domenica 16 giugno 2024

MELANZANE

 Un nuovo studio ha rivelato un sorprendente legame tra la vita sentimentale e l’alimentazione. Tutti vogliamo dormire bene, avere una vita sentimentale fantastica e relazioni solide, giusto? Ebbene, è emerso che frutta e verdura potrebbero essere la risposta a tutte le vostre preghiere.

 

Un nuovo studio ha rilevato che ben il 73% delle persone che mangiano la quantità raccomandata di frutta e verdura ogni giorno è soddisfatto della propria vita sentimentale. La percentuale scende a meno della metà (48%) per coloro che non mangiano abbastanza frutta e verdura.

 

sesso e ciboSESSO E CIBO

L'emoji della melanzana potrebbe avere un nuovo significato? È emerso che i nutrienti contenuti nella frutta e nella verdura possono contribuire a migliorare la nostra salute sessuale.

 

Lo studio, condotto dall'azienda di fast food "salutista" Picadeli, ha anche rilevato che nove persone su 10 sono felici nelle loro relazioni quando mangiano 400 g di frutta e verdura al giorno. Ma questa percentuale scende del 12% se non si mangia la quantità raccomandata.

 

sesso e cibo 2SESSO E CIBO 2

Chi avrebbe mai pensato che ci fosse un legame così forte tra ciò che mangiamo e la qualità delle nostre relazioni? Sembra quindi che melanzane e affini siano la risposta ai nostri problemi in camera da letto.

 

Quasi l'85% delle persone che mangiano molta frutta e verdura dichiara di essere molto soddisfatto della propria vita. Questi alimenti non solo sono ricchi di importanti sostanze nutritive e antiossidanti, ma aiutano anche a mantenere in salute il nostro corpo e la nostra mente. In alto le melanzane e le pesche, in entrambe le loro forme..

lunedì 10 giugno 2024

PAOLINA BORGHESE

 Prima che si coricasse, i dottori le avevano detto che la fine era prossima, chiedendole se volesse ricevere i Sacramenti. Quella Signora però, elegante come sempre a dispetto anche della malattia, per tutta risposta aveva esclamato : “Vi dirò io quando sono pronta! Ho ancora qualche ora da vivere”. Così, soltanto la mattina seguente accettò di ricevere il prete che le portava il Viatico, ma anziché ascoltarne la predica, fu lei che la fece a lui, abituata com’era a parlare senza ascoltare le risposte altrui. Chiamò poi il notaio per dettargli il testamento e tale operazione richiese parecchio tempo, perché i parenti erano numerosi. Ce ne fu per tutti, fuorché per il marito, col quale i rapporti erano pessimi da anni e che non vedeva l’ora di restare vedovo, anche se per uno scrupolo di coscienza era accorso al suo capezzale. Dopo essersi congedata dai domestici ed aver impartito le istruzioni per la sua imbalsamazione, chiese infine uno specchio per verificare il proprio aspetto e, quando finalmente ebbe fatto tutto, all’una pomeridiana del 9 giugno 1825 chiuse gli occhi per sempre, soccombendo a soli quarantacinque anni ad un tumore allo stomaco. Questa fu la fine della Principessa Paolina Borghese Bonaparte, la “Venere dell’Impero”, donna che con le sue arti ammaliatrici aveva fatto impazzire la Parigi napoleonica, per poi diventare l’indiscussa “Regina” della Roma papalina d’inizio Ottocento. Sbarcata a Tolone dalla nativa Corsica nel 1793 con la madre Letizia ed il resto del nutrito clan familiare, diventò presto merce di scambio nella mani del sempre più potente fratello Napoleone, in rapida serie generale dell’Armata Repubblicana, primo Console ed infine Imperatore dei Francesi. Giovanissima, fu da lui concessa in sposa all’amico generale Leclerc, comandante in capo dell’Armata d’Italia, del quale Paolina si innamorò tanto, ma non abbastanza da riservagli in esclusiva l’uso di quelli che lei chiamava “i vantaggi concessimi dalla natura”, ossia il più bel corpo muliebre della Parigi di quei tempi, esaltato da una carnagione bianchissima, curata con frequenti bagni nel latte, seguiti da docce di acqua gelida. Paolina iniziò infatti a coltivare numerose relazioni extraconiugali, che sarebbero poi state una costante della sua vita: attori, pittori, musicisti, generali ed ussari avrebbero via via frequentato la sua alcova, equamente suddivisi fra francesi, italiani e stranieri di passaggio. Lo scandalo non tardò a scoppiare, per lo scorno del povero Leclerc, cui Napoleone impose di partire per l’isola di Santo Domingo, con la moglie ed il figlioletto Dermide al seguito, allo scopo dichiarato di sedarvi la ribellione indigena capeggiata dall’ex schiavo Toussaint Louverture, ma col fine recondito di far chetare le acque. Le preponderanti forze francesi non tardarono ad avere la meglio sui rivoltosi, a costo però di ingenti perdite umane, fra cui quella dello stesso Leclerc, deceduto sul finire del 1802 a seguito d’un attacco di febbre gialla. La neo-vedova, già sulla via del ritorno in patria, trovò conforto fra le braccia del generale Humbert, mentre la salma del marito viaggiava sottocoperta sulla loro stessa nave, rinchiusa in una bara di legno chiaro. Rientrata a Parigi, l’ancor giovane Paolina riprese la vita frivola di sempre, incontrando sul suo cammino Camillo Borghese, giovane Principe appartenente ad una delle più nobili e facoltose Casate romane: bello, elegante, fascinoso nei suoi tratti mediterranei, aveva tutte le doti per piacere alle signore della Parigi bene, a patto però che non aprisse bocca. Era allora infatti che la sua scarsa istruzione, unita ad un’intelligenza men che mediocre, lo faceva apparire alla stregua di un tonto o di un sempliciotto, facile preda dei tanti più furbi di lui. D’altra parte, se si trovava in esilio dorato a Parigi, era proprio perché speditovi dal padre Marcantonio, disperato perché Camillo, nonostante vantasse fra i suoi avi Papa Paolo V ed una nutrita schiera di Cardinali, durante l’occupazione francese di Roma aveva abbracciato la causa repubblicana. Solleticato dalla prospettiva di vedere la sua famiglia imparentata con quella di un Principe, Napoleone acconsentì di buon grado alle nozze della sorella col Borghese, raccomandandole di seguirlo a Roma e di rispettarlo come marito e come uomo. Parole al vento perché, una volta giunta nell’Urbe, Paolina iniziò presto ad annoiarsi, pur in mezzo a tante bellezze artistiche, trovando sollievo ancora una volta negli amanti, frequentati durante le sempre più lunghe assenze del marito. La prematura morte per un attacco malarico del figlioletto Dermide, di cui Paolina incolpò il marito perché lo aveva mandato a trascorrere l’estate nella calura di Frascati, a casa dello zio Luciano Bonaparte, guastò irreparabilmente i rapporti di coppia. Purtroppo, a nulla valse lo splendido regalo fattole da Camillo, che nel 1804 incaricò l’artista del momento, lo scultore Antonio Canova, d’immortalare la moglie seminuda come “Venere vincitrice”, in una meravigliosa statua di marmo bianchissimo che all’epoca destò grande scandalo per il suo realismo. Dal 1810 la separazione fra i due fu anche fisica, con Paolina impegnata ad inseguire il fratello Napoleone in tutta Europa e persino in esilio, all’Elba, e Camillo a rifarsi una vita accanto alla Duchessa Lante della Rovere, nel suo palazzo di Firenze. Una parvenza di riconciliazione fra i due ci fu solo in extremis, appena in tempo per assicurare a Paolina una degna sepoltura nella Cappella Borghese, all’interno della Basilica romana di Santa Maria Maggiore. Là sotto, nella cripta di famiglia, la bara della “Venere dell’Impero” riposa da allora accanto a quelle di Papa Paolo V, del Card. Scipione Borghese e del marito, come tardivo simulacro di una riunione postuma.

ELEZIONI EUROPEE

 "Il professor Agamben ha scritto una breve sintesi che chiude l’argomento sulle elezioni europee. Mostra come sia, dal punto di vista giuridico, un evento inesistente e come sia, dal punto di vista politico, una delle più grandi menzogne mai inventate dai padroni del discorso a danno dei sudditi. Inutile quindi ripetere concetti espressi con estrema chiarezza circa l’invenzione di un evento che non esiste, ossia la sovranità del popolo europeo e la sua espressione nell’elezione di un organismo capace di rappresentarla.

Chi va votare lo fa perché lo fanno gli altri, non ci può essere altra ragione, perché, per quanto limitato intellettualmente, non può non rendersi conto che il suo voto non delega nessun potere a nessuno. Il finto parlamento europeo non ha poteri di alcun tipo, non elegge alcun governo, non nomina alcun presidente. E’ semplicemente un fantoccio ideologico che serve a mascherare ai poveri diavoli che in realtà la UE è esattamente un organismo di diritto internazionale, come l’antica Santa Alleanza, ovvero un accordo fra stati che si danno lo scopo di cooperare per fini che hanno stabilito utili ai membri che aderiscono al patto.
Ciò detto, quello che allora, perché parlarne? Per il problema della menzogna e della sua accettazione. Molti si richiamano al principio espresso da Solzenicyn, ossia che come unica linea di condotta possibile di fronte all’enormità dei poteri totalitari a cui siamo sottoposti c'è quella di non aderire per quieto vivere alla menzogna e, se possibile, dire di verità. In ogni caso non avallare mai la menzogna. “Loro mentono sempre”, con questo semplice concetto Solzenicyn ci offre la sintesi più chiara e più esaustiva della logica che permette ai poteri totalitari di plasmare l’universo sociale a loro piacimento. Chi ritiene dunque di non doversi sottomettere, o almeno non sottomettersi completamente al potere, ha il dovere di non accettare la menzogna. Il potere sa di mentire e sa che quelli che sono oggetto delle sue menzogne, sanno che sono menzogne. Sa di essere il potere, perché sa che il suddito sa che si tratta di menzogne, ma dichiara pubblicamente che in realtà sono verità. La logica del potere è tutta qui e si fonda sull’acquiescenza delle masse, sul fatto che esse dichiarano che il nero è bianco e il bianco nero se è conveniente dirlo, ossia se il potere glielo chiede, garantendogli in cambio di non venire a disturbarlo. Tutti sono certi che tutto quello che si dice è una menzogna, ma tutti mentono, in particolare quelli che dicono che le menzogne che ricevono dal potere sono vere. No, non vere menzogne, ma menzogne che vengono fatte passare per fatti veri. Riguardo a questo basta guardare, negli stati più totalitari della storia, quelli dell’europa occidentale, come i sudditi ripetono come automi, ma in realtà per quieto vivere, la menzogna più assurda con cui il potere si pavoneggia, ossia che qui vige la libertà di pensiero e di espressione. Provate solo a dire che le razze esistono….
Ecco allora solo aderire alla menzogna che c’è la destra e la sinistra e che una è l’opposto dell’altra è avere già accettato il proprio ruolo di suddito compiacente. Andare a votare è allora dichiarare che il potere mente, sappiamo che mente, ma siamo contenti che menta così siamo tranquilli che non ci farà del male."
Alfredo Morosetti

domenica 9 giugno 2024

ROBERT CAPA

L'altro giorno, il 6 giugno, si è celebrato l'anniversario numero 80 dello storico Sbarco in Normandia. Però non ho sentito parlare di lui, di Endre Ernö Friedmann, noto con lo pseudonimo Robert Capa.
Robert era un fotografo ungherese, il più grande fotografo di guerra. Aveva già conosciuto l'orrore durante la guerra civile spagnola. Quando gli Alleati partirono dall'Inghilterra in quella folle notte navigando in direzione della costa francese, Robert era con loro, con in mano la macchina fotografica. Sulla costa della Normandia, sotto il fuoco dei tedeschi, scattò un centinaio di immagini, di cui si sono salvate solo 11, un po' sfocate perché riprese nella concitazione terrificante della lotta fra la vita e la morte. Eppure restituiscono la sensazione agghiacciante di cosa fu quella corsa verso la conquista di un lembo di spiaggia, facce stravolte, uomini che affiorano dall'acqua e corrono curvi verso la salvezza o la morte. Foto che dicono più di molte parole, tanto che quegli scatti sono stati definiti "i magnifici 11".
Robert Capa arrivò fino a Parigi, dove immortalò la festa della liberazione.
In seguito, ottenne la nazionalità americana. E il direttore della rivista Life, Ray Mackland, gli affidò l'incarico di recarsi in Indocina, dov'era scoppiata la guerra tra la Francia e il Viet Minh, un gruppo che combatteva contro l'occupazione coloniale francese. E lì, nel Laos, Robert inciampò su una mina antiuomo e perse la vita a 41 anni. Era il 1954.
Robert Capa odiava la guerra, come tutti noi che nel nostro mestiere abbiamo avuto occasione di vedere da vicino cos'è la guerra. Odiava la guerra e la stupidità degli uomini che fanno del male ad altri esseri umani. E odiava i chiacchieroni, quelli che pensano di risolvere le cose della vita con le loro parole, e invece usano la lingua solo per i propri interessi.

Robert Capa scrisse: "La stupidità è il motore del mondo. I politici, gli uomini di marketing, i religiosi, i personaggi dello spettacolo, campano tutti, chi più chi meno, sulla stupidità umana." 

PASTA E CECI

 «Vuoi vedere che il piatto più rappresentativo del nostro paese è la pasta e ceci?». A dirlo è Arcangelo Dandini, chef romano ambasciatore del gusto a capo di locali come Chorus, L'Arcangelo e Supplizio a Roma e che sta per aprire le porte di Garum a Londra (il 20 ottobre). «Altro che spaghetti al pomodoro...», prosegue. «La salsa di pomodoro l'ha sdoganata Francesco Leonardi alla fine del Settecento. La conserva, Cirio nel Novecento e la pasta secca fino al Novecento si mangiava solo in Campania o quasi...». In effetti, sulle prime, potrebbe sembrare un ragionamento singolare. Ma basta approfondire un po' per rendersi conto di quanto sia fondamentale per la nostra tradizione la pasta e ceci.

 

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Che ritroviamo già presso gli antichi romani. La loro «protopasta» si chiamava lagnum, nome di cui oggi troviamo traccia etimologica in alcune paste - asciutte oppure in pasticcio o in minestra, magari coi ceci - che derivano dall'Impero romano il nome, come le lagane. A Nord, erede diretta di quella pasta è la lasagna. Per alcuni «lagana» e «lasagna» hanno la stessa origine, etimologica e antico-romana, derivando «lasagna» dal greco, da cui il latino lagnum. Per altri invece l'etimo di lasagna sarebbe il latino lasania, dal greco, che indica un tipo di recipiente da cucina.

 

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A prescindere da questo dettaglio, come spiega anche il Gambero Rosso, «forse qualche tipo di pasta era già conosciuta al tempo dei Romani. [...] Ciò che sappiamo per certo è che il metodo più antico usato dai Romani per consumare i cereali era la puls, una polenta piuttosto liquida che, a partire dalla fine dell'epoca repubblicana, venne sostituita gradualmente dal pane. Oltre alla cottura in forno, è certo che i romani usassero friggere gli impasti di acqua e farina, mentre non viene mai menzionata la lessatura in acqua» intesa come la intendiamo oggi, cioè una pasta che si lessa da sola e poi si condisce.

 

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Non c'erano nemmeno tutte le forme odierne di pasta, naturalmente. Ma tutto era in nuce. Nelle Satire, Orazio elogia la vita semplice che consiste, per esempio, nel tornare a casa la sera a mangiare porri et ciceris laganique catinum. Ossia, un bel piatto di porri, ceci e lagnum. Apicio parla di lagnum anche nella ricetta della Torta quotidiana, un pasticcio che ricorda le lasagne o il pasticcio di pasta contemporanei e che prevede strati di farcia di carne, pesce, garum eccetera, alternati a strati di lagnum cioè sfoglia. Lagnum era dunque la sfoglia di acqua e farina di cereali (la cui forma non era unica, né certa) che è alla base di molte paste odierne e che pare fosse grigliata o fritta e solo poi posta in minestra.

 

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Nelle Etymologiae di Isidoro da Siviglia (VI-VII secolo), la voce «laganum» è indicata come «una pasta larga e sottile, cotta prima nell'acqua, poi fritta nell'olio». Anche nel saggio I napoletani da «mangiafoglia» a «mangiamaccheroni» pubblicato nel 1958 sulla rivista Cronache Meridionali, Emilio Sereni ipotizza che la lagana greco-romana fosse un disco di pasta prima lessata e poi fritta o grigliata su pietra rovente, talvolta tagliata a strisce e aggiunta alle zuppe.

 

Secondo Sereni, i greci introdussero la lagana in Calabria e così la conobbero i romani. Sono ipotesi: non si può affermare con certezza se questa protopasta si lessasse come oggi oppure no, ma è comunque inconfutabile che il lagnum si usasse a sfoglia grande come la lasagna odierna e anche a strisce che si trattavano come oggi facciamo con le lagane o, per usare un altro termine, i maltagliati. Come si passa dal lagnum agli spaghetti in pacchetto di oggi?

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La prima attestazione della pasta essiccata in Italia, secondo alcune fonti riprese anche da Wikipedia, si trova nel Libro di Ruggero pubblicato nel 1154. Nel testo Al-Idrisi, geografo di Ruggero II di Sicilia, descrive Termini Imerese come zona in cui si fabbrica una pasta a fili modellata manualmente. Al-Idrisi indica questa pasta col termine generico di itriyya, traslitterazione araba del greco itrion che significava «impasto di acqua e farina cotto in un liquido» e si tratta senza dubbio di un'evoluzione del lagnum di epoca romana: per ottenere un filo di pasta da una sfoglia basta tagliare la sfoglia in pezzetti e poi arrotolarli espandendoli, poi seccare anziché friggere, grigliare o lessare.

 

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Lo scrivono anche Silvano Serventi e Françoise Sabban in La pasta. Storia e cultura di un cibo universale (Laterza): «La sfoglia non è più matrice unica per la preparazione di molti altri formati di pasta.

 

Ora è in concorrenza con un'altra tecnica, quella del filo o filamento, che consiste nel modellare piccoli frammenti di pasta con le dita o con le mani, facendoli rotolare su un tavolo fino a ottenere un formato di pasta che con un termine generico si chiamerà vermicelli». O anche maccheroni, termine con cui, tuttavia, nel Medioevo si indicavano anche quelli che oggi chiamiamo gnocchi. Si chiameranno anche spaghetti, cioè piccoli spaghi, lemma che entrerà in uso nel XIX secolo.

 

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Questa pasta, una volta essiccata, veniva spedita con navi in abbondanti quantità per tutta l'area del Mediterraneo musulmano e cristiano. Col passare dei secoli l'area campana amplificherà la produzione, specie in luoghi come Amalfi e Gragnano, che presentano un microclima perfetto grazie a vento, sole e giusta umidità. L'invenzione del torchio a vite per la trafilatura della pasta (chiamato in napoletano 'ngegno) permetterà una produzione ancora più veloce.

 

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Il resto - cioè il condimento di pomodoro che si diffonde tra la fine del XVII e gli inizi del XVIII secolo creando lo stereotipo degli spaghetti al pomodoro come la pasta italiana - è storia che conosciamo. Ora sappiamo che molto probabilmente le lagane e gli antichi Romani siano i genitori degli spaghetti, lagnum è la sfoglia antenata della pasta contemporanea e della lasagna, come l'itriyya araba che diventa itrium in latino e poi tria in alcuni dialetti lo è della pasta secca.

 

Ed eccoci arrivati alla pasta e ceci. In Campania e Basilicata si chiama lagane e ceci, in Puglia si chiama ciceri e tria e in entrambi i casi si prevede una manciata di lagane o tria fritte in cima al piatto: quello che può sembrare un vezzo è invece un residuo della cottura della «protopasta» dei romani.

 

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A testimoniare il passaggio dalla lagana allo spaghetto sempre in Puglia ci sono anche i laganari, sorta di lagane allungate e arrotolate a diventare spaghettoni. E ci sono le sagne, anche dette sagne 'ncannulate o sagne torte. In Abruzzo si preparano sagne e ceci, in Molise ci sono le sagne a pezzate, in Lunigiana le lasagne bastarde (o matte) e in Veneto le tagliatelle si chiamano... lasagne (e le lasagne pasticcio). C'è poi la laina del basso Lazio, anche questa pasta lunga come le precedenti anche indicata al plurale, laine, o con termini come lacne, làccane o làcchene.

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 La lacna stracciata di Norma è prodotto agroalimentare tradizionale laziale e si ottiene impastando farina di grano duro con acqua e sale, poi stendendo una sfoglia col lainaturo (matterello) e tagliandola in strisce irregolari che si condiscono con sughi poveri come, appunto, il sugo ai ceci. In Le ricette dimenticate della cucina regionale italiana (Newton Compton), Samuele Bovini propone una «antica ricetta» delle «vere lagane».

 

Dopo aver impastato semola di grano duro, farina 0, acqua tiepida e sale - spiega - bisogna «scottare il rettangolo di pasta da entrambi i lati su una piastra antiaderente. Lasciar diventare croccanti entrambi i lati, quindi porre l'impasto ancora sulla spianatoia e ricavare con il coltello delle grosse tagliatelle lunghe circa 10 cm e larghe circa 3 cm. Questa pasta va poi bollita in maniera tradizionale in acqua e condita con salse dal sapore molto strutturato, come del ragù dalla lunga cottura o simili».

 

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 Curiosità finale: ne Il grande libro della cucina francese, Auguste Escoffier presenta le Tagliatelle Escoffier. «Per le tagliatelle all'alsaziana», scrive, «è consuetudine, una volta disposte in terrina e pronte per essere servite, guarnirle appoggiandovi sopra una piccola quantità di tagliatelle crude fatte saltare nel burro fino a quando diventano croccanti». Anche fuori Italia ritroviamo delle lagane parzialmente fritte: un altro lascito dei romani.

sabato 1 giugno 2024

MONARCHIA

 Camillo Langone

La Russia è una repubblica, l’Ucraina è una repubblica. Israele è una repubblica, la Palestina è una repubblica. Anche gli Stati squassati dalle guerre civili sono repubbliche: Birmania, Haiti, Mozambico, Nigeria... Non mi spingo a dire che le repubbliche facciano più facilmente la guerra delle monarchie (nella storia le guerre non sono mai mancate), mi spingo a dire che fanno più difficilmente la pace. Lo pensava anche Churchill che prima del primo conflitto mondiale profetizzò: “Le guerre dei popoli saranno più terribili di quelle dei re”. La repubblica accentua le rivalità, la monarchia le attenua. Perché i presidenti sono eletti da schieramenti mentre i monarchi devono essere super partes. Questa caratteristica rende la monarchia sempre più attuale in un’epoca di odio dilagante, quando le nazioni si dilaniano per divisioni politiche, etniche, religiose... Si aprano gli occhi sui vantaggi della monarchia, fonte di armonia.

RASHI

 Rashi, il più grande commentatore della Bibbia e del Talmud.

Gli rende omaggio oggi su La Repubblica, Rav Scialom Bahbout.
Vissuto tra il decimo e l’undicesimo secolo, il poeta ebreo è ancora oggi una guida di conoscenza e di saggezza.
La tv francese ha di recente portato a conoscenza del pubblico che lo scrittore francese che ha avuto e ha ancora più successo non è Victor Hugo, né Descartes ma Rashi, un commentatore e poeta ebreo che ha scritto le sue opere in ebraico, con molte parole traslitterate in un francese antico del decimo secolo. Qual è dunque il fascino che esercita ancora questo scrittore quasi sconosciutoai più? Vissuto a cavallo tra il decimo e l’undicesimo secolo, Rashi dalle iniziali del nome – vignaiolo e interprete della Bibbia e del Talmud, vissuto a Troyes – è l’autore del primo commento in ebraico stampato nel 1474 da Avraham Ben Garton, a Reggio di Calabria, e poi tradotto e diffuso in tutto il mondo: la Comunità ebraica sarebbe scomparsa di lì a poco per l’editto del 1492 di Isabella la Cattolica regina di Spagna.
A cosa è dovuto il fascino che ancora esercita il personaggio, tanto che le sue opere sono tradotte in tutte le lingue del globo? Rashi vive in un periodo turbolento, ma riesce a mantenere quell’equilibrio e quella visione della realtà che, nel corso del tempo, lo ha reso compagno di tutte le persone che si sono avvicinateai testi sacri. Intanto, nonostante il suo sapere, la qualità che caratterizza il maestro è l’umiltà: nella sua scuola fondata a Troyes insegnava ad essere pronti a esprimere le proprie idee anche se in contrasto con quelle del maestro stesso, perché solo così il sapere poteva progredire. Il suo commento spazia in tutti i campi dello scibile e ha lo scopo di rendere accessibile il messaggio biblico all’uomo, secondo il principio La Torà non è in cielo, ma nelle mani dell’uomo che deve interpretarla.
Rashi ha le sue fonti nel Talmud, ma la sua grandezza sta nelle scelte che fa: i suoi insegnamenti sono validi anche perl’uomo moderno. Analizziamo alcuni aspetti del suo pensiero. La donna non è stata creata dalla costola di Adamo, ma da un suo lato: questo il significato della parola che compare nella creazione della donna e anche nel Tabernacolo: il primo Adamo sarebbe stato creato bifronte e solo con la divisione in due del suo corpo, il lato femminile avrebbe potuto entrare in relazione con quello maschile: la coppia diventa un Tabernacolo, segno della presenza divina nel mondo umano. Rashi sostiene che la donna è seme divino, e quindi i figli sono il risultato dell’unione tra uomo e donna (una sola carne, suona il testo biblico); Aristotele invece affermava che solo il maschio è la forza attiva.
Rashi vive nel periodo delle prime crociate: vede i crociati che passano sotto le sue finestre per andare a combattere contro i musulmani e liberare il Santo Sepolcro, dopo avere cancellato intere comunità ebraiche. Era la fine dell’Ebraismo? Proprio ispirandosi al conflitto su Gerusalemme, Rashi apre il suo commento al Pentateuco: il Signore ha destinato la Terra Santa al popolo ebraico e ciò che accadeva era solo momentaneo: i cristiani e i musulmani riconoscono il valore del testo sacro e quindi anche che il Signore aveva destinato la Terra Santa agli ebrei. Non siamo qui davanti a un Sionista del Ventesimo secolo, ma al maestro rispettato da tutti da oltre mille anni. Rashi insegna che bisogna solo avere pazienza: la Chiesa ha riconosciuto la legittimità dello Stato ebraico e anche l’Islam finirà per farlo.
Difficile pensare alla pace quando il testo non sembra avere alcuna relazione con essa. Rashi sostiene che la pace in realtà va cercata in ogni manifestazione dell’uomo e fa il confronto tra il destino toccato alla generazione colpita dal Diluvio e quello riservato ai costruttori della Torre di Babele: la prima viene distrutta per avere riempito la terra di violenza (Hamas dice il testo biblico); i costruttori della Torre invece parlavano tutti la stessa lingua, si amavano e volevano rimanere uniti: per questo motivo vengono solo dispersi sulla faccia della terra. L’amore prevale sulla violenza.
Nel decimo e undicesimo secolo, dopo che il Papa francese Urbano II incitò i cristiani ad andare a liberare il Sacro Sepolcro, le Comunità ebraiche della Francia e della Renania subirono dei pogrom tremendi con massacri di uomini donne ebambini. È chiaro che è impossibile dialogare con la spada alla gola (o ti converti o ti ammazziamo): nei suoi commenti, Rashi richiama gli ebrei a resistere, tanto che molti preferirono suicidarsi per non abiurare. Era necessario fare due operazioni: dare una corretta interpretazione dei testi che parlavano del Messia senza aprire polemiche: per la sua indiscussa conoscenza dei testi, Rashi sa come consolare i membri delle Comunità, perché la furia antiebraica e i pogrom che l’accompagnavano sarebbe finita. Ieri e oggi, la ricerca della verità e della giustizia è cosa fondamentale per Rashi. Tuttavia, sottolineando uno degli insegnamenti dei maestri, egli sostiene che ci sono situazioni in cui le parti in conflitto devono ricercare un compromesso, che sia sinceramente voluto ed espressione di verità: per questo nelle contese è necessario un Tribunale di arbitrato imparziale. La forza di Rashi è che in fondo parla a ogni persona di ieri o di oggi. Ecco il fascino e il successo che riscuote ancora oggi Rashi, uomo del Medioevo: l’umiltà accompagnata allo studio, al rispetto delle opinioni altrui, la ricerca del compromesso. La società francese, ma anche la nostra, ha un modello cui ispirarsi.

IL PANE

  Maurizio Di Fazio per il  “Fatto quotidiano”   STORIA DEL PANE. UN VIAGGIO DALL’ODISSEA ALLE GUERRE DEL XXI SECOLO Da Omero che ci eternò ...