lunedì 21 agosto 2017

Abbazia Palermo

L’abbazia insanguinata dove esplose il Vespro

I monasteri cistercensi sono per eccellenza dei luoghi di pace. Ma a Palermo, davanti a uno di essi, la collera di un marito geloso diede il via a una guerra lunga e sanguinosa
In questa caldissima estate, «andar per Medioevo» in Italia può riservare qualche freschissima, se non inattesa, sorpresa. Una di queste sono le abbazie cistercensi. L’ordine nacque nell’abbazia di Cîteaux (Cistercium in latino), in Borgogna, fondata nel 1098 da Roberto di Molesmes. Lo scopo: imprimere una spinta ancor più forte alla congregazione benedettina cluniacense (protagonista del rinnovamento della Chiesa), ritornare ad una maggiore austerità, rinverdire la regola di San Benedetto, proseguire nel percorso di riforma. Il successo fu immediato, pure in Italia. Il primo monastero cistercense nella Penisola fu Santa Maria e Santa Croce di Tiglieto, sorto nel 1120 alle pendici dell’Appennino ligure, nell’attuale provincia di Genova, sul versante del rilievo che guarda al Piemonte. Dopo di esso, la fama dell’ordine si sparse dal Nord fino all’estremo Sud, isole comprese, con esempi mirabili di abbazie, da Chiaravalle al celeberrimo San Galgano, da Casamari a Fossanova; monasteri di cui è possibile seguire oggi un itinerario omogeneo e suggestivo nel volume di Carlo Tosco Andare per le abbazie cistercensi, nella collana del Mulino «Raccontare l’Italia».
Una abbazia, però, per la sua storia, colpisce più di tutte. È tra le più lontane dalla casa madre borgognona: si chiama Santo Spirito e si trova a Palermo. A guardarla, si capisce che ha poco a che vedere con le sue consorelle. Sono troppi infatti gli influssi che ne caratterizzano la fisionomia. Si sente, fortissimo, l’eco normanno, accompagnato da ascendenze arabe e bizantine, sia a livello planimetrico sia decorativo: e non poteva essere diversamente in quel melting pot che è Palermo nel momento della consacrazione della chiesa, il 22 giugno 1172. La intitolano al Santo Spirito, fatto abbastanza anomalo. Non è anomalo invece che nasca appena fuori le mura, sul lato meridionale della città, in un’area di orti e giardini. L’ideale del rifiuto del mondo e del desertum come spazio di elezione per le abbazie cistercensi era stata in effetti una caratteristica delle origini. Dopo, i monaci bianchi intrecciano rapporti con il mondo urbano, soprattutto nell’Italia settentrionale, dove le città avevano assunto un ruolo politico decisivo, con la nascita dei
governi comunali. Chiaravalle ad esempio era stata fondata alle porte di Milano. Come anche le abbazie dell’Emilia, del Piemonte o della Liguria avevano stabilito legami durevoli con città come Piacenza, Vercelli o Genova. E allora, perché non crearne anche con Palermo, una delle grandi capitali del Mediterraneo? Fu così che l’abbazia cistercense di Santo Spirito sorse non a metà tra Cielo e Terra, ma tra la città e il suo hinterland: uno degli emblemi del nuovo regno cristiano di Sicilia, beneficata con larghezza dai re normanni.
Dopo i momenti iniziali, per tutto il Duecento l’abbazia scompare dai riflettori. Vive una vita normale, senza sussulti. Dall’anonimato esce però di forza, con uno shock per il Mezzogiorno, in un giorno preciso. È il 31 marzo 1282, un martedì dopo Pasqua di una primavera incipiente. A Palermo, per strada, ci sono persone le più diverse. Tanti i siciliani ma, tra essi, guardandosi in cagnesco, i francesi, la gente di re Carlo I, l’usurpatore angioino, non sono pochi. Comunque, il clima sembra festoso. E grandi tensioni, per ora, non si avvertono. Escono numerosi da porta Sant’Agata e si dirigono verso Santo Spirito, per ascoltare la messa del Vespro. Sembra, per tutti, quasi una scampagnata. Come al solito, sul sagrato si ferma gente. D’un tratto, la tragedia. Un soldato francese si avvicina a una donna. La vuole perquisire? «Farle villania»? Rapire? Non si capisce. Però l’aggressione c’è. Dura, proterva. La donna urla. Il marito reagisce, con violenza. La colluttazione si trasforma in assassinio. Il sagrato di Santo Spirito in un istante diventa teatro di una zuffa, tra palermitani e francesi. È la scintilla. Il pretesto che tanti aspettavano per dar vita ad una rivolta antifrancese. Che parte proprio da qui, dall’abbazia cistercense. Con un grido che rimbomba, cresce, si amplifica, tanto da muovere Palermo a urlare «mora, mora», come scrive Dante. Insomma, morte ai francesi! La caccia agli angioini dilaga per la città, casa per casa, quartiere per quartiere. E, da qui, si diffonde in tutta l’isola. Il massacro trabocca, diventa carneficina e non risparmia nessuno.
I fatti di Santo Spirito inaugurano la guerra del Vespro: lunga, intricata, a tratti terribile, decisiva per i destini del Sud Italia. Terminerà solo vent’anni dopo, con la pace di Caltabellotta del 1302 che consegna la Sicilia allo spagnolo Federico III d’Aragona, ma avrà strascichi per quasi cento anni. Mentre l’abbazia diventa per la memoria collettiva Santo Spirito «del Vespro»: il luogo di partenza di una delle più drammatiche fratture vissute dal Sud, con l’emergere di due contrapposte entità, le «due Sicilie» (da una parte l’isola, dall’altra il Mezzogiorno continentale), caratterizzate da distinti sentimenti comunitari, difficilmente ricomponibili.

domenica 20 agosto 2017

Strage nell'antica Atene

Le Fosse Ardeatine di Atene Un giallo di 2.650 anni fa

Enigmi Scoperte in un sobborgo della capitale greca le ossa di giovani uccisi con colpi alla testa nel VII secolo avanti Cristo. Si ritiene che siano i seguaci di Cilone, sterminati sugli altari di un tempio dopo il fallito tentativo del loro capo di prendere il potere

Il fallito colpo di Stato dell’aristocratico Cilone, vincitore nella corsa alle Olimpiadi che tentò di occupare l’Acropoli e di farsi tiranno di Atene, avrebbe forse suscitato scarso interesse anche fra gli antichi, se non si fosse concluso con una strage dei ciloniani nell’area sacra alla dea Atena, che costò ai responsabili dell’eccidio il marchio infamante di sacrileghi. Questa maledizione pesò nella memoria collettiva e ricadde sugli Alcmeonidi, la famiglia da cui discendeva in linea materna Pericle, simbolo della democrazia ateniese.
Il racconto più dettagliato, dopo quello vago ed enigmatico di Erodoto, lo offre Tucidide nelle Storie. Secondo lui l’aristocratico Cilone, interpretando erroneamente un responso dell’oracolo di Delfi che gli aveva indicato la festa di Zeus come buona occasione per un colpo di Stato ad Atene, aveva occupato l’Acropoli durante i giochi olimpici. Era sostenuto da un club di coetanei, ma si appoggiava anche alle truppe di Teagene, tiranno di Megara, di cui aveva sposato la figlia. Gli Ateniesi, però, erano intervenuti in massa dai campi per assediare i ciloniani sull’Acropoli, e poi l’assedio era stato gestito collettivamente dai nove arconti di Atene, fra i quali spiccava Megacle, della potente famiglia degli Alcmeonidi. Infine, quando molti congiurati erano già morti di fame e di sete, Cilone e il fratello erano scappati, e i sopravvissuti si erano posti come supplici nel tempio di Atena. Gli arconti avevano persuaso i ciloniani a uscire dal tempio con la promessa che li avrebbero sottoposti a regolare processo, ma poi avevano fatto una strage, lapidandoli e sgozzandoli sugli altari dove si erano rifugiati. Il sacrilegio era inaudito, una macchia indelebile su Megacle e sui suoi discendenti, che da allora vennero chiamati «empi nei confronti della dea».
All’inizio della Costituzione degli Ateniesi, Aristotele sottolinea che Megacle e gli altri autori del sacrilegio erano stati poi processati ed espulsi da Atene, o meglio i vivi erano stati esiliati, e persino le ossa di quelli che nel frattempo erano morti erano state esumate e gettate fuori dai confini. Più tardi anche Plutarco, nella biografia di Solone (638-558 a.C.), ricorda il processo e l’esilio dei sacrileghi vivi e l’esumazione dei morti, mentre Diogene Laerzio precisa che Solone aveva chiamato da Creta il saggio e veggente Epimenide per purificare la città da una pestilenza, quest’ultima vista come conseguenza diretta del sacrilegio. Epimenide aveva eseguito alcuni riti e preghiere, permettendo a Solone di richiamare gli Alcmeonidi dall’esilio: Clistene, autore di importanti riforme che di fatto fondarono la democrazia ateniese, era del loro ceppo. Ma la maledizione continuò ad essere usata come arma politica per molto tempo.
La data e la sequenza dei fatti di Cilone sono discusse. La maggior parte degli studiosi pone il colpo di Stato e il sacrilegio fra il 640, presunta data della vittoria olimpica di Cilone, e il 621, data delle leggi di Dracone sugli omicidi, leggi che regolamentavano i giudizi per assassinio, limitando l’autorità delle grandi famiglie a favore dello Stato, e che furono forse un modo di rispondere alle ri- percussioni dei tragici fatti. Il processo e la condanna degli Alcmeonidi sono invece posti una generazione dopo l’accaduto, intorno al 600-590 a.C., il che giustificherebbe il riferimento all’espulsione delle ossa dei sacrileghi che al momento del processo erano già morti e sepolti. Permangono tuttavia numerosi dubbi, non solo perché la vicenda subì continue deformazioni e condizionamenti in senso filo o antidemocratico, ma anche perché si tratta di uno dei più antichi episodi della storia greca propriamente detta — al di fuori del mito — e pertanto presenta forti problemi di sovrapposizioni e confusioni nella memoria collettiva.
Nel maggio 2016, durante gli scavi per la costruzione della National Library of Greece e della National Opera di Atene, è stata rinvenuta nella zona del Falero (Fàliro), un sobborgo a sud-ovest di Atene, sito del più antico porto e della più grande necropoli della città, una sepoltura di massa con ottanta scheletri umani ed equini ben conservati. Gli scheletri sono stati trovati allineati uno vicino all’altro, con le mani legate da ceppi di ferro, alcuni con la faccia rivolta a terra, cosa che li ha fatti considerare prigionieri o schiavi. Le loro ossa e i denti in buone condizioni sono indizio di buona estrazione sociale e suggeriscono che essi morirono in giovane età. Probabilmente furono uccisi con colpi alla testa, tutti insieme, vittime forse di un’esecuzione politica. Uno scenario che ricorda le Fosse Ardeatine o Srebrenica. Due piccoli vasi trovati nella sepoltura sono stati datati intorno alla metà o all’ultimo quarto del VII secolo a.C. (650-600 a.C.) La direttrice dei servizi archeologici regionali, Stella Chrysoulaki, pensa che si possa trattare della fossa comune in cui vennero gettati i seguaci di Cilone.
Spettacolo macabro Gli scheletri sono stati trovati allineati uno vicino all’altro, con le mani legate da ceppi di ferro, alcuni con la faccia a terra, il che li ha fatti considerare prigionieri o schiavi
Subito dopo la strage, i corpi degli uccisi, legati per l’arresto e poi lapidati a tradimento, saranno certo stati rimossi dall’area sacra e posti in una tomba nella necropoli del Falero, cinque chilometri a sud-est del tempio di Atena. Anche se tecnicamente erano nemici dello Stato, erano ritenuti degni di sepoltura. Si deve notare che la zona del Falero, dove è stata rinvenuta la fossa, è posta in collegamento con le vicende di Cilone già dalle fonti antiche. Infatti, Diogene Laerzio riporta che, per purificare Atene dal sacrilegio, Epimenide eresse altari anonimi (noti anche a san Paolo che li chiama «al dio ignoto») e pronunciò una preghiera propiziatoria nella zona portuale della città. In quell’occasione Epimenide svolse un ruolo fondamentale anche come creatore del pensiero storico, cioè come primo interprete del passato, nei suoi snodi complessi, in relazione al presente: come diceva Aristotele nella Retorica, «egli non divinava sul futuro, bensì su ciò che è passato, ma è oscuro». Salvata Atene, il saggio tornò a Creta senza accettare ricompensa.
Ora gli scheletri sono sotto stretta sorveglianza nella American School of Classical Studies di Atene, ed è già iniziato un progetto di studio da un milione di euro, finanziato da istituzioni private greche e americane, che per qualche anno li analizzerà con le più sofisticate tecnologie, indagandone il Dna di provenienza, l’età e la parentela, la dieta e lo status, il tempo e il modo della morte. Gli studiosi si dividono fra i sostenitori dell’ipotesi ciloniana e gli scettici, secondo cui potrebbero esserci stati molti altri eccidi di gruppo agli albori della democrazia ateniese, di cui gli antichi non hanno potuto o voluto dare conto. Non resta che attendere il responso delle indagini che, come un Epimenide redivivo, potrebbero finalmente sciogliere uno dei più antichi misteri della storia greca.

Arte contemporanea

Ma, esattamente, quando inizia l’arte contemporanea?

Datazioni Fino al termine degli anni Novanta, si considerano «contemporanee» le opere realizzate all’indomani della Seconda guerra mondiale; dopo il Duemila quelle prodotte a partire dagli anni Sessanta; con la caduta del comunismo e l’avvento della globa

Domande forse superflue, prevedibili, retoriche. Eppure, decisive. Che cos’è «contemporaneo»? E ancora: a cosa pensiamo quando parliamo di contemporaneo? E, infine: quando inizia il contemporaneo?
Siamo di fronte a una categoria problematica, che ha valenze temporali e, insieme, spaziali. Evoca un territorio che abitiamo e percorriamo, senza però riuscire mai a perimetrarlo. Non esiste unanimità nel delimitare i confini di questo «luogo». Che ha molte tangenze con altri «luoghi», con i quali talvolta si mescola, fino a sovrapporvisi.
Si pensi alle dispute che, nel lessico accademico, tendono ancora a confondere arte contemporanea e moderna. In tanti ritengono che i due periodi siano interscambiabili. Questa tesi, tuttavia, impedisce di distinguere in modo netto la fase che va dalla metà del Quattrocento alla fine del Settecento e quella che va dai primi anni dell’Ottocento a oggi. Inoltre, mentre pochi hanno dubbi sull’inizio e sulla fine della modernità, in tanti si interrogano sugli «esordi» della nostra età. Secondo alcuni (Argan), comincerebbe nel 1770; secondo altri (Barilli), nel secondo Ottocento (dopo l’Impressionismo, con Cézanne). Ma — occorre chiedersi — è ammissibile una contemporaneità che dura da più di due secoli e mezzo e minaccia di non finire mai?
Per sottrarsi a simili dilatazioni, da qualche anno alcuni studiosi hanno avviato una radicale ridefinizione di questa «figura» liquida e sfuggente, collegandola spesso ad alcuni eventi politici di portata epocale, come ha ricordato il critico d’arte inglese Claire Bishop in uno stimolante pamphlet ( Museologia radi
cale, Johan&Levi). Gli scenari dell’Occidente, innanzitutto. Sino alla fine degli anni Novanta, si considera contemporanea l’arte realizzata all’indomani della Seconda guerra mondiale. Dopo il 2000, quella prodotta dagli anni Sessanta. Infine, con la caduta del comunismo e l’avvento della globalizzazione, le esperienze nate dopo il 1989. E in Oriente? In Cina, si giudica contemporanea l’arte creata al termine degli anni Settanta, dopo la fine della Rivoluzione culturale; in Giappone, quella concepita dopo la catastrofe di Hiroshima; in India, quella eseguita sin dagli anni Novanta.
Differenti le posizioni degli studiosi sudamericani, i quali, per sottrarsi alle «nostre» classiche suddivisioni, tendono a non disgiungere la prima parte del Novecento dalla postmodernità. Mentre appaiono più articolate le periodizzazioni adottate in Africa. Nei Paesi anglofoni e francofoni, l’«età nuova» comincia tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Sessanta; allo stesso modo nelle ex colonie portoghesi, tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi del decennio successivo; in Sudafrica, negli anni Novanta, con la fine dell’apartheid.
Queste oscillazioni rivelano incertezze, dubbi. Dunque, non esiste un unico «contemporaneo». Ma esistono tante diverse forme di contemporaneità: e cia- scuna rilevante area culturale del mondo ne ha offerto la propria declinazione. È il trionfo del relativismo.
È questa la ragione per cui alcuni tra i più avvertiti teorici dell’arte di oggi hanno invitato a spostarsi al di là di certe letture storicistiche, per interpretare il contemporaneo come una paradigmatica nozione metastorica e discorsiva. Come una «finzione operativa» (il filosofo Peter Osborne). Come un «atto produttivo dell’immaginazione» (Bishop). Ma soprattutto come un modo per misurarsi in maniera diversa con lo spazio del presente. Che si annuncia non come dato statico, ma come palinsesto mobile, destinato a modificarsi ininterrottamente, insinuando in noi dubbi e domande. Si tratta, potremmo dire con le parole di Antonio Tabucchi, del nostro «coinquilino esistenziale», di cui conosciamo solo alcune abitudini: l’indecifrabilità, la non-reversibilità. Ma non sapremo mai se l’attraversiamo o se ne siamo attraversati.
Certo, proclamarsi oggi contemporanei, ha ricordato Boris Groys, docente alla New York University, filosofo e teorico
Paralisi Proclamarsi contemporanei, ha teorizzato Boris Groys, significa sottrarsi alla logica del modernismo, segnata dalla volontà di tendere verso un avvenire glorioso, per condannarsi alla riproduzione di un’attualità senza futuro
dell’arte sulla scena globale, significa sottrarsi alla logica del modernismo — segnata dalla volontà di tendere verso un avvenire glorioso — per abbandonarsi a «un differimento prolungato e tendenzialmente infinito», a un’attualità noiosa, «che riproduce se stessa senza condurre verso nessun futuro», come un video costretto a un inarrestabile loop.
Ma significa anche altro. A differenza di quel che sostengono tanti curatori chiamati a dirigere la Documenta di Kassel o la Biennale di Venezia, il contemporaneo allude al pensare ciò-che-è-adesso non come il vertice (provvisorio) di un’unica linea scandita in segmenti successivi, ma come una geografia dotata di densità e spessore: estesa ma unitaria, pronta ad assimilare antinomie e differenze, capace di abbracciare temporalità eterogenee, in tensione tra di loro. Come una pianura su cui episodi lontani si annodano secondo controritmi complessi, irriducibili al piano orizzontale della diacronia. Come una fessura longitudinale dentro cui si depositano frammenti provenienti da fonti diverse. Come una trama i cui molteplici fili si collegano tra di loro. O come un fiume che accoglie in sé tanti affluenti.
A queste stratificazioni aveva rimandato Walter Benjamin ne I «passages» , dove si parla del «tempo-ora» come di un istante in cui sono conficcate schegge di passato e di futuro, di preistoria e di post-storia; e dove si elogia l’«immagine dialettica», intesa come costellazione nella quale si incrociano l’arcaico e l’attuale; come evento che, prodotto in un determinato momento storico, si sporge fuori di sé verso radici remote di cui si sono perse le tracce; come nodo di sopravvivenze di periodi precedenti e di prefigurazioni possibili.
Benjamin ha colto il volto più perturbante e segreto del concetto di contemporaneità, su cui si basano le recenti riarticolazioni delle collezioni permanenti di musei come il Van Abbemuseum di Eindhoven, il Reina Sofía di Madrid e il Musm di Lubiana, che hanno mirato a «riavviare il futuro per effetto dell’inaspettata epifania di un passato significativo» (Bishop). Il fondamento teorico di queste operazioni è costituito dalle riflessioni portate avanti, tra gli altri, da pensatori come Giorgio Agamben ( Che cos’è il contem
poraneo?, uscito ormai quasi dieci anni fa, nel 2008), Terry Smith ( What is Con
temporary Art?, pubblicato nel 2009), Alexander Nagel-Christopher Wood ( Anachronic Renaissance, 2010) e, appunto, Claire Bishop, i quali condividono la necessità di sganciare l’idea di «presente» da certe visioni astrattamente progressive.
Essere contemporanei, secondo questi autori, vuol dire non esserlo fino in fondo. Non adeguarsi alle pressioni delle mode. «Epocalizzare» la propria epoca: ovvero, sospenderla, metterla tra parentesi. Intendere la Storia non come un percorso caratterizzato da sviluppi e da avanzamenti, ma come il girato di un film privo di montaggio. Smarrirsi tra i sentieri di un tempo frantumato, che appare come una corda sfilacciata. Rompere le continuità. Violare le esattezze cronologiche. Commettere consapevoli errori nei confronti di ogni concordanza. Non coincidere con il contesto in cui ci si muove. Ma rifiutare le sollecitazioni dell’esistente e mettere in scena analogie tra « sequenze» l o nt a ne. Non te nere l o sguardo fisso sul «sorriso demente» della cronaca, né inseguire le oscillazioni del gusto. Ma essere «intempestivi», sperimentando scarti e sfasature, anacronie e discronie. Insomma, aderire alle emergenze della quotidianità e, insieme, conservare margini di distanza da esse.
Essere davvero contemporanei, ha scritto Agamben, significa scrutare quel che si nasconde dietro le evidenze. Spezzare le vertebre dell’attualità, per mettere in relazione questo tempo con altri tempi. Percepire nel buio del presente un’«inesitabile» luce che, «diretta verso di noi, si allontana infinitamente da noi». Vedere l’ombra che si annida dietro la superficie delle cose. Infine, «arrivare a un appuntamento che si può solo mancare».

Piano Marshall

La mania di imitare Marshall Il Piano che cambiò la storia

Visioni Settant’anni fa mutò il corso del nostro continente. Un programma simile è stato invocato per Europa orientale, Africa e mondo intero. Ecco come andarono le cose

Fu un’acuta intuizione politica del presidente americano, Harry S. Truman, un democratico, quella di nominare segretario di Stato, nel 1947, George P. Marshall e di volere che il più grande piano di cooperazione internazionale mai realizzato venisse denominato «Piano Marshall» e non «Piano Truman». Disse Truman: puoi immaginare quale possibilità di essere approvato avrebbe avuto, in un anno di elezioni, in un Congresso repubblicano, se fosse stato chiamato «Piano Truman», invece di «Piano Marshall»? Truman ha lasciato scritto nelle sue memorie che «Marshall è il più grande uomo della Seconda guerra mondiale», l’«architetto della vittoria», l’uomo che ha saputo andare d’accordo con Roosevelt, Churchill, il Congresso americano, la Marina e lo Stato maggiore.
L’European Recovery Program, quello che viene definito correntemente Piano Marshall, aveva alle spalle un programma delle Nazioni Unite — United Nations Relief and Rehabilitation Administration (Unrra) — del 1943, a capo del quale fu Fiorello La Guardia, geograficamente più vasto, ma finanziariamente più limitato.
Il Piano Marshall — di cui festeggiamo il settantennio — fu un misto di calcolo politico e di generosità. Ispirato da George Kennan, che reggeva l’ambasciata americana a Mosca, e temeva che l’Europa cadesse nell’orbita sovietica (una preoccupazione che nel 1949 spinse anche a istituire la North Atlantic Treaty Organization — Nato), fu annunciato il 5 giugno 1947 da Marshall in un discorso di 11 minuti, tenuto durante una cerimonia alla Harvard University. Marshall spiegava in quel discorso, rivolto ai suoi concittadini, che in Europa c’erano povertà, fame, disperazione, caos; che vi era bisogno di una cura per tutto questo, non di un palliativo; che lo scopo era di restaurare un futuro economico per l’Europa, senza farsi prendere da passioni o pregiudizi.
Il Piano ebbe dimensioni finanziarie gigantesche, circa 13 miliardi di dollari dell’epoca, corrispondenti a 150 miliardi attuali di dollari (più del 10 per cento del budget federale). Durò quattro anni. Fu guidato da un’apposita amministrazione, l’Economic Cooperation Administration. Fu offerto anche ai Paesi dell’Europa dell’Est e all’Unione Sovietica, che rifiutarono. Ne beneficiarono, quindi, sedici Paesi dell’Europa occidentale (non la Spagna, allora sotto il dittatore Francisco Franco). Fornì all’Europa cibo, carbone, acciaio, petrolio, fertilizzanti, macchinari, risorse finanziarie in forma di sovvenzioni e di prestiti.
Ciò che oggi stupisce del Piano Marshall non è tanto la dimensione finanziaria, quanto quella organizzativa e amministrativa. Richiese l’invenzione di nuovi modelli di cooperazione internazionale e uno sforzo gestionale enorme, che coinvolgeva sedici Paesi, alcuni dei quali erano stati fino a poco tempo prima in guerra tra loro. Dovette superare forti contraddizioni: basti dire che, dopo la guerra, alla Germania, allora divisa in due, era stata imposta la smobilitazione industriale. Fu possibile perché Marshall aveva ben riconosciute doti non solo militari, ma anche amministrative e diplomatiche: non era stato solo 45 anni nell’esercito, capo di Stato maggiore dal 1939 al 1945, ma aveva trattato anche con la Cina e con le Filippine, era consapevole dei disastri che un mondo diviso avrebbe provocato.
Il Piano Marshall è stato all’origine dellari presa economica dell’Europa, duramente colpita dal secondo conflitto mondiale e all’inizio del miracolo economico italiano, nonché dei progetti di cooperazione europea. Nel Rapporto della Brookings Institution di Washington per la commissione Affari esteri del Senato americano, del 22 gennaio 1948, che presentò le linee guida del Piano, si legge, infatti, che uno dei risultati attesi del Piano era che «l’Europa si dia una organizzazione permanente sulla base di un accordo multilaterale».
L’Organizzazione per la cooperazione economica europea (Oece) fu infatti istituita il 16 aprile 1948 per controllare la distribuzione degli aiuti del Piano Marshall e favorire la cooperazione e la collaborazione fra i Paesi membri. Fu la prima organizzazione sovranazionale a svilupparsi in Europa nel dopoguerra. Nel 1961 l’ Oecef uri organizzata e trasformatane ll’ Organizzazione perla cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). Nel frattempo (1951), era nata la prima delle comunità europee, la Comunità del carbone e dell’acciaio (Ceca).
Oggi, Piano Marshall è divenuto una metafora per indicare ogni intervento su larga scala per risolvere un problema sociale che riguardi più nazioni, tanto che
sono state affacciate proposte di un «Piano Marshall per l’Europa orientale», di uno per l’Africa e persino di un «Piano Marshall globale».
Sul Piano Marshall la Brookings Institution di Washington, il più antico think
tank americano (1916), che collaborò a suo tempo all’ideazione del Piano, ha ora pubblicato un piccolo volume a cura di Bruce Jones The Marshall Plan and the
Shaping of American Strategy («Il Piano Marshall e la definizione della strategia americana»), in cui sono raccolti tre fondamentali documenti: il discorso di George Marshall del 5 giugno 1947 ad Harvard, il rapporto Brookings alla commissione senatoriale degli Affari esteri del 22 gennaio 1948, e il discorso di Marshall a Oslo, il 10 dicembre 1953, alla cerimonia in cui gli venne consegnato il premio Nobel per la pace. Tre documenti preceduti e seguiti da una prefazione e da una postfazione di inquadramento storico dei documenti e di esame della lezione che oggi può trarsi dall’esperienza del Piano Marshall.
Gli insegnamenti di questa grande impresa sono tre. Il primo riguarda la sua concezione. Essa fu possibile per il confluire di tre diversissimi elementi. L’esigenza degli Stati Uniti di far fronte comune con l’Europa nel contenere l’espansionismo sovietico. L’ispirazione umanitaria di quegli americani che avevano visto con i propri occhi le condizioni disastrate dell’Europa. L’idealismo e la capacità di analisi di gruppi di intellettuali e collaboratori di uomini politici: tra questi, in primo luogo, Leo Pasvolsky, che era stato uno dei redattori della Carta delle Nazioni Unite, aveva lavorato alla Brookings. Ma con lui persone come Isaiah Berlin, Jean Monnet, Charles P. Kindleberger, che, in vario modo e con diverse responsabilità, lavorarono per il grande progetto.
Il secondo insegnamento riguarda la lezione di metodo. La lettura del Rapporto Brookings per la Commissione senatoriale è un’autentica lezione di scienza amministrativa e di tecnica di governo per la straordinaria lucidità con la quale furono esaminati i problemi che si ponevano e passate in rassegna le soluzioni possibili.
Il terzo insegnamento riguarda le alternative aperte all’America di quegli anni:
America on its own, cioè isolazionismo (ma, nello stesso tempo, assunzione di responsabilità internazionali americane); Union of Democracies, cioè modello Nazioni Unite; oppure global network of regional arrangements, cioè un ordine multipolare. Sono alternative ancora oggi aperte. E qui si può apprezzare il fine scopo politico del libro, che si chiude con i riferimenti alla Trans-Pacific Partnership (Tpp) e con evidenti cenni critici alle scelte dell’attuale presidente americano.
Il 10 dicembre 1953, ricevendo a Oslo il Premio Nobel per la Pace, George Marshall, il primo soldato a ricevere tale riconoscimento, cominciò il suo discorso ricordando la pax romana, durata due secoli, e affermando che l’umanità aveva camminato a occhi chiusi, ignorando la lezione del passato. Ricordò i morti del secondo conflitto mondiale. Auspicò tre great essentials to peace, grandi fattori essenziali di pace. In primo luogo, una migliore educazione. Poi, l’apertura delle nazioni alla cooperazione. Infine, reggimenti democratici, ma aggiungendo che «i principi della democrazia non fioriscono in stomaci vuoti».
Il presidente Truman, allo scoppio della guerra di Corea, nel 1950, nominò George Marshall ministro della Difesa e, una volta lasciata la carica presidenziale, richiesto, in una intervista televisiva, di chi fosse la persona che più stimava, rispose che questo era Marshall, perché non vi era stato, nel corso della sua vita, un amministratore più grande di lui, né un uomo che conoscesse meglio di lui i problemi militari.

Vie di Roma

Giuseppe Scaraffia per Il Messaggero

Quando sono approdato da Milano in via della Vite, il piccolo, ascetico appartamento in cui abitavo, e che tuttora è il mio studio, conservava una memoria letteraria. Era stato la “casa corridoio” di Antonio Delfini, scrittore a lungo misconosciuto.

I pochi rinnovamenti che avevo fatto, ridipingendola di un semplice bianco e inserendo pochi mobili, semplici citazioni, non hanno mai eliminato la traccia di quella vita di intellettuale cui si accedeva da scale anguste dagli antichi, scomodi gradini. In quella sonnolenta via pur così vicina a piazza di Spagna ho fatto in tempo a vedere, prima che scomparisse, una bottega non ricordo bene se di carbone o di legna da ardere. E a frequentare la mitica libreria Sforzini, non ancora spodestata dagli effimeri consumi dei turisti.

TRIDENTE DI ROMA CENTRO STORICOTRIDENTE DI ROMA CENTRO STORICO
Una volta era entrato un personaggio dall’aria furtiva, il berretto calato, per non farsi riconoscere, sugli occhi azzurri. Aveva chiesto come andava il nuovo romanzo dell’autore tal dei tali. Si trattava ovviamente di lui, all’epoca giovane ma già abbastanza noto. «Va via come il pane», aveva risposto prontamente il libraio con uno smagliante sorriso. Per poi sussurrarmi, non appena era scivolato via senza degnare di uno sguardo gli altri libri: «Non se ne vende una copia».

Panni stesi sulle ringhiere dell area archeologica di Largo ArgentinaPANNI STESI SULLE RINGHIERE DELL AREA ARCHEOLOGICA DI LARGO ARGENTINA 
Come via della Vite, nonostante la sua strategica collocazione, non si mai riuscita a diventare una strada elegante, è un vero mistero. La curiosa rapidità del ricambio dei negozi fa evocare ai dietrologi il fantasma del riciclaggio. Io preferisco pensare che le vie, come le persone, abbiano un loro carattere. Via della Vite è sempre stata una strada timida, complessata dalle compagne più ricche, segnata dalla prosaica vicinanza all’Ufficio Postale Centrale di piazza San Silvestro che dava un che di utilitario alla sua esistenza, in contrasto con la sgargiante gratuità delle strade attigue. Forse anche per questo ho scelto di abitarvi, in definitiva mi somiglia.

In quegli anni, appena arrivato dall’ordinata Milano, i vicoli del centro mi procuravano uno smarrimento continuo. Non riuscivo a orientarmi. Forse proprio la loro bellezza produceva il mio stato confusionale. Ma la macchina umana si adatta a tutto. Adesso il dedalo del centro storico è l’unica parte di Roma che possa dire di conoscere davvero bene, mentre mi perdo regolarmente negli altri quartieri.
GATTI DI LARGO ARGENTINAGATTI DI LARGO ARGENTINA

Ogni giorno percorro la distanza che separa via della Vite, dove si trova parte della mia biblioteca, dal Ghetto, dov’è la casa in cui vivo con la mia compagna. Un altro universo, ancora più tradizionale, ora purtroppo messo alla prova alla brutale, antiestetica Ragion Turistica. Superata la Posta, entrato nella Galleria Alberto Sordi, mi imbatto spesso, in piazza del Parlamento, in gruppi di manifestanti che protestano sotto il sempre più distratto sguardo dei passanti e della polizia.
degrado romaDEGRADO ROMA

Proseguendo verso il miraggio della cupola del Pantheon, dopo avere vissuto brevi ma intense passioni per qualche attraente sconosciuta che per un istante mi è parsa incarnare ogni bellezza, resisto alla tentazione di un gelato meringato o più saggiamente sorseggio un profumato caffè, contemplando il meraviglioso campanile romanico dell’antichissima basilica minore di Sant’Eustachio.

roma oggiROMA OGGI
Costeggiato l’elefantino di Piazza della Minerva, ripenso al soggiorno romano di Stendhal in uno degli alberghi lì accanto, e a quando scrisse che è pur vero che «ci si annoia talvolta a Roma il secondo mese di soggiorno, ma giammai il sesto, e, se si resta sino al dodicesimo, si è afferrati dall’idea di stabilirvisi». Districandomi dagli esotici venditori ambulanti di inesplicabili oggetti volanti, ammiro nei negozi per ecclesiastici magnifiche calze da uomo in tutte le sfumature del vermiglio, dell’amaranto, del porpora, del viola; quindi lancio uno sguardo alla casa della mia ex moglie, che talvolta incrocio in bici da quelle parti, e la cui vista mi rammenta ciò che sono stato.

roma a fine 800ROMA A FINE 800
Attraverso Largo Argentina, dove fu accoltellato Cesare; un luogo dove ancora oggi si può anche rischiare la vita. Quanto alla celebre colonia felina, si può dire sia ormai quasi sparita, dopo che una vecchia americana ha lasciato ai gatti una grossa eredità. Che siano migrati ai Caraibi? Proseguo in direzione di piazza Mattei, dove contemplo diligentemente le tartarughe dell’ormai arcinota fontana: si dice sia stata costruita dal duca omonimo, che voleva impressionare il futuro suocero.

Le ammiro, ma sono impaziente di frugare nel bancone di libri e vecchie riviste fuori dal negozio di via della Reginella, dove si trova la migliore libreria antiquaria d’Italia che, oltre a libri e riviste, vende disegni d’artista e foto da collezione. Lì ho comprato una grande foto dell’ultimo Ezra Pound, bianco e barbuto, ormai ostaggio del silenzio in cui si era rifugiato.

foro romano di fine 800FORO ROMANO DI FINE 800
Vorrei potermi rifugiare anch’io nel silenzio della casa umbertina di fronte alla Sinagoga, nello stesso edificio in cui visse Elio Toaff, vanificato da lavori di rifacimento faraonici, che né l’egizio Mosè né il casto Giuseppe mai approverebbero. E sogno, ovviamente ad occhi aperti, o invero sbarrati, la Roma immota dei tempi di Stendhal.

Sartori e l'Islam

Vittorio Sgarbi per Quotidiano.net

SARTORI FINZISARTORI FINZI 
Non ho ricordato Giovanni Sartori in occasione della sua scomparsa il 4 aprile di quest’anno ma avevo coltivato con lui una lunga amicizia fatta di umane intese e di idee condivise con assoluta laicità, o, meglio di scetticismo sul destino dell’uomo. Ritrovo ora una sua intervista di Luigi Mascheroni che, dopo gli ultimi episodi di Barcellona, è di sorprendente attualità: «Quando si arriva all’uomo ‘bomba’, significa che lo scontro è arrivato alla fine». Continua Sartori: «Illudersi che si possa integrare pacificamente un’ampia comunità musulmana fedele a un monoteismo teocratico che non accetta di distinguere il potere politico da quello religioso con la società occidentale democratica, è l’equivoco da cui si è scatenata la guerra».
GIOVANNI SARTORI - LA CORSA VERSO IL NULLAGIOVANNI SARTORI - LA CORSA VERSO IL NULLA

I NOVANTANNI DI GIOVANNI SARTORII NOVANTANNI DI GIOVANNI SARTORI 
 «Perché l’Islam che negli ultimi venti-trent’anni si è risvegliato in forma acuta è un Islam incapace di evolversi. È un monoteismo teocratico fermo al nostro Medioevo». Non si può immaginare un dialogo come evocano il Papa, la Boldrini, e tanti intellettuali. Sartori è lucidissimo e potenzia il pensiero della Fallaci: «Le società libere, come l’Occidente, sono fondate sulla democrazia, cioè sulla sovranità popolare. L’Islam invece si fonda sulla sovranità di Allah. E se i musulmani pretendono di applicare tale principio nei Paesi occidentali il conflitto è inevitabile».

L’integrazione è una illusione: «Se l’immigrato arriva da noi e continua ad accettare tale principio e a rifiutare i nostri valori etico-politici significa che non potrà mai integrarsi. Infatti in Inghilterra e Francia ci ritroviamo una terza generazione di giovani islamici più fanatici e incattiviti che mai».

TERRORE A LONDRA NEL NOME DI ALLAHTERRORE A LONDRA NEL NOME DI ALLAH
Ed è inutile e ridicolo evocare il muliculturalismo: «Il multiculturalismo non esiste. I musulmani nel privato possono e devono continuare a professare la propria religione, ma politicamente devono accettare la nostra regola della sovranità popolare, altrimenti devono andarsene».

Cosa serve? «Regole. L’immigrazione verso l’Europa ha numeri insostenibili. Chi entra, chiunque sia, deve avere un visto, documenti regolari, un’identità certa. I clandestini, come persone che vivono in un Paese illegalmente, devono essere espulsi. E chi rimane non può avere diritto di voto. Ho vissuto trent’anni negli Usa. Avevo tutti i diritti, non quello di voto’’.
il killer inneggia ad allahIL KILLER INNEGGIA AD ALLAH

E su migranti e barconi Sartori anticipa Minniti: «Nello stadio di guerra non si rispettano le acque territoriali. Si mandano gli aerei verso le coste libiche e si affondano i barconi prima che partano. Ovviamente senza la gente sopra. È l’unico deterrente all’assalto all’Europa. Due-tre affondamenti e rinunceranno. Così se vogliono entrare in Europa saranno costretti a cercare altre vie ordinarie, più controllabili».

Hitler malato

Ellie Zolfagharifard per http://www.dailymail.co.uk/

malattiaMALATTIA
Il morbo di Parkinson avrebbe giocato un ruolo fondamentale per la sconfitta di Adolf Hitler nella seconda guerra mondiale. Un nuovo studio condotto da un team di neurologi dell’università di Pittsburgh, Stati Uniti, sostiene che la malattia neurologica avrebbe condizionato pesantemente il temperamento del führer, influenzando anche le decisioni riguardo al destino degli ebrei e alla “soluzione finale”.

hitlerHITLER
“Per anni si è discusso sulla possibilità che Hitler avesse il Parkinson – spiega il neurologo Raghav Gupta, autore dello studio - I filmati storici mostrano il progressivo deterioramento delle sue capacità motorie tra il 1933 e il 1945, chiaro indizio del degenerare della malattia”.

Oltre all’evidente tremore delle mani, il Parkinson provoca anche lentezza nei movimenti, schiena ricurva e sguardo assente, insieme a disordini cognitivi come mancanza di immaginazione e apatia generale. Tutti sintomi che si sospetta Adolf Hitler avesse prima di morire.

I ricercatori pensano che questa condizione psico-fisica, avrebbe portato il fuhrer ad attaccare prematuramente la Russia nel 1941. Uno studio precedente, invece, aveva già insistito sul fatto che invadere la Russia prima di aver sconfitto la Gran Bretagna sul fronte occidentale fu un chiaro segno della sua alterazione dovuta alla malattia.
discorsoDISCORSO

Lo studio contesta anche altre decisioni sbagliate, come l’incapacità di difendere la Normandia nel 1944 e quella di prolungare l’assedio a Stalingrado nel 1942. Inoltre, il suo temperamento crudele e spietato potrebbe benissimo essere associato al Parkinson. Il problema dello studio di Raghay Gupta, è che Hitler dimostrò di avere un temperamento distruttivo ben prima del 1933, quando si pensa abbia contratto il morbo.

Il dottor John Murphy, dell’ospedale di Danbury, aveva precedentemente teorizzato che Hitler avesse iniziato a manifestare i sintomi del Parkinson dopo aver contratto l’encefalite di Von Economo nel 1918, anno in cui esplose un’epidemia che uccise 50 milioni di persone.

MORIRE

  www.leggo.it  del 5 aprile 2024   JULIE MCFADDEN- 1 Julie McFadden è un'infermiera molto famosa sui social perché condivide le sue esp...