mercoledì 21 giugno 2017

Letture dei politici

Filippo Ceccarelli per la Repubblica

Nei momenti di serenità famigliare Palmiro Togliatti e Nilde Jotti si leggevano l' un l' altra le amatissime ottave dell'"Orlando furioso". Le basi letterarie del Migliore arrivavano a comprendere nei dettagli i rimatori del Dolce Stil Novo, e restò famosa una sua tignosissima polemica con Vittorio Gorresio a proposito di un verso di un sonetto di Cavalcanti. Giuseppe Saragat, che aveva vissuto parte del suo esilio a Vienna, conosceva molto bene Goethe di cui citava a memoria interi brani del "Faust", in tedesco, talvolta per scagliarli addosso agli ignari avversari interni - per cui a Tanassi capitò di ritrovarsi degradato d' autorità nella categoria alchemico- fantastica dell'"homunculus".

Amintore Fanfani, d' altra parte, a un certo punto anche piuttosto intenso della sua vita trovò il tempo e la passione per indagare sulla corrispondenza tra i mistici spagnoli, in particolare Santa Teresa di Avila, e la pittura di El Greco. Dunque gli antichi politici leggevano, altroché.

Fin troppo facile imbastire crudeli paragoni con l' attualità, la classica sparatoria sulla croce rossa. Di sicuro per lunghi anni un qualche tratto umanistico fu ritenuto fondamentale nel corso dei pubblici onori, così come la lettura solitaria, raccolta e concentrata, rientrava a pieno titolo nell' attività di tanti protagonisti e comprimari della storia repubblicana.

Moro e De Martino furono grandi accademici e studiosi di vaglia, come poi Andreatta, Amato e Prodi, ma ritenevano un dovere tenersi aggiornati sulla letteratura e la saggistica prodotte nel loro tempo. Lo stesso si poté dire di Einaudi, Gonella, Taviani, Amendola, Ingrao, Pajetta, Colombo, La Malfa, Foa, Ciampi e Napolitano. Sulla scia di Concetto Marchesi, diversi comunisti, per esempio Natta e Bufalini, ma anche il segretario del gruppo alla Camera Pochetti, condividevano una certa frenesia per latino; come certamente ricorda il democristiano Gerardo Bianco, già collaboratore dell' Enciclopedia virgiliana.

Cossiga fu un divoratore onnivoro di testi, fra storia anche militare, e teologia; Almirante era in grado di recitare lunghi canti della Divina Commedia, Rauti s' intendeva di mille cose, fra cui la guerra di Secessione americana; Spadolini ha lasciato nella sua villa fiorentina di Pian de' Giullari una splendida biblioteca di studi risorgimentali. E se Andreotti non affrontava viaggio senza portare con sé almeno un giallo, e Craxi si dedicava principalmente al suo Garibaldi, annessi e connessi, dopo tutto la nouvelle vague del garofano, da Martelli a Signorile, fu l' ultima o la penultima generazione a riconoscere nei libri degli strumenti utili e dilettevoli, ma ancor più indispensabili, se non obbligatori.

Dopo di che, più o meno all' inizio degli anni Ottanta, qualcosa deve essersi rotto, o interrotto, e il deserto dell' oggi, pur con le dovute eccezioni, parla purtroppo da sé, fra gorgoglii, balbettii, smargiasse apparenze culturali e sostanziale, perfino rivendicata inettitudine a ogni forma di carta stampata. Forse c' entra il tramonto delle culture politiche, la fine delle grandi narrazioni collettive; forse è il frutto della grande accelerazione tecnologica, dell' immediatezza televisiva che cala tutto nell' eterno presente; forse è il prevalere delle merci e dei consumi sullo spirito, sempre per tenerla alta.

Forse non dipendeva solo da Bettino che un giorno, per richiamare il primato della politica sulla cultura, si lasciò prendere dal malumore e intimò: «Questi intellettuali mi hanno scocciato, cambiamoli»; e magari non è neppure colpa del Cavalier Berlusconi che qualche anno dopo spiritosamente perfezionò tale supremazia: «La prossima volta me li prendo analfabeti ». Forse tutto questo doveva accadere, era inevitabile - e riconoscerlo con un supplemento di rassegnazione resta uno dei vari modi per non sentirsi rinchiusi in via definitiva nel recinto dei babbioni della conoscenza elitaria o dei moralisti della più schizzinosa nostalgia.

Fatto sta che il libro, in politica e ancor più tra i politici, si è pacificamente e desolatamente trasfigurato. Per cui, lungi dall' essere letto o persino sfogliato, comunque "serve" ad altro: attira l' attenzione, fa titolo, genera articoli e rubriche, nutre interviste, assegna rango campeggiando alle spalle dei potenti, garantisce presentazioni, anima trasmissioni e furbastre ostentazioni. «Il libro è al principio di tutto»: la formula, scrive Régis Debray ne Lo Stato seduttore, non verrà mai pronunciata con maggiore compunzione che in un talk-show. Il web e i social, occorre dire, hanno peggiorato l' andazzo.

Il guaio vero non è dunque o non è solo che i politici non leggono. Il guaio serio e anche un po' beffardo è che presidenti, ministri, leader, governatori e sindaci, lettori riluttanti o incapacita- ti, hanno preso a scrivere libri a iosa, incessantemente, e quasi sempre senza nemmeno il buon cuore di ringraziare i "negri" o i "fantasmi" che materialmente gli impilano e compilano i testi.

Brutti testi, oltretutto, e utili solo a loro. Da qualche anno, purtroppo, la faccenda vale a destra come a sinistra. Così, durante la monarchia patrimoniale berlusconiana, solo la Mondadori, la più grande casa editrice di proprietà del Cavaliere, è giunta a pubblicare le favole scritte dalla ministra Gelmini per la figlia, e poi Il sole in tasca dell' ineffabile Bondi, e quindi le esperienze mistiche e sanitarie del dottor Scapagnini, e ancora una raccolta di scritti di Lupi dal titolo La prima politica è vivere, e La mafia uccide d' estate del mancato delfino Alfano, e l' imperdibile proclama Ai liberi e forti di Sacconi, e pure il Manifesto animalista di Brambilla e infine - sempre che non sia sfuggita qualche altra prelibatezza editoriale - una interminabile intervista, niente meno che sul buongoverno, al sindaco uscente di Roma Gianni Alemanno, per giunta in campagna elettorale.

E tuttavia sotto il governo renziano di centrosinistra il libro, questa creatura un tempo e ancora meravigliosa, ha seguitato ad evolversi e nel contempo a degenerarsi quale risorsa tattica, pretesto, scorciatoia, specchietto per allocchi.

Vedi il rito, illustrato da opportuni tweet, dello shopping presidenziale in libreria; vedi il giovane presidente rottamatore che nel discorso di presentazione del suo governo a Montecitorio si è presentato ostentando sotto braccio e sul banco L' arte di correre di Murakami - e meno di un anno dopo si è scoperto che glielo aveva consigliato la sua ghostwriter, nel frattempo adiratasi, e addirittura sorpresa da tanta insensibilità.

Conformismo

di Marcello Veneziani
"Ogni mattina, pomeriggio e sera, ovunque tu sei e a qualunque fonte d’informazione ti colleghi – video, radio, giornali, web ma anche film, concerti, omelie, lezioni a scuola o all’università, discorsi istituzionali – c’è un Imbecille Globale che ripete sempre lo stesso discorso: 
“Abbattiamo i muri, niente più frontiere tra popoli, fedi, razze, sessi e omosessi, non più chiusure in nazioni, generi, famiglie, tradizioni ma aperti al mondo”.
Te lo dice come se stesse esprimendo un’acuta e insolita opinione personale, originale; finge di ribellarsi al conformismo della chiusura e al potere del fascismo (morto da 72 anni) mentre lui, che coraggioso, che spregiudicato, è aperto, non si conforma, ha la mente aperta, il cuore aperto, le braccia aperte, è cittadino del mondo. Sfida i potenti, lui, che forte.
Sta ripetendo all’infinito, da imbecille prestampato qual è, il Catechismo Precompilato dei Cretini Allineati al Canone del Tempo. Tutti per uno, uno per tutti. L’Imbecille è globale perché lui sa dove va il mondo e si sente cittadino del mondo. L’idiota planetario si moltiplica in mille versioni.
C’è l’Imbecille Cantante che dal palco, ispirato direttamente dal dio degli artisti, dichiara che lui canta contro tutti i muri e tutti i razzismi. Che eroe, sei tutti noi.
Poi vedi l’Imbecille Attore o Regista che dal podio lancia il suo messaggio originale e assai accorato, perfettamente uguale a quello del precedente cantautore, ma lui lo recita come se l’umanità l’ascoltasse per la prima volta dalla sua viva voce. “Io non amo i muri, non mi piace chi vuole alzare muri” Che bravo, che anticonformista.
Segue a ruota l’Imbecille Intellettuale, profeta e opinionista che per distinguersi dal volgo rozzo e ignorante, dichiara anche lui la Medesima Cosa, sui muri ci piscio, morte al razzismo, morte a Hitler (defunto sempre da 72 anni), viva l’accoglienza, i neri, i gay e i trans.
L’Idiota Collettivo, versione ebete dell’Intellettuale Collettivo post-gramsciano, non pensa in proprio ma scarica l’app ideologica che genera risposte in automatico. Poi c’è l’imbecille a mezzo stampa o a mezzobusto che riscrive o recita ispirato l’identica pisciatina contro i Muri.
E poi c’è il Presidente o la Presidente, che in veste d’Imbecille Istituzionale, esprime lo stesso, identico Concetto, col piglio intrepido di chi sfida i Poteri Forti (ai cui piedi è accucciato o funge da zerbino).
Non c’è film, telefilm, concerto, spettacolo teatrale o sportivo, gag e omelia tv in cui non si ribadisca la lotta tra il Bene e il Male: Aperti e Filantropi contro Chiusi & Ottusi, Accoglienti contro Razzisti, Omofili contro Omofobi, Xenofili contro Xenofobi e Negrofobi.
Voi quelli del Muro, noi quelli del Telepass.
Le bestie da scacciare sono quasi sempre vaghe, anonime, mitologiche; e già, il male è sempre oscuro, cospira nel buio, non ha volto, solo maschere storiche o ridicole. Ora va di moda la maschera di Trumputin, in Europa di Le Pen, da noi di Salvini.
Tu senti uno, cambi canale e ne senti un altro idem, spegni la tv e senti alla radio un altro ma il Discorso è sempre quello, apri il giornale e leggi ancora l’Identica Opinione; a scuola idem con patate, all’Università peggio-mi-sento, i Palloni Gonfiati dai media compilano lo stesso Modello Unico.
Nessuno di loro è sfiorato da dubbi, invece a te sorge un primo dubbio: è un’allucinazione o è sempre la stessa persona, l’Imbecille Globale, che cambia veste, fattezze e mansioni e ripete all’infinito l’Identico Discorso?
Segue un secondo dubbio: ricordo male o eravamo in democrazia, che vuol dire libertà e pluralismo, cioè opinioni libere e divergenti a confronto? Loro non credono alla Verità, sono relativisti, però guai a dissentire dal Discorso Obbligato con fervorino finale anti-Muro.
Ma possibile che tutti la pensino allo stesso modo, conformi, allineati e omologati, e ritengano che la cosa più urgente e più importante del momento, il Messaggio Unisono da dare all’Umanità sia sempre quello? Allora ti sorge un terzo dubbio.
E se l’Imbecille Globale a reti unificate fosse il Grande Fratello del nostro tempo? Se fosse lui il Portavoce multiplo del Non-Pensiero Unico, cioè del nuovo regime totalitario-globalitario? E se fosse proprio quell’Uniformità Totale e quel corale accodarsi la miseria prioritaria del nostro tempo?
Non so voi, ma io di quell’Imbecille Planetario che ripete il Discorso Unico e Identico all’Infinito, non ne posso più."
SIAMO A UN CASO DI FOLLIA COLLETTIVA: DIFFICILE IDENTIFICARE CHI E' IL MOTORE PRIMO, IL PIFFERAIO MAGICO CHE TRASCINA IL CODAZZO DEI CREDULONI

Dio ti perdono

Maurizio Caverzan per la Verità

In una foto scattata qualche anno fa da Giuseppe Pino ed esposta nella sua casa a due passi dal Corriere della Sera per il quale ha scritto una vita, Edgarda Ferri somiglia a Audrey Hepburn. Eppure sul Web circola un testo in cui scrive: «A 16 anni volevo essere bionda e provocante come Brigitte Bardot». Niente di più distante.

Oggi Edgarda Ferri è un' elegante signora dai capelli bianchi e lo sguardo brillante come l' intelligenza di certe ragazze interpretate da Audrey Hepburn nei film di Blake Edwards e William Wyler. Per lavoro ha viaggiato, letto e scritto. Attualmente collabora con La Repubblica. È autrice, tra numerose altre pubblicazioni, di biografie di donne importanti, da Giovanna la Pazza a Caterina da Siena, da Matilde di Canossa a Letizia Bonaparte.

L' ultima, appena uscita per La nave di Teseo e intitolata Un gomitolo aggrovigliato è il mio cuore, è dedicata a Etty Hillesum, giovane donna ebrea e figura di culto non solo in ambienti cattolici. Durante la guerra, Etty andò spontaneamente nel campo di transito olandese di Westerbork dove, prima di essere trasferita ad Auschwitz e morirvi men che trentenne, tenne dei folgoranti diari.

Allora, signora Ferri, ho letto su Internet che a 16 anni voleva essere bionda e provocante come Brigitte Bardot.
«È un testo inventatissimo, nel quale è sbagliata persino la data di nascita. Dovrei andare da un avvocato per farlo cancellare, ma sono distratta su ciò che mi riguarda. In realtà, volevo diventare bianca come mia madre e mia nonna. Per noi i capelli bianchi sono un segno distintivo».

Anche lei vittima delle fake news. Come isolare i vantaggi della rivoluzione digitale senza gli effetti collaterali?
«Lo so che ci sono dei vantaggi, ma mi fanno orrore gli svantaggi, come il fatto di mettere in piazza tutto. Mi chiedo: perché certe cose vanno in giro? Non è la macchina che lo fa. È l' uomo che si fotografa davanti a un piatto di pasta, o mentre sgozza un povero innocente. Sono i bulli che postano un compagno di scuola che infila la testa di un altro nella tazza del water».

Perché ha scritto tante biografie, soprattutto di donne?
«Perché le ho sempre lette con passione. Mio padre ne aveva un' intera biblioteca: Otto von Bismark, Klemens von Metternich, Francesco Giuseppe. Io andavo a cercare le donne. All' inizio mi sono dedicata alla saggistica. Ho scritto Il perdono e la memoria, mi ha sempre incuriosito il tema del perdono. Andai a trovare una donna che nella strage di Bologna aveva perso marito, figlia, nuora e nipotini. Era una pollivendola di Como che si era fatta suora di clausura. Le ho parlato attraverso la grata. Un' altra era sopravvissuta all' eccidio di Marzabotto sotto una montagna di morti. Aveva 11 anni. Quando il Comune di Marzabotto indisse un referendum per uno sconto di pena a Walter Reder, votò sì solo lei. Scoprii che era anticlericale, atea e comunista. E che aveva perdonato per stanchezza. Poi mi sono dedicata alle donne che hanno a che fare con il potere».

Etty Hillesum però no. Perché l' ha scelta?
«Mi chiedevo quale storia ci fosse dietro quegli aggrovigliati diari. Volevo conoscere questa ragazza che voleva testimoniare la vita dentro il campo di Westerbork e che, prima di partire "per la Polonia", non sapendo che la meta era Auschwitz, aveva consegnato le sue riflessioni a un' amica. Per documentare non solo le vessazioni dei nazisti, ma anche i soprusi e la corruzione nella comunità ebraica».

Come ci ha lavorato?
«Sono andata ad Amsterdam. Ho fatto le sue strade e contato i suoi passi. Recuperato fotografie, pezzi di diario, lo spartito del fratello con i disegni. Purtroppo non ho potuto entrare nella casa di piazza Rijksmuseum. Dove c' è una targa e vive una coppia che non apre mai perché è stanca di mostrare la casa. Ma grazie a due ragazzi italiani che hanno una pizzeria e abitano nell' edificio ho potuto vedere da sopra il terrazzino, l' albero».

Che cosa le piace di Etty Hillesum?
«La vivacità e l' amore per la vita. Muore giovane, ma la sua è una storia vitale. È andata a Westerbork per condividere il destino del suo popolo. È una ragazza che sta in piedi nonostante tutto quel che le accade: la malattia, la morte di uno degli uomini più amati, la deportazione della famiglia. Tutto ha sempre una rivincita. Quando muore Julien Spier, colui che le apre gli occhi sulla tragedia e che la conduce verso un percorso ignoto, afferma che, entrando nella sua stanza, ha dovuto fare l' espressione di circostanza perché il suo istinto sarebbe stato di dire che "la vita è bella, nonostante tutto"».

Oggi si parlerebbe di resilienza.
«Resilienza e resistenza. Ogni martedì partivano i convogli per Auschwitz e anche lei viveva nella paura. Si chiedeva come aiutare chi era nella lista dei partenti. "Fino a che punto si può resistere a questo dolore", scriveva. "Posso solo sedermi al loro fianco, a volte anche una mano sulla spalla può essere pesante"».

Etty Hillesum mostra che c' è più vita nella nostra interiorità che fuori.
«Prima di partire anche lei decide di liberarsi delle cose che ha. Lo zaino può contenere poco, meglio un libro che un maglione. Straccia le lettere e le fotografie dei suoi cari e scrive: "Li ho già appesi alle pareti del mio cuore"».


Ha un ampio club di cultori, dall' associazione Vidas, che assiste malati terminali, al professor Eugenio Borgna, alla scrittrice Marina Corradi. Che cosa dice Etty Hillesum al nostro tempo?
«Borgna mi ha scritto una lettera struggente per questo libro. Marina è figlia di Egisto Corradi, grande inviato e scrittore, oltre che amico. Ci sono molti gruppi di studio su Etty, cattolici più che ebrei. Anche se non è una figura catalogabile, il suo senso del perdono è profondamente cristiano. Etty perdona non perché è buona, ma perché s' immedesima nell' altro. Di fronte a un giovane soldato che la maltratta si domanda che storia abbia, se ci sia della sofferenza dietro l' apparente rigidezza. Nella religione ebraica il perdono non esiste. Solo Gesù perdona. Per noi uomini non è facile, vorrei raccontarle un fatto».

Prego.
«Lavoravo come inviato al Corriere d' Informazione, stesso palazzo del Corriere della Sera. Un giorno o l' altro scenderai di un piano e verrai al Corriere, mi dicevano i colleghi. Io me l' auguravo. A un certo punto alcuni di noi erano effettivamente scesi di un piano, mentre io ricevetti la lettera di licenziamento. Il giornale chiudeva. Da quel momento, per certi colleghi con i quali avevo condiviso stanze d' albergo e situazioni drammatiche divenni invisibile. Una volta sul tram incontrai Egisto Corradi, lui era già con Indro Montanelli al Giornale, e gli confidai il dolore per l' assenza di solidarietà. Mi rispose: "Da quando ho partecipato alla ritirata di Russia e ho visto abbandonare fratelli morenti nella neve non mi meraviglio più di niente"».

Etty Hillesum si chiede se «dobbiamo odiare tutti i tedeschi?». Viene in mente Abramo che chiede a Dio se sterminerà tutta Sodoma anche se ci vivono solo dieci giusti.
«È una domanda che trovo ancora più attuale in tempi in cui abbiamo a che fare con l' islam. Siamo portati ad avere paura di tutti i musulmani, senza essere capaci di distinguere».

Per molti osservatori il germe della violenza è nel Corano.
«Già. Ma dovremmo conoscerlo meglio, anche per controbattere a chi sostiene che è una religione di pace. Nel campo di Westerbork, Etty riconosceva che esistevano ebrei cattivi. Era addolorata per le liti tra ebrei olandesi ed ebrei tedeschi».

A chi le chiede le ragioni del suo «altruismo radicale» risponde: «Sì, vedi: io credo in Dio». Che Dio è quello di Etty Hillesum?
«Non un Dio di pace e d' amore, ma un Dio crudele, indifferente. Non a caso, in una lettera in cui lo chiama "Signor Dio", scrive che lo perdona. L' amore per la vita di Etty scaturisce dalla bellezza della natura che la apre al trascendente. In questo la sento molto vicina. Quando ho intervistato l' atea Margherita Hack, mi ha confidato che di fronte alla meraviglia del firmamento anche lei era tentata di credere. Questa realtà la chiamo Dio».

Però questo Dio non basta a perdonare.
«Infatti è Etty che dice a Dio: "Ti perdono". Nel campo di concentramento si batte per difendere il pezzetto di eternità che c' è dentro ognuno di noi. E che è l' inizio della salvezza».

Dove ritrova un Dio così?
«Lo cerchiamo. Nel dolore, non nelle sale da ballo. Quando avverto che c' è amore vero, che non è la bontà, allora ci vedo Dio. A volte basta un gesto».

Pensa che le persone del secolo scorso siano più profonde dei millennial?
«Il millennio ha cambiato molte cose: le tecnologie, l' atteggiamento di fronte alla vita, sono aumentate le guerre. Il denaro e l' apparire vengono prima di tutto. Noi del Novecento, che avevamo nonni dell' Ottocento, ci consideriamo parte di una scia lunghissima. Non è che ho paura di confrontarmi con i millennial. Ma abbiamo linguaggi diversi. I sentimenti no, quelli sono uguali, ci sono ragazzi generosi, che hanno ancora dei valori. È il linguaggio che è diverso. Spesso diciamo che la società è peggiorata. Ma dicevano così anche i nostri nonni: è la nostalgia. Vorrei vivere a lungo per vedere come si mette. Spero che arrivi un nuovo San Francesco. Certo, abbiamo già il Papa. Ma nei miei sogni vedo un giovane Francesco che cammina sulle rovine».

Marcia su Roma

Francesco Perfetti per “il Giornale”

Nel tardo pomeriggio del 30 ottobre 1922 verso le 19,30 Mussolini salì le scale del Quirinale per sottoporre a Vittorio Emanuele III il suo primo ministero. Era un governo di coalizione non molto diverso da quelli che lo avevano preceduto. Ne facevano parte tre fascisti, un nazionalista, due popolari, due democratici, un demo sociale, un liberale, un indipendente e due militari.

Anche la prassi adottata per la soluzione della crisi non era stata stravolta da un punto di vista formale. Eppure qualche cosa era cambiato. Il nuovo governo, infatti, era nato sotto la pressione, anche psicologica, dello squadrismo e dell'illegalismo. Inoltre, al suo interno, il peso reale del fascismo, più per la qualità che per il numero dei dicasteri occupati, era preponderante. Il baricentro del sistema politico si spostava verso destra, dando inizio a una pagina nuova della storia d'Italia.

Due giorni prima della formazione del primo governo Mussolini, il 28 ottobre, c'era stata quella «marcia su Roma» che, in seguito, il fascismo avrebbe elevato a mito fondante della cosiddetta «rivoluzione fascista». In realtà, quell'vvenimento fu il punto di arrivo di una crisi iniziata già all'indomani della Prima guerra mondiale e culminata con le agitazioni sociali e le occupazioni di fabbriche e campagne che avevano fatto balenare lo spauracchio di una sovietizzazione.

Erano nati i fasci di combattimento, poi si era sviluppato lo squadrismo, infine c'era stata la trasformazione del fascismo da rurale a urbano e da movimento a partito. Si erano susseguite le crisi di governo e si era registrato un attivismo delle squadre fasciste a Ferrara e a Bologna che, in seguito, avrebbe fatto parlare di «prove generali» della marcia su Roma. Le cose stavano altrimenti anche se Italo Balbo, all'indomani dei fatti di Bologna, annotò nel diario: «si marcia verso l'epigono rivoluzionario del fascismo che non può essere altro che la conquista del potere».

Certo, l'obiettivo di Mussolini era la conquista del potere, ma la sua vera strategia, più che nel progetto insurrezionale, stava nel tessere una «tela di ragno» politico-parlamentare. Poi c'erano state le dimissioni del primo governo Facta e la nascita travagliata, all'inizio di agosto del 1922, del secondo governo guidato dall'anziano statista liberale. Mario Missiroli l'aveva commentata lapidariamente: «contro il fascismo si può fare un ministero, non si può fare un governo».

Il giorno stesso della nascita del nuovo governo aveva avuto inizio uno sciopero generale proclamato dall' Alleanza del Lavoro in chiave antifascista. Ed era stato un fiasco. Lo sciopero si era svolto di malavoglia e le camicie nere dei fascisti, insieme alle camicie azzurre dei nazionalisti, avevano fatto funzionare i servizi pubblici e consentito la ripresa del lavoro in stabilimenti industriali, avevano occupato comuni e cacciato amministrazioni socialiste. Lo «sciopero legalitario», rivelatosi una Caporetto per i socialisti, fu un successo, soprattutto politico, per i fascisti.

Non a caso Benito Mussolini, anni dopo, rievocando quegli avvenimenti avrebbe scritto: «lo sciopero generale doveva essere il tentativo supremo per sbarrare il cammino al fascismo L'agosto del 1922 è un punto culminante nella storia contemporanea d'Italia è con l' agosto del 1922 che comincia il periodo insurrezionale del fascismo che si conclude con la marcia su Roma».

In un certo senso, come ha sottolineato anche parte della storiografia, lo sciopero generale rappresentò una occasione per mobilitare le forze del fascismo, ma presentare questo evento come una specie di prova generale della marcia su Roma è certamente eccessivo.

La verità è che Mussolini alla guida di un partito, divenuto ormai fondamentale per gli equilibri politici, nel quale convivevano un'ala più legalitaria raccolta attorno a Giacomo Acerbo e a Dino Grandi e un'ala insurrezionale capeggiata da Italo Balbo e Roberto Farinacci coltivava il proposito di conquistare il potere per via parlamentare percorrendo la strada accidentata delle trattative con tutti i possibili partner di governo.

Molti mesi furono da lui occupati a tessere una fitta tela di ragno con i politici più in vista della vecchia Italia liberale, da Orlando a Nitti, da Salandra a Giolitti fino a Facta, mentre, sullo sfondo, pesavano come strumento di pressione le iniziative del fascismo estremistico.

Nella sua biografia mussoliniana Renzo De Felice ha ricostruito con grande finezza questo aspetto «diplomatico» della conquista del potere facendo vedere come la vera e propria «marcia su Roma» abbia finito per svolgersi su un tessuto la cui trama era stata pazientemente composta con grande abilità da Mussolini.

Quando si giunse al 24 ottobre 1922, alla grande adunata fascista al San Carlo di Napoli, tutto l' ordito era stato tessuto sul piano diplomatico. Il giorno precedente, anzi, Mussolini, di passaggio a Roma, si era incontrato con Salandra cui aveva esposto la richiesta di cinque ministeri per un eventuale ingresso dei fascisti al governo. 

Per il capo del fascismo l' approccio con Salandra era importante sia perché questi avrebbe potuto determinare una crisi immediata di governo attraverso le dimissioni del suo uomo di fiducia nella compagine ministeriale sia perché egli avrebbe, comunque, rappresentato un ostacolo per una eventuale e paventata ricandidatura di Giolitti.

Ciò conferma che la conquista del potere da parte di Mussolini venne programmata minuziosamente sul piano politico e che la «marcia su Roma», il suo lato militare, ne fu, in realtà, un aspetto accessorio se pur importante, forse anche fondamentale, sul terreno psicologico ed emotivo. In occasione dell'apertura dell' adunata napoletana, cui presenziarono fra gli altri il prefetto e Benedetto Croce, a Mussolini venne consegnata una lettera che Vilfredo Pareto aveva mandato a Giovanni Preziosi.

Il grande sociologo ed economista, il solitario di Cèligny, ricordava come i socialisti a suo tempo si fossero lasciati sfuggire l'occasione, mai più ripresentatasi, di prendere il potere e concludeva: «Dite a Mussolini: o ora o mai più». L'esortazione era superflua. Il giorno successivo, Michele Bianchi, rivolto ai congressisti, pronunciò una frase rimasta celebre: «Insomma, fascisti, a Napoli piove. Che ci state a fare?».

Era l'annuncio della mobilitazione. Mentre il convegno napoletano proseguiva Mussolini si spostò a Milano prendendo contatti con esponenti del mondo industriale, mentre iniziava un carosello di frenetici colloqui tra esponenti politici della vecchia classe dirigente liberale, fascisti, nazionalisti: Giolitti, Orlando, De Vecchi, Salandra, Federzoni, Facta.

La situazione precipitò tra il 27 e il 28 ottobre: la «marcia su Roma» divenne una realtà con le colonne di squadristi dirette verso la capitale, la proclamazione dello stato d'assedio revocato subito da Vittorio Emanuele III, le dimissioni del governo Facta, l'incarico a Salandra e la sua successiva rinuncia e, infine, la mattina del 29 ottobre, il telegramma del Re a Mussolini con l'invito a formare il nuovo governo.

Vittorio Emanuele III non aveva voluto far intervenire l'esercito per fermare le colonne dei fascisti dirette verso la capitale. Era stata una scelta difficile ma ponderata. Il Re aveva voluto evitare il rischio, se non di una guerra civile, dello spargimento di sangue fraterno, tanto più che era consapevole delle simpatie di larghi settori delle forze armate nei confronti del fascismo.

Del resto, i generali che egli aveva interpellato, da Diaz a Pecori Giraldi fino al grande ammiraglio Thaon de Revel, si erano tutti espressi, più o meno, allo stesso modo: «Maestà, l'esercito farà il suo dovere, però sarebbe bene non metterlo alla prova». E, poi, c'era stata una svolta rassicurante per il futuro delle istituzioni.

Grazie alla intermediazione di uno dei capi del movimento nazionalista, Luigi Federzoni, i fascisti avevano assicurato che non sarebbe stato toccato il quadro istituzionale esistente. A quel punto le «camicie azzurre», che si erano mobilitate contro i fascisti in difesa «della Patria e del Re», avevano cambiato fronte e si erano schierati a fianco delle «camicie nere» e, insieme, avevano sfilato davanti al Quirinale.

Mussolini era così giunto al potere con una «rivoluzione» che, in realtà, era stata poco più di una grande manifestazione di piazza e che era stata, poi, riassorbita nei canali della consueta prassi istituzionale. Non a caso, il futuro Duce aveva potuto costituire un governo di coalizione, che, in qualche misura, si riallacciava alla tradizione parlamentare dell'Italia liberale.

Solo più tardi, dopo il delitto Matteotti, ci sarebbe stata la svolta che avrebbe portato all'instaurazione di un regime autoritario. Poco alla volta la «marcia su Roma» acquistò un valore simbolico, fu elevata a mito fondante di una vera e propria «rivoluzione», politica e culturale, volta a creare, pur senza rendersi conto della dimensione utopistica del proposito, un «mondo nuovo» e un «uomo nuovo».

Murat e il Cilento

Marco Nese-Corriere della Sera-Cultura
Il Cilento, uno degli angoli più belli del nostro Paese, incantava Gioacchino Murat. Nel 1814 il re di Napoli fece un viaggio attraverso i borghi cilentani e immaginava di trasformare quel territorio aspro di valli e burroni. A Palinuro osservò il promontorio che aveva sempre rappresentato un grosso pericolo per le imbarcazioni, a cominciare dal nocchiere di Enea, quel Palinuro che proprio lì annegò e dal quale ha preso nome il villaggio. 
Murat progettò di tagliare l’istmo delle saline e aprire un canale di circa 1500 metri per rendere la navigazione più sicura. Lo apprendiamo dal libro Viaggio nel Cilento, scritto nel 1882 dallo studioso pugliese Cosimo De Giorgi, che ora viene ripubblicato dall’editore Galzerano.
De Giorgi rivela anche un altro piano immaginato da Murat, il quale lo  avrebbe realizzato se, pochi mesi dopo, non fosse andato incontro a una tragica fine. Sulle alture dove sorge adesso Mercato Cilento, ogni sabato confluivano mercanti e contadini a vendere bestiame e prodotti agricoli. Murat pensava di abbattere tutte le costruzioni dei dintorni e trasformare il posto in una specie di grande centro commerciale, in grado di attirare operatori economici da ogni parte d’Italia.
Il suo sogno, diceva, era “spronare gli italiani del Nord e del Centro a visitare queste contrade, a promuovervi e magari a crearvi le industrie, ed a frenare l’emigrazione dei contadini”.
I cilentani affollavano navi dirette verso il Nord America.  Per tutto l’Ottocento fu una fuga continua. De Giorgi ne spiega le ragioni. I proprietari terrieri, i signori, vivevano lontano, in città, e affidavano il controllo dei latifondi ai fattori che vessavano i contadini, costretti a pagare l’affitto, le imposte municipali e a svolgere lavori massacranti che ad essi fruttavano solo le briciole. 
De Giorgi percorse montagne e valli del Cilento su incarico del Reale Corpo delle Miniere, allo scopo di tracciare una carta geologica di un’area che comprendeva buona parte della provincia di Salerno. Descrisse viottoli sconnessi, fiumi rovinosi, spaventosi precipizi. Ma la sua sensibilità di medico lo indusse a soffermarsi anche sull’umanità dolente che gli si presentava davanti. Nelle stradine acciottolate incontrava bambini scalzi, cenciosi, e molte donne sfiancate dalla fatica, costrette a far girare macine e caricarsi sul capo enormi pesi: “M’imbattei in una carovana di donne-vetture che trasportavano sulla testa delle grosse pietre di arenaria da costruzione dal vicino monte al paese. Oh, che scena straziante!”. 
La gran parte dei villaggi, sorti su burroni e aspre montagne erano difficili da raggiungere a causa dell’incuria di una borghesia pigra che mai si era preoccupata di realizzare una viabilità decente. 
Al tempo in cui De Giorgi scriveva erano passati vent’anni dall’Unità d’Italia.  All’inizio i contadini avevano sperato che l’arrivo del nuovo governo corrispondesse a un miglioramento delle loro condizioni, ma poi era subentrata la delusione. L’Unità d’Italia, invece di portare benefici, si era manifestata con il volto arcigno dell’esercito piemontese. Mentre già andava prendendo piede un’amministrazione inefficiente e rapace. 
Oggi le malattie sociali sono cambiate, ma il Cilento è ancora una terra splendida dalla quale si continua a fuggire.


Ida Magli

Alessandro Gnocchi per il Giornale

Può una seria scienziata, amante della musica, esperta di letteratura, essere una sovversiva? Senz' altro. Infatti Ida Magli ha sovvertito, per alcuni decenni, i luoghi comuni della cultura e della politica italiana.


Lo ha fatto da posizioni originalissime. Quelle di una antropologa che studiava la nostra società con gli strumenti della sua disciplina prediletta. Il mondo intellettuale, invece di fare tesoro delle sue idee, magari per confutarle, ha reagito come reagisce sempre di fronte a ciò che capisce fin troppo bene ma non vuole accettare: un progressivo ostracismo terminato nel silenzio e infine, dopo la morte della Magli, nel dileggio. Se non ci credete, andate a rileggere i vergognosi «coccodrilli» apparsi sulla stampa nazionale.

Nel 1996, la Magli decise di esporre le sue idee in un libro-intervista, formula adatta alla divulgazione. L' intervistatore, meglio dire coautore, era d' eccezione: Giordano Bruno Guerri. Il risultato fu Per una rivoluzione italiana, edito da Baldini&Castoldi. Il libro, fin dalle prime pagine, era un pugno nello stomaco che metteva al tappeto tutte le false certezze imposte dal conformismo. Proprio per questo è rimasto fuori catalogo per anni. Fino a domani, quando tornerà nelle librerie ristampato da Bompiani con una nuova introduzione di Guerri.

Primo round: politica. La democrazia è «allucinazione» e «inganno». Un tabù, cioè una parola magica. I politici non ci rappresentano. Lo Stato pensa solo ad estendere la propria influenza. Il cittadino non possiede alcun potere, tanto meno quello di scaricare chi lo opprime. Posizione non popolarissima in Italia. La soluzione ha un sapore liberale: «Ridurre il più possibile gli spazi del Potere». Evitare che si accumuli ed «eliminarne gli eccessi, come si fa per il colesterolo». Nessuna società può sopravvivere senza rispettare alcune regole e senza essere amministrata.

Questo tipo di potere residuale e ineliminabile «va chiamato col suo nome: Potere, e va assegnato esplicitamente - come incarico retribuito, responsabile, in base a competenze specifiche - nei limiti di una gestione amministrativa a tempo determinato». Nulla a che vedere con la truffa dei governi tecnici. Siamo più vicini a un consiglio d' amministrazione giudicato (e licenziato) in base ai risultati ottenuti. E le elezioni? La sacralità del voto?

«È indubbio che la scena del pezzo di carta colorato, della matita, della croce da tracciare su un simbolo, degli scatoloni con la fessura dove inserire la scheda, della conta manuale di questi segni, rappresenta come meglio non si potrebbe l' annientamento dell' uomo occidentale nei confronti del Potere. Sarà difficile, per lo storico o l' antropologo di domani, capire che non si trova davanti al reperto di una cerimonia tribale dell' Africa Nera».

Secondo round: integrità culturale. Religione e lingua sono i pilastri della identità di un popolo. L' immigrazione di massa dai Paesi musulmani rischia di avere un impatto disastroso. Siamo nel 1996. L' 11 settembre 2001 è ancora lontano. Il dibattito sullo ius soli roba da accademia. Le proporzioni epocali del fenomeno migratorio non sono ancora chiare a tutti.

A Ida Magli invece sono chiarissime. Ci andranno di mezzo la nostra cultura e la laicità dello Stato: «È indispensabile una legislazione rigida per fare in modo che almeno non ne arrivino troppi. Ripeto: gli islamici sono una popolazione forte, con una religione forte, non possono in alcun modo essere integrati nel nostro contesto (come in nessun altro contesto: vedi l' esempio francese), anche se lo volessero, ma naturalmente non lo vogliono.

L' integrazione è impossibile già al livello, che sarebbe indispensabile, delle leggi: perché il Corano è un codice sia civile sia religioso». In ballo ci sono libertà costate secoli di guerre anche fratricide: «Questo rende l' islamismo fortissimo e immodificabile, perché un testo sacro non lo si può manipolare secondo i bisogni. Questo significa anche che tutto quello che noi abbiamo così duramente conquistato nel corso della storia, ossia l' affermazione di un' etica scissa dal sacro, è incompatibile con la loro visione del mondo. Noi non dobbiamo imporre a loro la nostra: è una cosa che abbiamo fatto in passato ed era una violenza gravissima. Ma proprio perché sappiamo bene a quali irrimediabili conflitti si va incontro, abbiamo il dovere e il diritto di prevenirli».

Terzo round: Europa. Un altro tabù, un' altra finzione. Dove non esiste lingua comune, non esiste popolo. La Magli fu la prima a leggere e contestare i trattati che superavano il mercato comune per dotare l' unione di nuove istituzioni politiche ed economiche, tra cui la moneta (il non ancora varato euro) definita «una grave violenza dei governanti sul popolo». La ricchezza dell' Europa sta nella sua infinità varietà.

L' omologazione, da ottenersi attraverso l' ideologia del politicamente corretto, alla lunga sancirà proprio la fine del Vecchio continente.

Saremmo già al ko. Ma nel libro c' è spazio anche per una contestazione radicale dell' insegnamento scolastico, per una stroncatura senza appello dei mass media, per un' analisi della Salute pubblica come prova del controllo del Potere sui corpi (esatto: anche il dibattito bioetico è ampiamente anticipato) e infine per una proposta choc: abolire la Costituzione, una montagna di chiacchiere dietro alla quale si nasconde la pretesa della politica di essere venerata come una intangibile divinità.

Rivoluzionario, nel suo piccolo, è anche il libro in sé: con un indice analitico, da tempo abolito perché faticoso; il dorso scritto da destra e sinistra e da sinistra e destra per evitare al lettore il torcicollo; doppio sommario, all' inizio e alla fine; e altri dettagli che lo rendono un oggetto unico. Come Ida Magl

domenica 18 giugno 2017

L'altra America

Camillo Langone - il Giornale
Mi piacciono i vecchi cattivi. Mi piace (prima non mi piaceva) Maurizio Costanzo, da quando in una magnifica intervista ha detto che Riina deve crepare in carcere. 

Mi piace tantissimo Riccardo Ruggeri, classe 1934, che nel suo America. Un romanzo gotico (Marsilio) si scaglia contro le decadenti e saccenti élite occidentali, politiche, economiche, mediatiche, con una libertà mentale che non trovo in commentatori dell'età dei suoi figli se non dei suoi nipoti. Il multiculturalismo è «bieco», il politicamente corretto «una moda idiota», i premi Nobel dell'economia «tronfi e inutili», i Ceo della Silicon Valley «turpi»... Il bello è che l'attacco virulento a ciò che nel libro viene definito Ceo-capitalism non viene da un Alessandro Di Battista, da un comunistoide, da un descamisado, ma da un antico liberale che rimpiange Luigi Einaudi e che è stato proprio Ceo, amministratore delegato, per giunta di una grossa azienda con sede negli Usa (la New Holland, trattori e macchine movimento terra). Pertanto la sua è un'informatissima critica dall'interno, qualcosa di simile all'opera di Tom Wolfe che degli aborriti radical chic era vicino di casa, collega di salotto. La somiglianza è perfino stilistica e onestamente Ruggeri dichiara il proprio debito nei confronti di Hunter Thompson, che di Wolfe si potrebbe considerare il fratello minore e scapestrato.
Conobbe l'autore di Paura e disgusto a Las Vegas di persona, nel 1982: «Era un grande individualista, un grande scrittore, un lucido giornalista, un patriota, un antistatalista, un uomo di sinistra che amava gli operai e disprezzava i liberal». Anche Ruggeri ama gli operai: lo era suo padre, lo fu lui stesso, da ragazzo, prima di salire su un ascensore sociale che oggi si è rotto o forse no, si muove ancora, ma solo verso il basso. Ruggeri ama l'industria, le fabbriche, il vecchio sano capitalismo della produzione reale che contrappone al capitalismo irresponsabile delle banche d'affari e di internet, animato da «squallidi alto-borghesi (tutti laureati, con master anglosassoni), all'apparenza educati, gentili che, con mascherata supponenza, portano avanti il disegno di trasformarci in androidi, sostituendo la dieta carnea con quella vegana, la prolificità con l'aborto, la sacralità della vita con l'eutanasia, la libertà di pensiero con la schiavitù intellettuale, la dignità del lavoro con miserabili consumi».
Cattivissimo, l'avevo detto, e pertanto quello che ci vuole contro la dittatura dei carini, degli «implacabili finti paladini delle buone cause, con il vezzo di definire xenofobo, omofobo, subumano e populista chi non la pensa come loro». Si sarà capito che Ruggeri non parteggiava per Hillary Clinton, di cui denuncia la corruzione, l'asservimento alla finanza e la totale inettitudine nella gestione degli affari di Stato, Libia in primis. Viceversa è un simpatizzante se non proprio di Trump dei suoi elettori, dell'America profonda, della Bible e della Rust Belt, degli Stati interni già manifatturieri e ancora religiosi, di una middle-class bianca impoverita dalla globalizzazione e inorridita dalla amoralità californiana e newyorchese. La vittoria del magnate dal ciuffo giallo se non altro è servita per liberare l'America e in qualche misura il mondo da «tre orrende famiglie politiche, i Clinton, i Bush, gli Obama».
Sì, anche dei Bush, altrettanto establishment agli occhi del vecchio eppur vivacissimo osservatore.
Quando un professore è severo gli studenti somari lo definiscono cattivo: il professor Ruggeri è dunque cattivissimo, bocciando tutti i presidenti successivi a Reagan e almeno uno dei precedenti, l'intoccabile Kennedy. Se credete ancora in quella vecchia mitologia risparmiatevi il prossimo virgolettato, potrebbe traumatizzarvi: «La vittoria di Kennedy su Nixon arrivò da Chicago, con il combinato disposto di: a) truffe nei seggi perpetrate dal sindaco democratico Richard J. Daley, amico e losca protesi di suo padre, il turpe Joseph P. Kennedy (migliaia di morti uscirono dalle tombe, votarono JFK, e rientrarono per sempre nell'Ade); b) pacchetti di voti portati da ambienti sindacal-mafiosi legati a Bob Kennedy».
In questo suo onnivoro, rabdomantico viaggio in America, Ruggeri osserva tutto, si interessa di tutto, legge il futuro statunitense e nostro nei menù dei ristoranti così come nelle mostre d'arte e quest'ultima frequentazione spiega il sottotitolo Romanzo gotico per un libro che non è un romanzo e non rimanda alla letteratura horror del Settecento inglese: nelle sue pagine ricorre il celeberrimo quadro di Grant Wood col contadino arcigno che impugna il forcone affiancato dalla figlia arcigna pure lei, per l'appunto intitolato American gothic. A Ruggeri piace quel quadro, piace quell'America conservatrice, e soprattutto piace quell'appuntito forcone.

MORIRE

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