamente liberata di qualsiasi empatia per la classe operaia americana.

Una sinistra che adora l' arte contemporanea, si identifica in cause esotiche e nella sofferenza delle minoranze ma disprezza i rednecks (bifolchi ndr) dell' Ohio. Certi americani hanno avuto la sensazione che il partito democratico fosse così impegnato a fare qualsiasi cosa per sedurre le diverse minoranze da arrivare a trascurare una parte considerevole della popolazione.

In pratica quella parte operaia della popolazione che, storicamente, ha sempre costituito il midollo del partito democratico. Durante queste elezioni l' aristocrazia democratica ha deciso di favorire una coalizione di minoranze e di escludere dalle sue preoccupazioni la classe operaia bianca. E a Donald Trump è bastato chinarsi a raccogliere tutti quegli elettori e convogliarli sulla sua candidatura».


Che considerazioni le ispirano l'affare Weinstein e la polemica #MeToo?
«Nessuno si prende la briga di definire correttamente cosa si intende per aggressione sessuale. È una categoria estremamente sommaria che va dal tentato stupro alla semplice attrazione, e da questa confusione nascono tutti gli eccessi. Sono diviso tra lo spavento, come cittadino, e il divertimento, come romanziere, per questa meravigliosa commedia umana. Se continua di questo passo, questa storia può diventare la più grossa farsa del Ventunesimo secolo. Sulla stampa, ancora adesso sul New York Post e sul New York Times, ci sono articoli in prima pagina con titoli a caratteri cubitali.
Oggi qualsiasi uomo dedichi qualsiasi sorta di attenzioni a qualsiasi donna, per esempio sul posto di lavoro, diventa un "predatore". Da quando è scoppiato il caso Weinstein, sento dappertutto uomini che dicono alle giovani donne che frequentano "non dovrei farmi vedere con te in questo o quel posto", "lavoriamo nella stessa impresa e sono in una posizione più alta della tua, farebbe una pessima impressione". Ormai gli uomini si preoccupano perché trovano attraenti certe donne. Improvvisamente ci ritroviamo in opposizione con le leggi naturali dell' attrazione che ora bisognerebbe ignorare.

Nessuno parla di quelle donne, tuttavia numerose, che provano un piacere concreto e considerevole a incontrare sul posto di lavoro un collega che trovano attraente. Un uomo che altrimenti non avrebbero avuto occasione di incontrare.


Penso che il mondo non sia cambiato così tanto da mettersi a proclamare che oggi all' improvviso le donne non vogliono più suscitare l' attenzione degli uomini. In realtà non è cambiato niente, eccetto il fatto che le donne dispongono di un potente strumento di intimidazione che prima non avevano.

Adesso possono rimettere al loro posto gli uomini le cui attenzioni sono troppo estreme o che esse giudicano troppo volgari, possono eliminare un rivale sul piano professionale o magari vendicarsi di un amante "troppo mascalzone". Per accusare qualcuno di aggressione sessuale sembra che ormai basti la parola di una donna e alcuni stanno già chiedendo un rovesciamento dell' onere della prova e che sia l' uomo sospettato a dover provare la propria innocenza».


 
Lei è l' inventore del New Journalism, un giornalismo che nella forma si avvicina alla letteratura ma che si fonda anche sul dettaglio delle ricerche e la precisione dei fatti riportati. L' era del digitale e dell' immediatezza ha spazzato via questo modo di fare informazione?
«A quel tempo, bastava scendere in strada e fare delle domande alla gente. Utilizzavo quella che chiamo la tecnica del marziano. Arrivavo e dicevo: "Sembra interessante quello che state facendo! Io vengo da Marte e non so niente: che cos'è?". Oggi certi giornalisti non escono mai dall' ufficio. Scrivono gli articoli navigando in internet. Ma non c' è alternativa: bisogna uscire!
Quando dei giovani scrittori o giornalisti mi chiedono un consiglio, cosa che capita raramente, io rispondo sempre: "Esci!"».


martedì 26 dicembre 2017

La verità sul Natale

Elisabetta Broli per “il Giornale”

L'importante è che non lo sappiano i bambini: Gesù non è nato il 25 dicembre, non è nato neanche nell'anno zero. E poi: a Betlemme non c'erano il bue e l'asinello, Gesù non è nato di notte in una grotta - i Vangeli non lo precisano - Giuseppe e Maria non furono cacciati dagli alberghi. La colpa è della tradizione popolare che, la fede ha bisogno anche di «immagini», ha diffuso nei secoli innocue bugie intorno a fatti e personaggi delle Sacre Scritture.

I DUBBI SULLA DATA DI NASCITA
E infatti chi lo dice che Gesù è nato il giorno di Natale? Scrive Luca nel suo Vangelo: «Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto». Nessuna data. Il 25 dicembre (fondamentale per i negozianti) è una data convenzionale, comparsa per la prima volta (inserita da chi?) in un calendario a Roma nel 326, a pochissimi anni dall'editto di Milano che concesse a tutti i cittadini dell'Impero la libertà di culto, cristiani compresi. Poi la data fu fissata nel 354 da papa Liberio e cominciò a essere accettata da tutta la Chiesa.

Nel 425 l'imperatore Teodosio ne codificò i riti, nel 506 divenne festa di precetto e nel 529 anche festa civile. Da ottocento anni è la festa più popolare tra i cristiani (mentre dovrebbe essere la Pasqua, un conto è nascere, nasciamo tutti, un conto è risorgere). Ma perché il 25 dicembre e non il 9 aprile? Due, tremila anni fa le culture festeggiavano, il 21 dicembre, le giornate che improvvisamente smettevano di accorciarsi con il sole che rinasceva.


In Egitto si ricordava il dio Horus, divinità solare figlio della vergine Iside; nella mitologia nordica un «figlio di Dio», Frey; i romani nello stesso periodo festeggiavano i Saturnali, una specie di Carnevale d'inverno con banchetti, giochi e scambio di doni.

Nel 274 l'imperatore Aureliano scelse il 25 dicembre per consacrare un nuovo tempio al Sole invitto, alias il dio Mitra vincitore delle tenebre e caro agli ambienti militari. Anche per la simbologia cristiana Gesù era il sole che nasce, il sole della giustizia: perché non approfittare di questa data? Insomma, una data simbolica scippata al paganesimo e reinterpretata in base alla teologica cristiana?

Quello che è certo, invece, è che Gesù non è nato nell'anno zero e di conseguenza non è morto a 33 anni. Cristo è nato cinque o sei anni...prima di Cristo. Tutta colpa di un certo Dionigi il Piccolo, un monaco russo matematico che nel VI secolo dopo complessi calcoli credette di identificare l'anno esatto della nascita di Gesù. Senza computer e neppure una piccola calcolatrice elettrica, si confuse fissando il punto zero della storia (in cui con la venuta di Gesù il tempo ha invertito il senso di marcia) nell'anno 753 dopo la fondazione di Roma.

Studiando con più attenzione le fonti storiche si è però scoperto che re Erode è morto tra marzo e aprile dell'anno di Roma 750 (l'attuale 4 a.C.), quando Gesù era già nato, da quello che dice l'evangelista Matteo sulla strage degli innocenti, ordinata da Erode contro i bambini «da due anni in giù». Insomma, le ipotesi storiche oggi più accreditate lo danno nato dal 5 al 7 a.C., litigando con chi sostiene che Dionigi il Piccolo è nel giusto.


IL SIGNIFICATO DEL BUE E DELL'ASINELLO
Anche sul bue e l'asinello, da mille anni inseriti in coppia nel presepe, qualche precisazione va fatta, partendo sempre dai Vangeli: non ne parlano. Come ci sono finiti? Il primo a inserirli, ma al terzo giorno, quando Maria sarebbe arrivata in una stalla, fu il Vangelo apocrifo dello Pseudo-Matteo: è qui che i due animali si accostano alla mangiatoia e si inginocchiano.

Tutti i testi antichi sono d'accordo nel dire che il bue e l'asinello non avevano la funzione di calorifero a fiato, ma quello di simbolo di adorazione, portando a compimento le scritture: «Il bue conosce il proprietario e l'asino la greppia del padrone» (Isaia); e secondo il libro dei Numeri l'asina di Balaam riconobbe l'angelo del Signore prima del suo padrone indovino. Gli hanno incollato addosso un po' di teologia. Secondo san Gerolamo l'asino significa l'Antico testamento e il bue il Nuovo; per san Bernardo l'asinello è il simbolo della pazienza virtuosa, il bue secondo Riccardo di san Vittore è segno dell'umiltà evangelica.

GROTTA SPERDUTA O MANGIATOIA
Via dal presepe anche la grotta sperduta nella campagna e isolata dal resto del mondo, e spazio alla mangiatoia come dice l'evangelista Luca, oppure semplicemente a una casa come scrive Matteo. Anche perché è verosimile: molte abitazioni della Palestina erano addossate a cavità della roccia, che custodivano gli animali. La «grotta» in cui nacque Gesù a Betlemme, conservata nella basilica, secondo studi archeologici è proprio un locale di questo tipo, incorporato nel recinto di una casa e non isolato nella campagna.

QUANTI ERANO I RE MAGI
La lista delle credenze prosegue nel post-Natale: i re Magi non erano tre; forse quattro o due, c'è chi sostiene fossero sessanta, e comunque non erano re. Non è vero che Babbo Natale sia a-cristiano e la Befana pure...Tutto questo, naturalmente, non inficia la fede. A chi crede sta bene anche che Gesù sia nato il 14 maggio e in un albergo ai Caraibi: beato lui!

venerdì 15 dicembre 2017

Oscar Wilde

Oscar Wilde è riuscito a diventare – purtroppo per lui – Dorian Gray. Quando Il ritratto di Dorian Gray è pubblico, nel 1890, Oscar Wilde è bello come un Gray, ha 36 anni, il cappotto con le maniche di pelliccia, il bastone, una cascata di capelli, il foulard e gli occhi magnetici. Nato a Dublino come Oscar Fingal O’Flahertie Wills Wilde, il più scandaloso e discusso scrittore inglese del XIX secolo, il dio dei dandy, il guru degli esteti, un manganello nel deretano dei vittoriani imparruccati di perbenismo, morì dieci anni dopo aver scritto il suo capolavoro. Povero in canna. Pingue. Stempiato. Senza denti. A elemosinare pennies ai passanti. A mendicare vitto&alloggio agli inglesi in Italia, in Svizzera, a Parigi. Negli ultimi anni di vita, Oscar Wilde si tramutò nel ritratto di Dorian Gray, sfatto, ulcerato, lacerato. L’uomo invecchia e deperisce; l’icona dell’uomo è immortale, immortalata dall’opera. Nicholas Frankel, professore al Virginia Commonwealth University con patentino wildiano, ha compiuto una bella variazione sulle (spesso stucchevoli) biografie del fantomatico Oscar. In Oscar Wilde: The Unrepeant Years (Harvard University Press, pp.384, euro 27,00), Frankel comincia a narrare la vita di Wilde dalla fine, dagli anni al Reading Goal, tra il 1895 e il 1897, in carcere per la relazione ‘sodomita’ con Lord Alfred Douglas. L’uscita dalla prigione suscita in Wilde una reazione duplice. Da un lato si premura di lottare per migliorare la condizione dei prigionieri nelle carceri inglesi, “mi schiero con loro, ora, d’altronde, appartengo alla loro classe”, scrive al direttore del carcere di Reading. Al Daily Chronicle invia un paio di reportage al vetriolo, promuovendo “riforme per alleviare fame, insonnia, malattie” ai carcerati. D’altro canto, “Wilde vuole godere con euforia della nuova libertà” (Frankel). “Mi sento come fossi risorto dai morti, stordito dalla meraviglia del mondo”, scrive lo scrittore a Fanny Bernard Beere, una attrice; e poi rimarca la dose, “sono votato a una esistenza dedita allo scandalo”. A onor del vero, appena uscito di gabbia, Wilde, andato in bancarotta, cerca di farsi accettare in un ricovero di gesuiti. In effetti, nella lunga lettera indirizzata a ‘Bosie’ Douglas dal carcere, il suo catastrofico De profundis, Wilde scrive che “il posto di Cristo è veramente tra i poeti. La sua intera concezione dell’umanità scaturisce nettamente dall’immaginazione e solo dall’immaginazione può essere capita… Cristo andrebbe annoverato tra i poeti, è vero. Shelley e Sofocle appartengono alla stessa schiera. Ma anche tutta la sua vita è la più stupenda poesia. Nulla nell’intero ciclo della tragedia greca può uguagliare la sua vita in ‘pietà e terrore’”.
I religiosi non vogliono saperne del sodomita. Allora Wilde emigra in Francia e fa della sua casa postribolo, un groviglio di verghe in fiore. Con la moglie i rapporti furono chiari e, per così dire, ‘castranti’: Constance Lloyd, sposata Wilde nel 1884, gli offre una indennità annuale di 150 sterline a patto di non avere più contatti con lei e con i loro due figli, Cyril e Vyvyan, e di non avere più rapporti con Alfred Douglas. A Oscar va bene la prima parte del programma. Quanto all’amato Douglas… tre mesi dopo essere uscito di prigione lo incontra a Parigi, poi viaggiano insieme, direzione Napoli, dimorando a Villa Giudice, Posillipo. L’evento, come si sa, è storicizzato: Matilde Serao ne scrive su Il mattino, le fa ammattire la bile “quell’infelice”, quella “calamità e flagello” intruppata nel girone degli “odiosamente pervertiti”. In effetti, la gita in Sud Italia ebbe epilogo terribile: pur celandosi dietro la maschera di Sebastian Melmoth, gli inglesi riconoscono lo ‘scandaloso’ Wilde e il suo boy, “a Capri, a fine ottobre, furono espulsi dall’albergo perché alcuni compatrioti si alzarono disgustati al loro ingresso in sala da pranzo, e minacciarono di andarsene”. Quando l’ennesima ‘scappatella’ di Wilde balzò alle orecchie della moglie, lei chiuse i rubinetti delle finanze. Lo stesso fecero i genitori di ‘Bosie’. Così tramonta “una grande tragica storia d’amore sventata dalle forze oscure… una delle più affascinanti storie d’amore gay di sempre” (così Colm Tóibín sul Guardianqui). Con arguzia english – cioè, scrivendo un saggio insaporito dal genio narrativo – Frankel legge gli ultimi, deliranti, dolorosi anni della vita di Wilde come l’apoteosi di un genio eccentrico. “Tutti si stancano di avere a che fare con un sacco vuoto”, sbottò Frank Harris, di fronte all’ennesima promessa dell’ennesimo capolavoro dell’esteta. Wilde, ormai, non scandalizza più nessuno: rompe solo le palle. “Beveva pesantemente, era disperatamente senza soldi, passava i giorni a ideare stratagemmi sempre più elaborati per spillare soldi al prossimo”. Finalmente, Wilde, mutatosi nel ritratto di Dorian Gray, un uomo di talento che si scoprì pezzente, muore, il 30 novembre del 1900 in un albergo di Parigi. In punto di morte non riusciva a parlare. Tuttavia, si convertì. Gli amici residui lo inumarono nel cimitero di Bagneaux. Nove anni dopo fu traslato al Père Lachaise: fu l’artista americano Jacob Epstein, stella del ‘vorticismo’, ennesima avanguardia fondata da Ezra Pound, a dare giustizia a Wilde sbalzandogli il monumento funebre.

lunedì 11 dicembre 2017

Gerusalemme capitale

Fulvio Scaglione - Linkiesta
Se nei prossimi giorni, come molti indizi fanno supporre, Donald Trump annuncerà lo spostamento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, avremo la definitiva conferma che è iniziato il secondo tempo della guerra di Siria. in forte crisi dall’offensiva Russa, dal dilagare dell’influenza politico-religiosa dell’Iran e dalla compromissione dei rapporti con la Turchia.
Per afferrare i contorni del quadro, occorre in primo luogo ricostruire la “questione Gerusalemme”. Vincendo la guerra dei Sei Giorni, nel 1967, Israele ottenne anche il controllo di Gerusalemme Est, l’altra metà della città che era era stata divisa in due nel 1948, dalla proclamazione dello Stato di Israele e dalla guerra che ne era seguita. Nel 1967 Israele dichiarò alle Nazioni Unite che non si trattava di un’annessione ma solo di una “integrazione giuridica e amministrativa”. Atteggiamento che cambiò rapidamente, quando la Corte suprema israeliana stabilì che Gerusalemme Est era diventata “parte integrante” dello Stato ebraico. Nel 1980, infine, il Parlamento di Israele approvò la Legge per Gerusalemme come parte della Legge fondamentale dello Stato ebraico, dichiarando Gerusalemme capitale unificata dello Stato ebraico.
Per il resto del mondo, però, tutto questo non ha alcun valore. L’Onu considera Gerusalemme Est “territorio occupato”, una posizione che dura dal 1947, quando fu approvata la Risoluzione 181 che dice: “La città di Gerusalemme resterà un corpus separatum retto da un regime speciale internazionale e amministrato dall’Onu”. Idea ribadita sempre, dalla Risoluzione dell’Assemblea Generale del 1949, dal Rapporto speciale sui diritti dei palestinesi del 1979, dalla Risoluzione 63/30 del 2009 e da altre sei Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, compresa la 478 del 1980 che definiva la Legge per Gerusalemme approvata dalla Knesset “una violazione del diritto internazionale”. Dal punto di vista della legittimità internazionale, insomma, l’annessione israeliana di Gerusalemme Est vale quanto l’annessione russa della Crimea: nulla.Così la pensa, con qualche sfumatura, in pratica tutto il mondo, con le eccezioni della Repubblica Ceca e di Vanuatu. Usa, Ue, Russia, Vaticano: tutti fermi sul corpus separatum fino all’arrivo di Donald Trump. Che non a caso ha nominato ambasciatore in Israele David Friedman, un ebreo ortodosso che, con un gesto almeno inconsueto per un diplomatico, come prima cosa è andato a pregare al Muro del Pianto.
È chiaro che Trump, se prenderà la decisione di spostare l’ambasciata Usa da Tel Aviv (dove restano quelle di tutti gli altri Paesi) a Gerusalemme, riconoscerà l’annessione di Gerusalemme Est, renderà legittimi gli insediamenti e cambierà, grazie alla potenza americana, il quadro internazionale. Ma perché proprio ora? E a che cosa serve questa mossa?
Non è un caso se la “questione Gerusalemme” si riapre proprio mentre la stessa amministrazione Usa annuncia la presentazione, all’inizio del 2018, di un piano di pace tra Israele e palestinesi. Se spostare l’ambasciata serve a rafforzare Israele, il piano di pace dovrebbe rinsaldare la posizione dell’Arabia Saudita, che infatti ne è grande sponsor. I sauditi, infatti, non vedono l’ora di poter stipulare un’alleanza vera (quella di fatto c’è già) con Israele, ovviamente in funzione anti-Iran. Ma per farlo, devono concedere qualcosa al mondo arabo e, soprattutto, devono evitare di passare per traditori della causa palestinese.
Lo ha spiegato bene Yaacov Nagel, fino alla primavera scorsa consigliere per la sicurezza nazionale del premier israeliano Netanyahu. Ai sauditi non importa più nulla dei palestinesi. All’erede al trono Mohammed bin Salman basta poter dire “c’è un accordo”, riservandosi magari di farlo trangugiare ad Abu Mazen e alla sua dirigenza senescente e corrotta con qualche robusta iniezione di denaro.
A quel punto, l’asse israelo-saudita potrebbe nascere e contrapporsi alla crescente influenza dell’Iran con maggiore forza ed efficacia, inglobando magari qualche comprimario come il premier libanese (musulmano sunnita) Saad Hariri, non a caso fresco di ritiro delle dimissioni che erano state annunciate un mese fa da quell’Arabia Saudita dove era scappato dicendosi minacciato di morte da Hezbollah.
Su tutto la benedizione degli Usa di Donald Trump che, sempre guarda caso, hanno coperto di armi i sauditi (a farlo con gli israeliani aveva già pensato Obama, con un aumento dei fondi per la difesa dello Stato ebraico pari a 700 milioni annui per dieci anni), aperto un ombrello politico enorme su Israele e sulla politica degli insediamenti e sconfessato l’accordo sul nucleare dell’Iran firmato nel 2015. Inizia così, appunto, il secondo tempo della guerra in Siria.

Meglio non nascere

Terminato il piagnisteo nazionalpopolare? Lui ha la soluzione. Dati Istat: in Italia non facciamo più figli. Trombiamo (si spera), ma non procreiamo. “Nell’arco di 8 anni – dal 2008 al 2016 – le nascite sono diminuite di oltre 100 mila unità”, dice plumbeo l’istituzione nazionale delle statistiche. Precisando: “le donne italiane hanno in media 1,26 figli” e i figli si fanno sempre più tardi. E allora? Apriti cielo. Un Paese senza figli è un Paese sull’orlo della barbarie, preda dei barbari: adottiamo una ‘politica per le famiglie’, con assegni per il bebè e magari un dipendente pubblico che inietti gli spermatozoi di papà nell’ovulo sacro di mammà. Fermi tutti, state tranquilli. Un filosofo ha la soluzione per tutti i nostri mali riproduttivi. Lui si chiama David Benatar, 51 anni, prof e guida del dipartimento di filosofia dell’Università di Cape Town, Sudafrica. Il tipo è un pizzico sociopatico – non si fa fotografare, si fa vedere poco in giro – ed è il guru degli anti-natalisti. Che vuol dire? Questo: “Mentre le brave persone fanno ogni cosa per risparmiare la sofferenza ai propri figli, pochi di loro hanno capito che il modo migliore per prevenire le sofferenze dei figli è non metterli al mondo”.Semplice, rotondo, ovvio. Per non soffrire non occorre ritirarsi in monastero a fare i gargarismi con Siddharta; non bisogna far nascere i figli. Se c’è il nulla, non c’è il dolore. Il pensiero nitido e letale – corredato da sentenze come questa: “al contrario di quello che molti pensano, la qualità della vita umana è piuttosto terrificante” – è espresso in Better Never To Have Been, il libro del 2006 con cui Benatar, in modo piuttosto stupefacente, è salito sugli altari della filosofia. Ora queste idee sono sintetizzate in The Human Predicament: A Candid Guide to Life’s Biggest Questions (Oxford University Press, pp.288, $ 24.95), dove il filosofo parte in quarta: “Nasciamo, viviamo, soffriamo per poi morire – obliati per il resto dell’eternità. La nostra esistenza è soltanto un bagliore nel tempo e nello spazio cosmico. Non è sorprendente, allora, chiedersi: ‘perché tutto questo?’”. Convinto – e ha ragione da vendere – che “le grandi questioni dell’esistenza dovrebbero essere il pane e il burro dei filosofi”, i quali, al contrario, “come tanti scrittori e artisti pare abbiano altro a cui pensare”, Benatar ci spiega ciò che sappiamo da sempre: che il dolore ha la meglio sul piacere – “cinque minuti di dolore terrificante sono indimenticabili rispetto a cinque minuti di piacere estasiante, ma passeggero” – che la natura ci è avversaria e avversa – terremoti, gelo, caldo asfissiante – che l’uomo è notoriamente crudele, brutto e cattivo con il prossimo suo, che la sofferenza, di per sé, non ha alcun valore ‘maieutico’: “la sofferenza, semplicemente, non ha senso, la gente tenta di trovare un senso alla sofferenza perché pensare che la sofferenza sia gratuita è insopportabile”. Ergo: “non sono contrario al divertimento, ammetto che nella vita possano accadere cose buone e piacevoli”, ma è il dolore a sigillare il nostro passaggio sulla terra, “la vita è dolore tanto quanto la morte”, per questo, meglio non nascere, meglio, se si è buoni di cuori, evitare di arrecare altra sofferenza mettendo al mondo altri figli destinati a soffrire.
Il giovane favoloso
Elio Germano interpreta Giacomo Leopardi ne “Il giovane favoloso”
Per questo, filosofico paradosso, l’Istat corrobora le idee di Benatar: se gli italiani non fanno figli sono a un passo dall’illuminazione. “David Benatar può essere considerato il filosofo più pessimista del mondo”, attacca Joshua Rothman, che ha intervistato l’anti-natalista sulle pagine del New Yorker. Se agli americani le parole di Benatar risuonano nuove, tonanti, tenebrose, per noi vecchi di cultura sono, però, il ritorno del già detto e del già udito, un valzer un po’ rétro. Il pensiero di Benatar, infatti, è del tutto dipendente da Giacomo Leopardi, il quale, nel Canto notturno del pastore errante dell’Asia, che studiamo quando siamo alti così, si pone le stesse domande del filosofo sudafricano, ma con decuplicata forza lirica (“Se la vita è sventura/ perché da noi si dura?”). Di fatto, è proprio Leopardi – che pure non è citato – a costruire l’ossatura del pensierino ricalcato di Benatar: le domande sul senso del cosmo (“A che tante facelle?/ Che fa l’aria infinita, e quel profondo/ infinito seren? Che vuol dir questa/ solitudine immensa?”), la riflessione che “la vita è male”, che la sofferenza comincia con la nascita (“Nasce l’uomo a fatica… prova pena e tormento/ per prima cosa; e in sul principio stesso/ la madre e il genitore/ il prende a consolar dell’esser nato”) e che dunque è meglio non nascere, perché “è funesto a chi nasce il dì natale”. Vedete? L’anti-natalista l’abbiamo in antologia scolastica, è il più grande poeta dell’Italia moderna. D’altra parte, sono stati anti-natalisti pure i bravi cristi, i cristiani: gli encratiti, di cui parlano Ireneo di Lione e Clemente di Alessandria, ritenevano che il mondo fosse peculiarmente malvagio, che Gesù Cristo l’avesse liberato e che bisognasse adempiere alla sua opera non mettendo più al mondo figli, portando all’estinzione una umanità ormai benedetta, ma abietta. Insomma, questo edonismo del nulla attraversa la storia del pensiero occidentale: a volte l’uomo non ne può più di se stesso. Ora occorre programmare un incontro tra Silvio Berlusconi, che vuole vivere fino a 125 anni, e David Benatar, che vorrebbe morire domani.

MORIRE

  www.leggo.it  del 5 aprile 2024   JULIE MCFADDEN- 1 Julie McFadden è un'infermiera molto famosa sui social perché condivide le sue esp...