venerdì 12 gennaio 2018

Churchill - Hitler


Paolo Mieli per il Corriere della Sera

Per Londra fu il momento più difficile nel corso dell' intera Seconda guerra mondiale. A provocare la crisi del governo britannico presieduto dal conservatore Arthur Neville Chamberlain fu, ai primi di maggio del 1940, lo sfondamento hitleriano in Norvegia e la fuga dei soldati inglesi dal porto di Trondheim. La campagna norvegese era costata al Regno Unito 1.800 soldati, una portaerei, due incrociatori, sette cacciatorpediniere e un sottomarino. Per l' Inghilterra (e per l' Europa tutta) fu - come dicevamo - l' inizio del mese più brutto della sua storia, che si sarebbe concluso con la caduta della Francia in mano nazista e con la drammatica evacuazione di oltre 300 mila soldati britannici da Dunkerque.

Adesso un libro di Anthony McCarten, edito da Mondadori, L' ora più buia (da cui è stato tratto liberamente il film omonimo diretto da Joe Wright e interpretato da Gary Oldman e Kristin Scott Thomas nei panni di Winston e Clementine Churchill) descrive, sulla base di una ricchissima documentazione, i momenti in cui il nostro continente rischiò di cadere per sempre sotto il dominio della svastica.

Winston Churchill fu il primo a entrare in scena offrendosi - in quanto primo lord dell' Ammiragliato - come capro espiatorio per l' esito della disastrosa campagna norvegese: «Mi assumo la piena responsabilità di tutto ciò che è stato fatto, e mi prendo la mia fetta di colpa», scandì di fronte alla Camera dei Comuni il 9 maggio, giorno dell' importante dibattito sull' esito infausto di quella fase della guerra (anche se il peggio doveva ancora venire). All' epoca Churchill non godeva di grande popolarità. A lui veniva addebitata la catastrofe di Gallipoli nella Prima guerra mondiale; di lui era rimasto ben impresso - quanto meno tra i commentatori dei giornali - l' andirivieni tra il Partito conservatore e quello liberale. Veniva irriso, scrive McCarten, considerato un egocentrico, un voltagabbana, un «mezzosangue americano»; un uomo che, per usare le parole del deputato conservatore sir Henry «Chips» Channon, era militante di «una sola causa: se stesso».

Oggi, ricorda McCarten, allo statista con il sigaro sono intitolati 3.500 tra pub e hotel, oltre 1.500 negozi, 25 strade, «e il suo volto si trova un po' ovunque, dai sottobicchieri da birra agli zerbini». All' epoca, invece, era tenuto nel conto di un personaggio vanesio, bizzarro, imprevedibile. Ma quella sua ammissione di colpa nel momento in cui il primo ministro entrava nella tempesta non passò inosservata.

La notò lo stesso Chamberlain, il premier settantunenne, l' uomo dell' appeasement , colui che - nel settembre 1938 alla Conferenza di Monaco - aveva «regalato» ad Hitler la Cecoslovacchia nella speranza di ottenere in cambio la pace. Chamberlain, però, non fece in tempo a compiacersene perché proprio il 9 maggio fu travolto dal Parlamento. David Lloyd George, il liberale che era stato a capo del governo nel precedente conflitto mondiale, gli si rivolse in questi termini: «Voglia dare un esempio di sacrificio, dal momento che in questa guerra nulla può contribuire alla vittoria più di una sua rinuncia all' alta carica». Il laburista Clement Attlee puntò l' indice contro di lui e gli chiese con risolutezza di lasciare la guida del governo: «Non si tratta solo della Norvegia; la Norvegia è il culmine di molti altri sbagli La gente dice che la responsabilità di condurre le cose è affidata per lo più a uomini che hanno collezionato una serie pressoché ininterrotta di fallimenti». Dopodiché i laburisti si dissero pronti a entrare in un gabinetto di unità nazionale, a patto però che a tenerne le redini fosse chiunque, ma non Chamberlain, definito «quell' uomo».


Persino Leo Amery, parlamentare del suo partito, lo accusò: «Troppo a lungo siete stato seduto qui, per quel poco di bene che avete saputo fare andatevene, vi dico, e che con voi sia finita per sempre». L' ammiraglio Roger Keyes (anch' egli conservatore) si presentò alla Camera dei Comuni vestito in alta uniforme e, a sorpresa, si scagliò contro l'«impressionante storia di inettitudine dell' esecutivo». Nel suo diario il deputato Channon così descrisse quel 9 maggio: «Tra i miei colleghi è tutto un tramare e intrigare, complottare e ancora complottare».

L' aula del Parlamento precipitò nel caos. La moglie di Lloyd George, Margaret, annotò: «Non avevo mai visto uno spettacolo del genere. La Camera appariva decisa a togliere Chamberlain di mezzo L' urlo che ha accompagnato la sua uscita di scena era impressionante con quelle grida "vattene, vattene!" Non ho mai visto un primo ministro ritirarsi così ignominiosamente». Venne poi il momento del voto. Chamberlain prevalse, sia pure di misura.
Ma capì che era tutto finito quando si accorse che ben 41 deputati conservatori, appartenenti al suo stesso partito, si erano pronunciati contro di lui. Del resto era preparato all' uscita di scena anche perché affetto da un cancro al colon che - ne era da tempo consapevole - gli avrebbe lasciato pochi mesi di vita.

Il prescelto per la successione era Edward Wood, lord Halifax, già viceré in India e ora ministro degli Esteri in sostituzione di Anthony Eden, fatto fuori nel 1938 in quanto nemico della pacificazione con Hitler. Grande fautore anche Halifax della politica di appeasement , nel 1937 - quando non era ancora ministro degli Esteri - aveva accolto un invito di Hermann Goering a una battuta di caccia in Germania e nell' occasione aveva avuto un abboccamento con Hitler (che la prima volta non riconobbe: lo scambiò per un maggiordomo e gli affidò la giacca). Subito dopo, però, ne fu ammaliato. Si complimentò davanti a tutti con il dittatore nazista riconoscendogli di aver «reso grandi servigi alla Germania» e disse che «se in Inghilterra l' opinione pubblica si era dimostrata critica in parte dipendeva dal fatto che il popolo inglese non era del tutto consapevole» dei meriti di Hitler. Scrisse poi un appunto a Eden (contrario all' incontro) in cui rivelava di aver discusso con Hitler delle «modifiche dell' assetto europeo che avrebbero potuto verificarsi con il tempo».

Confidò a Stanley Baldwin la propria ammirazione per i cardini dell' ideologia nazionalsocialista («nazionalismo e razzismo sono una forza straordinaria suppongo che, al loro posto, la penseremmo allo stesso modo», gli disse parlando dei nazisti). Diede, con un anno di anticipo, una sorta di luce verde all' annessione dell' Austria: «Il popolo britannico», sentenziò, «non acconsentirebbe mai a entrare in guerra perché due Paesi tedeschi hanno deciso di fondersi». E quando fu nominato ministro degli Esteri restò delle stesse opinioni.

Il 12 ottobre del 1938, undici mesi prima dell' esplosione della guerra, l' ambasciatore americano a Londra, Joseph Kennedy, ebbe con lui un incontro e così relazionò a Washington: «Halifax non crede che Hitler voglia entrare in conflitto con la Gran Bretagna, né che per la Gran Bretagna abbia senso entrare in guerra con Hitler, a meno di un' interferenza diretta nei domini inglesi». Halifax, secondo Kennedy, suggeriva di salvaguardare gli interessi angloamericani e di «lasciare che Hitler continuasse a fare i propri comodi in Europa centrale», e che «facesse quel che voleva per se stesso».

Tutto ciò in Inghilterra alla fine degli anni Trenta appariva nient' affatto riprovevole, anzi «realistico». I colleghi di partito apprezzavano Halifax (anche quelli che criticavano Chamberlain, che del resto pensava le stesse cose del suo ministro), e così anche i laburisti. Halifax poteva inoltre vantare un rapporto di autentica amicizia con il re Giorgio VI. Così, quando Chamberlain decise di farsi da parte, il sovrano fece l' impossibile per sostituirlo con Halifax. Ma fu proprio questa insistenza di Chamberlain e di Giorgio VI a provocare in Halifax un' esitazione. Prevedeva lucidamente che la Norvegia fosse solo l' inizio della catastrofe, che le armate hitleriane avrebbero travolto l' intera Europa continentale e temeva che l' ira del Parlamento, già coagulatasi contro Chamberlain, si sarebbe ripresentata, ancora più forte, a danno del suo successore.

Soprattutto se il nuovo premier si fosse presentato, come era nel suo caso, in una esplicita linea di continuità. Ritenne che fosse più prudente saltare un giro, attendere che l' onda negativa travolgesse qualcun altro, per poi riapparire sulla scena con un piano negoziale concordato insieme a Benito Mussolini (e tramite lui con Hitler). I suoi compatrioti, pensava, lo avrebbero salutato come colui che aveva riportato la pace. A un prezzo - il consenso alla dominazione nazista sull' Europa continentale e qualche concessione nelle colonie - che sarebbe apparso irrisorio.

Churchill appena nominato da Giorgio VI (malvolentieri) alla guida del governo, confermò agli Esteri Halifax, con il quale aveva rapporti ostili da una ventina di anni e che aveva soprannominato The Holy Fox (la volpe furba). Poi pronunciò il celeberrimo discorso in cui prometteva agli inglesi «sangue, fatica, lacrime e sudore». E mentre Hitler invadeva la Francia provocandone l' immediato collasso, sfidò costantemente Halifax (e con lui Chamberlain, probabilmente anche il sovrano) a uscire allo scoperto con il loro «piano di pace».

Il momento della verità giunse, dopo una lunga serie di sconfitte militari, con le riunioni del gabinetto di guerra il 26 e 27 maggio. Il 25 Halifax aveva incontrato l' ambasciatore italiano a Londra Giuseppe Bastianini - una personalità di grande rilievo politico - e aveva concordato con lui le mosse da fare (un passo a cui McCarten attribuisce grandissima importanza). Parigi stava cadendo nelle mani dei nazisti, oltre 300 mila soldati inglesi erano intrappolati sulla costa settentrionale della Francia e la Gran Bretagna appariva alla mercé degli umori di Hitler. Halifax passò all' attacco. Accusò Churchill di non essere sufficientemente lucido e ripropose di sondare Mussolini («preoccupato come crediamo per il potere di Hitler») in vista del famoso negoziato.

Chamberlain annotò sul diario che Churchill dava l' impressione di essere scettico ma, a questo punto, se avesse potuto «trarsi d' impaccio» rinunciando a Malta, Gibilterra e qualche colonia africana, secondo lui, avrebbe «colto l' occasione al volo». E mentre il primo ministro varava l' operazione «Dynamo» per rimpatriare da Dunkerque quanti più militari inglesi possibile, Halifax lo mise con le spalle al muro: «Se scoprissimo di poter ottenere (da Hitler) condizioni che non presuppongono l' annientamento della nostra indipendenza, saremmo degli sciocchi a non accettarle».


Churchill appariva prostrato, confuso e pronto a cedere all' idea prospettata da Halifax. L' uomo, scrive McCarten, «si trovò messo nell' angolo e dovette riconoscere (la prima di una lunga serie di concessioni le quali, secondo lo storico, metterebbero in discussione l' immagine che abbiamo di lui, ndr ) che pur dubitando dell' utilità di un confronto con l' Italia la questione meritava il vaglio del Gabinetto di guerra».

In quel momento Churchill «prese in seria considerazione l' ipotesi di trattare la pace con Hitler», scrive McCarten, «per quanto tale idea possa oggi sembrarci disgustosa». So bene, prosegue l' autore, «che questa conclusione è impopolare e che mi pone in rotta di collisione con la quasi totalità degli storici e degli studiosi». Ma non si può non tenere conto di «un progressivo cedimento della sua precedente propensione a combattere a ogni costo, e un crescente interesse per l' ipotesi di negoziare la pace». In quel momento Churchill effettivamente diede disposizione che il ministro degli Esteri predisponesse un memorandum in cui venivano fissati i termini dell' iniziativa di pace. Si era arrivati a un passo dalla sua resa. Dopo di che sarebbe stato disarcionato e, quando la «mediazione Mussolini» fosse andata in porto, con ogni probabilità sarebbe stato sostituito con lo stesso Halifax.

A sorpresa, però, l' operazione Dynamo diede risultati insperati, oltre 330 mila soldati inglesi riuscirono a tornare nell' isola. Ma soprattutto Giorgio VI vinse le diffidenze della prim' ora, manifestò a Churchill il proprio impegno al suo fianco. Il primo ministro si riprese e giunse ad una resa dei conti con Halifax. Durissima. Churchill disse ad Halifax: «L' approccio che proponete è non solo futile, ma mortalmente pericoloso». E Halifax rispose così: «Qui il pericolo mortale è la romantica fantasticheria di combattere fino all' ultimo Cosa vuol dire "l' ultimo" se non la completa devastazione?». Churchill di rimando: «Ma quando la apprenderete la lezione? Dio santo! Quanti dittatori dovremo ancora vezzeggiare, blandire, favorire con immensi privilegi per capire che non si può ragionare con una tigre quando si ha la testa nelle sue fauci!».

Halifax: «Signor primo ministro, penso sia necessario mettere agli atti che se è questa la vostra unica prospettiva allora, sappiatelo, le nostre strade si dividono». E la «divisione delle strade» - questo era il senso della sfida - avrebbe fatto cadere il governo. Ma quel guanto fu lanciato in ritardo. Churchill con il sostegno del re e del Parlamento, conquistato con il secondo celeberrimo discorso nel quale impegnava il Paese a combattere «fino a quando Dio lo vorrà», piegò addirittura Chamberlain e riuscì a isolare Halifax. Che avrebbe mantenuto agli Esteri qualche mese per poi farlo fuori mandandolo, come ambasciatore, negli Stati Uniti.

venerdì 5 gennaio 2018

La Grande Guerra

Vittorio Feltri per Libero Quotidiano

Un secolo fa, nel 1918, si concluse la Prima guerra mondiale, che noi pensammo e ancora pensiamo di aver vinto. Sciocchezza, falsità utilizzata dai retori dell' epoca allo scopo di esaltare il cosiddetto amor patrio. La nostra fu una sconfitta in ogni senso, politico e militare.

Non si capisce perché partecipammo al conflitto. Se interroghi qualunque studente universitario in proposito non sa come rispondere oppure ripete una serie di luoghi comuni in cui lui stesso non crede. Provate a trasformare questa domanda sui motivi del nostro intervento in una sorta di test e scoprirete che nessuno sa qualcosa sulla tragedia in questione. Morirono centinaia di migliaia di uomini nelle trincee e durante gli assalti assurdi alle truppe austriache, e non abbiamo capito chi ce lo abbia fatto fare di organizzare ai nostri confini nordici una enorme macelleria.

L' Unità d' Italia era fresca, aveva poco più di 50 anni, e un brutto dì gli idioti del governo e del Parlamento, non certo migliori degli attuali, decisero di buttarsi in battaglia per ottenere non si sa quali benefici. I nostri soldati erano ignari dei motivi per cui dovevano andare in montagna a farsi massacrare e a massacrare colleghi stranieri. Le soldatesche sotto il tricolore che combattevano lassù tra i bricchi non parlavano neppure la lingua italiana, si esprimevano in massima parte nel dialetto della loro regione. A fatica si comprendevano.

D' altronde tra un alpino bergamasco e uno abruzzese, a quei tempi, l' incomunicabilità era totale. Essi erano uniti da un solo denominatore comune, costituito dalla sofferenza fisica, ai limiti della resistenza, e dalla paura di morire, che poi era una certezza. L' ordine dei generali, lacchè dei politici dissennati, era secco e indiscutibile: premere il grilletto e uccidere il nemico presunto.

Accadde di tutto durante le carneficine. Gli alpini che andavano avanti cadevano sotto i colpi austriaci, quelli che giustamente cercavano scampo indietreggiando erano ammazzati dagli ufficiali al grido: «crepate traditori e vigliacchi». E adesso c' è ancora chi ci viene a raccontare che quella sul Grappa e quella lungo il Piave furono pagine eroiche. Menzogne. La disperazione e il terrore spinsero i nostri militari denutriti e sfiancati a reagire: non volevano perire; della Patria, che manco sapevano cosa fosse, non gliene importava un accidente.


Gli storici, insufflati dai servi del potere, non hanno mai detto la verità. E quando i cannoni hanno smesso di sparare, hanno cominciato a sparare cazzate gli strateghi da salotto romano, dipingendo le intrepide gesta del nostro esercito quale prova dell'italico valore. Oggi, nonostante il tempo trascorso, che avrebbe dovuto indurre gli studiosi a rivedere la realtà alla luce della ragionevolezza, siamo tuttora qui ad abbeverarci ai sacri testi del militarismo più vieto, e seguitiamo a ruminare retorica per lodare il sacrificio dei soldati trucidati ubbidendo alla regia volontà.

Tutto ciò è insopportabile. Reiterare le bugie a scopo propagandistico è un esercizio ignobile, che rifiutiamo, al quale tuttavia pochi si sottraggono. Come cittadini, che conoscono a fondo l' Italia e la sua miseria intellettuale, ci vergogniamo di assistere a certe sceneggiate disgustose o, peggio, ridicole.

Nel rispetto delle vittime della Prima guerra mondiale, invochiamo almeno un po' di silenzio: basta far passare da scemi gli alpini che ci lasciarono la pelle per non realizzare i sogni di gloria d' un manipolo di deficienti seduti in poltrona. Dal gravissimo evento bellico il Paese non ricavò alcun vantaggio, ma solo funerali di terza categoria: nessuna pensione per i superstiti e un immenso dolore per i familiari.

Per comprendere quanto avvenne sulle Alpi è più utile ascoltare una canzone napoletana del 1915 'O surdato 'nnammurato che leggere tanti libri scritti da tromboni stonati e prezzolati.

mercoledì 3 gennaio 2018

Tom Wolfe

Alexandre Devecchio per Le Figaro / LENA, Leading European Newspaper Alliance pubblicato da la Repubblica

È uno dei più importanti scrittori viventi. Forse il più grande "scrittore francese" contemporaneo, tanto la sua opera è impregnata di quelle di Zola e Balzac. Il progetto dell' autore delle Illusioni perdute era di identificare le "specie sociali" dell' epoca, «scrivere la storia dimenticata da tanti storici, quella dei costumi».

E nello stesso modo Tom Wolfe, inventore del New Journalism, è l' etnologo delle tribù postmoderne: gli astronauti ( La stoffa giusta, 1979), i golden boys di Wall Street ( Il falò delle vanità, 1987), gli studenti decadenti delle grandi università ( Io sono Charlotte Simmons, 2004).

Vestirsi di bianco, come fa sempre, è un diversivo. Un modo per distrarre l' attenzione e non dover parlare troppo della propria arte o di se stesso. Alla psicologia e alle spiegazioni testuali Wolfe ha sempre preferito i fatti e le lunghe descrizioni, ma, a 86 anni, il dandy reazionario non ha più niente da perdere e non si sottrae a nessun argomento. Il fenomeno Harvey Weinstein - con le sue conseguenze - potrebbe essere, secondo lui, «la più grande farsa del Ventunesimo secolo».

In uno dei suoi libri, "Radical Chic", lei fustiga il politicamente corretto, la sinistra intellettuale, la tirannia delle minoranzeL' elezione di Donald Trump è una conseguenza di quel politicamente corretto?
«In quel reportage, inizialmente pubblicato nel giugno 1970 sul New York Magazine, descrivevo una serata organizzata il 14 gennaio precedente dal compositore Leonard Bernstein nel suo appartamento di tredici stanze con terrazzo, distribuito su due piani. Lo scopo della festa era una raccolta fondi per l' organizzazione Black Panther


Gli ospiti si erano premurati di assumere dei domestici bianchi per non urtare la sensibilità delle Panthers. Il politicamente corretto, da me soprannominato PC - che sta per "polizia cittadina" - è nato dall' idea marxista che tutto quello che separa socialmente gli esseri umani deve essere bandito per evitare il predominio di un gruppo sociale su un altro.

In seguito, ironicamente, il politicamente corretto è diventato uno strumento delle "classi dominanti", l' idea di un comportamento appropriato per mascherare meglio il loro "predominio sociale" e mettersi la coscienza a posto. A poco a poco, il politicamente corretto è perfino diventato un marcatore di questo "predominio" e uno strumento di controllo sociale, un modo di distinguersi dai "bifolchi" e di censurarli, di delegittimare la loro visione del mondo in nome della morale.

Ormai la gente deve fare attenzione a quello che dice. E va di male in peggio, specialmente nelle università. La forza di Trump nasce probabilmente dall' aver rotto con questa cappa di piombo. Per esempio, la gente molto ricca in genere tiene un profilo basso mentre lui se ne vanta. Suppongo che una parte degli elettori preferisca questo all' ipocrisia dei politici conformisti».
  
Nella sua opera, la posizione sociale è la chiave principale per la comprensione del mondo. Il voto per Trump è il voto di quelli che non hanno o non hanno più una posizione sociale o di quelli la cui posizione sociale è stata disprezzata?
«Attraverso Radical Chic descrivevo l' emergere di quella che oggi chiameremmo la "gauche caviar" o il "progressismo da limousine", vale a dire una sinistra che si è ampiamente liberata di qualsiasi empatia per la classe operaia americana.

Una sinistra che adora l' arte contemporanea, si identifica in cause esotiche e nella sofferenza delle minoranze ma disprezza i rednecks (bifolchi ndr) dell' Ohio. Certi americani hanno avuto la sensazione che il partito democratico fosse così impegnato a fare qualsiasi cosa per sedurre le diverse minoranze da arrivare a trascurare una parte considerevole della popolazione.

In pratica quella parte operaia della popolazione che, storicamente, ha sempre costituito il midollo del partito democratico. Durante queste elezioni l' aristocrazia democratica ha deciso di favorire una coalizione di minoranze e di escludere dalle sue preoccupazioni la classe operaia bianca. E a Donald Trump è bastato chinarsi a raccogliere tutti quegli elettori e convogliarli sulla sua candidatura».


Che considerazioni le ispirano l'affare Weinstein e la polemica #MeToo?
«Nessuno si prende la briga di definire correttamente cosa si intende per aggressione sessuale. È una categoria estremamente sommaria che va dal tentato stupro alla semplice attrazione, e da questa confusione nascono tutti gli eccessi. Sono diviso tra lo spavento, come cittadino, e il divertimento, come romanziere, per questa meravigliosa commedia umana. Se continua di questo passo, questa storia può diventare la più grossa farsa del Ventunesimo secolo. Sulla stampa, ancora adesso sul New York Post e sul New York Times, ci sono articoli in prima pagina con titoli a caratteri cubitali.
Oggi qualsiasi uomo dedichi qualsiasi sorta di attenzioni a qualsiasi donna, per esempio sul posto di lavoro, diventa un "predatore". Da quando è scoppiato il caso Weinstein, sento dappertutto uomini che dicono alle giovani donne che frequentano "non dovrei farmi vedere con te in questo o quel posto", "lavoriamo nella stessa impresa e sono in una posizione più alta della tua, farebbe una pessima impressione". Ormai gli uomini si preoccupano perché trovano attraenti certe donne. Improvvisamente ci ritroviamo in opposizione con le leggi naturali dell' attrazione che ora bisognerebbe ignorare.

Nessuno parla di quelle donne, tuttavia numerose, che provano un piacere concreto e considerevole a incontrare sul posto di lavoro un collega che trovano attraente. Un uomo che altrimenti non avrebbero avuto occasione di incontrare.


Penso che il mondo non sia cambiato così tanto da mettersi a proclamare che oggi all' improvviso le donne non vogliono più suscitare l' attenzione degli uomini. In realtà non è cambiato niente, eccetto il fatto che le donne dispongono di un potente strumento di intimidazione che prima non avevano.

Adesso possono rimettere al loro posto gli uomini le cui attenzioni sono troppo estreme o che esse giudicano troppo volgari, possono eliminare un rivale sul piano professionale o magari vendicarsi di un amante "troppo mascalzone". Per accusare qualcuno di aggressione sessuale sembra che ormai basti la parola di una donna e alcuni stanno già chiedendo un rovesciamento dell' onere della prova e che sia l' uomo sospettato a dover provare la propria innocenza».


 
Lei è l' inventore del New Journalism, un giornalismo che nella forma si avvicina alla letteratura ma che si fonda anche sul dettaglio delle ricerche e la precisione dei fatti riportati. L' era del digitale e dell' immediatezza ha spazzato via questo modo di fare informazione?
«A quel tempo, bastava scendere in strada e fare delle domande alla gente. Utilizzavo quella che chiamo la tecnica del marziano. Arrivavo e dicevo: "Sembra interessante quello che state facendo! Io vengo da Marte e non so niente: che cos'è?". Oggi certi giornalisti non escono mai dall' ufficio. Scrivono gli articoli navigando in internet. Ma non c' è alternativa: bisogna uscire!
Quando dei giovani scrittori o giornalisti mi chiedono un consiglio, cosa che capita raramente, io rispondo sempre: "Esci!"».


IL PANE

  Maurizio Di Fazio per il  “Fatto quotidiano”   STORIA DEL PANE. UN VIAGGIO DALL’ODISSEA ALLE GUERRE DEL XXI SECOLO Da Omero che ci eternò ...