sabato 21 ottobre 2017

Il fallimento neo-ottomano

Il fallimento neo-ottomano

Per far cosa gradita ai loro lettori, gli atlanti europei e americani dell’Ottocento designavano come «Turchia» le terre dell’Impero ottomano, da dove, però, quel termine era bandito. «Turco» si riferiva infatti a un insieme di orde nomadi originarie di una regione indistinta tra il lago Bajkal e i monti Altai, a nord della Mongolia: niente di cui poter menare vanto.
La parola venne riscattata dal movimento che prese provocatoriamente il nome di «Giovani Turchi». La loro rivoluzione, nel 1908, segnò la fine di uno Stato multinazionale che era nato poco più di seicento anni prima. Certo, l’Impero ottomano fu poi schiantato dalla sconfitta nella Prima guerra mondiale, ma il tarlo della sua distruzione era stato inoculato da quel nazionalismo turco che aspirava, come tutti i nazionalismi, a una nazione omogenea, etnicamente, culturalmente e religiosamente pura.
Quando poi, nel 1922, il generale Mustafa Kemal vinse per la prima volta una guerra dopo secoli di continue sconfitte delle armate ottomane, si guadagnò il titolo di Atatürk — padre dei turchi — e si diede da fare, spesso con metodi assai sbrigativi, per dare al suo Paese una nuo- va identità. E volle che fosse un’identità europea.
In realtà alcuni storici insistono sul fatto che l’Impero ottomano avrebbe sempre avuto un’impronta politica più europea che asiatica. La loro prima capitale fu creata al momento dell’arrivo nei Balcani, a Edirne (l’antica Adrianopoli), nel 1371; quando Costantinopoli fu conquistata, Mehmet II assunse il titolo di «imperatore romano», e per i trecento anni a seguire l’obiettivo ottomano fu la valle del Danubio, fino alla sua porta politica: Vienna. Era la sempiterna lotta tra Impero romano d’Oriente e d’Occidente, una gara a chi lo avrebbe, infine, riunificato.
La vocazione europea fu però il solo lascito ottomano raccolto da Atatürk: l’adozione dei codici francesi, dell’alfabeto latino e dello stile politico mussoliniano avrebbero dovuto controbilanciare lo spostamento del baricentro geografico verso l’Asia minore. La scelta della laicità coatta, e l’abolizione del califfato (1924) sono oggi generalmente assunti come la prova che, per espellere la religione dalla politica, basti la volontà. In realtà occorsero avvenimenti storici dalla portata eccezionale per liquidare i residui del passato, facendo però al tempo stesso della religione l’essenza stessa della nuova «turchità»: dopo il massacro degli armeni cristiani, nel 1922 furono cacciati dalla Turchia non i greci, ma i cristiani ortodossi, fossero essi greci o turchi (e la Grecia, dal canto suo, fece lo stesso cacciando i musulmani, fossero essi turchi o greci). I curdi poterono rimanere perché anch’essi musulmani sunniti: ma furono decretati «turchi» ope legis, anzi «turchi delle montagne». Gli alevi, sciiti, salvarono pelle e religione decretando che Atatürk era il Mahdi, il «salvatore» che li aveva liberati dal giogo ottomano. La comunità ebraica fu letteralmente decimata, passando dai 200 mila individui alla fine dell’Impero ai circa 17 mila di oggi. E nel 1942, la laica repubblica promosse una tassa sulla ricchezza applicabile solo ai non musulmani: dopo l’Editto di Gülhane del 1839, che stabiliva l’uguaglianza giuridica di tutti i soggetti ottomani indipendentemente da razza e religione, era la prima volta che veniva praticata ufficialmente una discriminazione sulla base della fede.
Il ritorno della religione nella lotta politica fu una caratteristica, in Turchia come in molti altri Paesi, e non solo musulmani (si pensi al caso dell’India), degli anni Ottanta. Come per molti altri Paesi, la ragione principale si trova nei processi di urbanizzazione, che hanno portato in pochissimi anni milioni di contadini profondamente religiosi nel cuore di città secolarizzate dall’alto. In Turchia, quel ritorno fu rappresentato prima, con molta circospezione, da Turgut Özal; poi, fin troppo spavaldamente, da Necmettin Erbakan, destituito da un ennesimo colpo di Stato nel 1997; e infine, dal 2003, da Recep Tayyip Erdogan. Anzi, per essere precisi, da Ahmet Davutoglu, un professore di scienze politiche poliglotta (parla inglese, tedesco, arabo e malese), vero cervello strategico dell’Akp, il partito di Erdogan.
A Davutoglu è stata attribuita l’ambizione del neo-ottomanismo, cioè il progetto di ricostruire l’Impero ottomano. Ma è un errore. Il concetto di «profondità strategica» di colui che diventerà ministro degli Esteri e poi primo ministro di Erdogan era molto più articolato e ambizioso: si trattava di raccogliere nientemeno che l’insieme delle eredità geopolitiche turche per farne la base composita della nuova identità – e delle nuove aspirazioni – del Paese nel XXI secolo. E di eredità geopolitiche, la Turchia, è particolarmente ricca. Non solo quella ottomana, ma anche quella repubblicana di Atatürk, quella del califfato (in mani turche per quattro secoli), quella dei popoli turchi rimasti in Asia (e successivamente inglobati in Cina e nella Russia imperiale), il tutto imperniato sull’eredità europea e sul decisivo legame contratto con gli Stati Uniti durante la guerra fredda. Si trattava, in altri termini, di esplorare, e sfruttare, tutte le dimensioni dell’esperienza storica turca, dai monti Altai fino al successo elettorale dell’Akp.
Era certamente di un programma ambizioso e non privo di rischi, che solo l’Akp, in quanto partito nazionale, popolare e religioso, avrebbe potuto immaginare. Ma le condizioni di quel programma erano state create da un lato dalla nuova situazione internazionale dopo il crollo dell’Unione Sovietica, quando il capitale geopolitico della Turchia si era improvvisamente svalutato; e, dall’altro, dalla crescita economica, che proprio sotto i primi dieci anni di governo Erdogan aveva accelerato fino a diventare, di gran lunga, la più dinamica di tutta l’area Europa-Mediterraneo.
L’ingresso di Ankara nell’Unione Europea era la chiave di volta di quel progetto. Per giungervi, il Paese affrontò una mutazione radicale della propria identità kemalista: abolendo la pena di morte, avviando trattative di pace coi curdi e contatti con l’Armenia, sostenendo la riunificazione di Cipro ed escludendo i militari dalla vita politica. Si trattava di passi verso l’Europa, certo, ma anche di un recupero della tradizione ottomana, quando convivevano nel Paese turchi, curdi, armeni e greci. Il lato «religioso» del programma non era solo l’obbligato pedaggio da pagare all’elettorato anatolico, ma anche l’apertura di canali di comunicazione al di là dell’area ex-ottomana e dell’Asia centrale turcofona. Quella turca era una success story da proporre come modello vincente, per rivitalizzare l’orgoglio musulmano, in opposizione ai catastrofici esempi offerti da altri Paesi islamici allo sfascio o in preda a sanguinose e interminabili guerre settarie.
Poi, il crollo. Prima il referendum francese del 2005, che notificò ai turchi che mai sarebbero entrati in Europa. Poi la sconfitta delle primavere arabe, che al modello turco si erano ispirate. Da allora, la Turchia di Erdogan è entrata nel buio strategico, e anche il suo ideologo, Ahmet Davutoglu, è stato congedato. La repubblica è stata trasformata in autocrazia personale ma, privo di orizzonti, il suo presidente ha dovuto appoggiarsi sull’esercito per potersene appropriare. Quel che è seguito è cronaca.
Il pegno da pagare ai militari è stato la ripresa – inopinata e catastrofica – della guerra contro i curdi, accompagnata da una gestione sconsiderata della crisi in Siria. Col risultato che, se nel 2014 non c’era stato nessun attentato in Turchia, nel 2015 ce ne sono stati sei, con 343 vittime, e nel 2016 ventidue, con 371 vittime. E poi c’è stato il tentativo di golpe: molto probabilmente un’estrema resistenza dei militari ostili all’accordo con Erdogan, che ha permesso a quest’ultimo di rinsaldare i suoi legami con i loro rivali nell’esercito.
La «profondità strategica» della Turchia è diventata «nullità strategica». Il Paese ora è rimasto senza prospettive, né neo-ottomane, né di altro genere. Salvo, probabilmente, una: quella di diventare un altro Pakistan piantato nel mezzo del Mediterraneo.

Nessun commento:

Posta un commento

IL PANE

  Maurizio Di Fazio per il  “Fatto quotidiano”   STORIA DEL PANE. UN VIAGGIO DALL’ODISSEA ALLE GUERRE DEL XXI SECOLO Da Omero che ci eternò ...