domenica 18 giugno 2017

Cristiani e non

Camillo Langone - il Giornale
Dio sarà anche lo stesso ma le religioni, ossia le forme pubbliche della fede in Dio, sono tutte diverse. 

Cristianesimo e islamismo, in particolare, e nonostante i vaniloqui sul comune padre Abramo, per certi versi sono addirittura agli antipodi. Lo dimostra la telefonata intercorsa tra Papa Francesco e i famigliari del povero James Foley. La madre del giornalista americano decapitato in Irak, cattolicissima come il marito e come il figlio che aveva studiato in un'università di gesuiti e si era sostenuto durante la lunga prigionia recitando il rosario, non ha gridato parole di vendetta come tradizionalmente accade nel mondo musulmano quando viene uccisa una persona cara. E non perché la signora Foley è buona e le madri musulmane sono cattive ma perché la signora Foley è figlia del Vangelo, che insegna il perdono, e le madri musulmane sono figlie del Corano, che esorta alla vendetta.
Non ci credete? Pensate che io sia un islamofobo ottuso? Che parli sulla base di pregiudizi? Allora andatevi a leggere la Sura della Vacca che poi sarebbe il secondo capitolo del loro testo sacro: «In materia di omicidio v'è prescritta la legge del taglione: libero per libero, schiavo per schiavo, donna per donna». L'esatto contrario del porgere l'altra guancia e, già che ci siamo, un ottimo modo per giustificare, con la scusa di Allah clemente e misericordioso, l'inferiorità delle donne e la schiavitù dei vinti. E qualcuno ha ancora il coraggio di dire che le religioni sono tutte uguali? Che si informi, che studi.
Proprio una telefonata interessantissima quella tra Papa Francesco e i Foley. Il Santo Padre, informa la sala stampa vaticana, «è rimasto molto impressionato dalla grande fede della madre». Impressionante davvero perché i cattolici sono ormai in maggioranza ipocredenti. Credono grosso modo tutti nell'esistenza di Dio, e ci mancherebbe, molto meno in dogmi fondamentali come la transustanziazione, parola impronunciabile ma realtà indispensabile: la presenza reale di Cristo nell'ostia consacrata. Dal punto di vista dogmatico la Chiesa è talmente un colabrodo che un aspirante cardinale (Ravasi, tanto per far nomi) può scrivere in un articolo di dubitare della resurrezione, ossia della veridicità dei Vangeli, e poi ricevere la berretta rossa come se niente fosse.
Chiunque come me vada a messa tutte le domeniche non può non riscontrare che i sacerdoti quando leggono il messale sembrano avere una fede granitica, mentre quando improvvisano al pulpito, durante la predica, appaiono incerti, dubbiosi, tiepidi. Quindi ha davvero del miracoloso che una madre a cui è stato appena sgozzato il primogenito abbia conservato una fede talmente solida da consentirle di affrontare un simile, tragicissimo evento senza maledire l'universo mondo. Ne avrebbe avuto ben donde, la signora Foley, ma non l'ha fatto. «Mi ha ricordato Gesù», ha detto del figlio dopo averlo visto in quell'orribile video. Ecco la grandezza del cristianesimo, capace di fornire un senso e alimentare una speranza (la speranza di quella resurrezione che non convince troppo Ravasi) perfino nella peggiore delle disgrazie. Avrebbe potuto dire qualsiasi terribile cosa questa madre americana e noi l'avremmo capita, giustificata.
Oppure avrebbe potuto molto semplicemente confrontare il messaggio di Cristo con quello di Maometto. «Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori», dice il primo. «Uccideteli ovunque li incontriate», scrisse il secondo. Ma non ha fatto nemmeno questo e allora lo faccio io, che sono meno buono e più polemico di lei. Il padre (Papa Francesco ha parlato con entrambi i genitori) ha definito il figlio «un martire della libertà». E anche lui ha perfettamente ragione, definizione più giusta non si poteva trovare. Una telefonata molto impegnativa, quella tra il Papa e questi formidabili signori: perché adesso ci tocca cercare di essere degni di cristiani così.

Cina

Maurizio Molinari per 'La Stampa'


Se siete un imprenditore europeo, un ferroviere africano, un commerciante asiatico o uno spedizioniere mediorientale c' è un' alta probabilità che negli ultimi tempi vi siate imbattuti nel «One Belt, One Road» ovvero il biglietto da visita della Repubblica popolare cinese impegnata a costruire un' ambiziosa rete di scambi per ridisegnare gli equilibri geoeconomici del Pianeta.

«Belt» e «Road» sono le declinazioni terrestre e marittima della nuova Via della Seta frutto dell' iniziativa commerciale lanciata dal presidente Xi Jinping attraverso spazi che sommano il 63 per cento della popolazione mondiale e il 29 per cento della ricchezza globale. La «Belt» si estende dall' Estremo Oriente all' Atlantico attraversando l' Eurasia con ferrovie, ponti e strade mentre la «Road» corre con porti, navi e canali lungo le rotte dell' Oceano Indiano, dell' Africa Orientale fino a raggiungere il Mediterraneo.

La scommessa di Xi è di sfruttare «One Belt, One Road» (Una Cintura, Una Strada) per innescare più cambiamenti favorevoli a Pechino.
Innanzitutto, sul fronte interno, promuovendo lo sviluppo delle regioni più povere - Ningxia, Qinghai, Yunnan e Xinjiang - e moltiplicando le commesse per i giganti statali indebitati come anche gli acquisti del materiale per costruzioni che il mercato nazionale non riesce più a consumare.

In secondo luogo, con l' affermazione di un nuovo sistema finanziario internazionale dell' Eurasia, i cui primi segnali vengono dalla Banca di investimenti per le infrastrutture in Asia, di base a Pechino, e dalla «New Development Bank» condivisa dai Paesi «Brics» (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica).

E infine, ma non per importanza, sul piano geopolitico perché la miriade di accordi commerciali e finanziari siglati trasformano Pechino in un partner privilegiato delle nazioni di Asia del Sud, Medio Oriente, Asia Centrale, Africa ed Europa oltre ovviamente della Russia. Se finora la rete di alleanze di Pechino ruotava attorno a due gruppi multilaterali (Brics e Organizzazione della Conferenza di Shanghai) adesso, a quattro anni dal debutto di «One Belt, One Road» include legami solidi, bilaterali, con centinaia di imprese di dozzine di Paesi, dal Corno d' Africa al Bosforo, da Samarcanda a Kiel, che assicurano alla Cina una rete a tal punto estesa e ricca da competere con gli Stati Uniti.

Il terreno dove tale sfida è più evidente è l' Africa perché dal 2000 al 2015 la Cina vi ha distribuito prestiti bancari per 63 miliardi di dollari a ben 54 nazioni mentre gli Stati Uniti si sono fermati a 1,7 miliardi di dollari ad appena 5 nazioni. Cinese è la ferrovia che dall' Oceano Indiano raggiungerà Nairobi, con estensioni fino a Uganda e Ruanda, così come cinesi sono strade e atenei in Liberia, miniere in Ghana e almeno 100 mila immigrati in Zambia.

Chiunque ha a che fare con inviati e imprese cinesi li descrive come molto determinati ad assicurarsi vantaggi, poco inclini ai compromessi, capaci di grandi fatiche ed al contempo attenti ad evitare coinvolgimenti in crisi politiche, conflitti locali e guerre regionali. Fanno business con tutti senza schierarsi con nessuno perché la priorità sono i loro interessi nazionali: far crescere la Cina con materie prime, lavoro, infrastrutture ed alta tecnologia. Insomma, in qualunque modo.

E' quest' offensiva cinese che bussa ora alle porte dell' Europa perché «One Belt, One Road» è arrivata ormai su Baltico e Mediterraneo, puntando all' Atlantico. Germania, Francia e Italia guidano la classifica dei destinatari di investimenti cinesi nell' Ue ed il Consiglio europeo potrebbe pronunciarsi in settimana su una clausola decisiva ovvero assegnare a Bruxelles il potere di restringere le acquisizioni di aziende strategiche da parte di stranieri.

La questione riguarda Pechino perché sono proprio le sue società a puntare all' acquisto di compagnie europee, di alta tecnologia o nelle infrastrutture, che sono tasselli della sicurezza nazionale. Il presidente francese Emmanuel Macron è il leader che più sostiene questa clausola protezionista, dimostrando prudenza davanti all' offensiva del Dragone. Resta da vedere cosa farà la Germania di Angela Merkel, partner privilegiato di Pechino e favorevole ad un accordo di libero commercio Ue-Cina perché convinta che «in questi tempi di incertezza globale» convenga volgere lo sguardo verso Oriente.

venerdì 16 giugno 2017

Ius soli

Vecchia Conversazione di Giovanni Sartori con Dagospia

‘'Un governo di incompetenti guidato da un incompetente''. Quando hai ottant'anni, sei uno dei politologi più stimati e ascoltati di tutto l'Occidente, e in più sei un uomo profondamente libero. Insomma, quando ti chiami Giovanni Sartori e sei pure fiorentino, ti puoi permettere giudizi netti come questo sul primo governo Renzi.

[…] Ha dato un'occhiata ai progetti di Renzi?

"Guardi, mi ha colpito più che altro la sua nuova proposta sullo ius soli, anche se per ora l'ha messa in secondo piano. Come è noto, io sono contrarissimo allo ius soli, ma di tutti i progetti che sono stati tirati fuori su questa materia, quello di Renzi è il più stupido, superficiale, avventato e sconcertante che abbia mai sentito, perché prevede di concedere la cittadinanza italiana a chiunque faccia cinque anni di scuola".

E non bastano?
"Ma davvero vogliamo credere che bastino cinque anni alle elementari per fare un cittadino italiano? Per essere un cittadino italiano devo aver consapevolmente accettato il principio di separazione tra Stato e Chiese e aver rigettato il diritto teocratico o di Allah. Ma come si fa a dare la cittadinanza dopo cinque anni di scuola, senza distinguere se un bambino è islamico?"

Populismo o buonismo?
"No, è irresponsabilità grave. Perché non solo già oggi non sappiamo dove mettere gli immigrati, visto che noi italiani abbiamo ripreso a partire per l'estero alla ricerca di un lavoro, ma concediamo loro tutti i diritti, compresi quelli di voto. E un giorno saranno la maggioranza anche in questo Paese, come ho appena scritto nel mio prossimo libro".

Le nuove atomiche

Paolo Valentino per il “Corriere della Sera”

Più piccole, più precise, più furtive. Ma ancora in grado di provocare l' Apocalisse. Anzi, proprio perché più maneggevoli e per così dire limitate negli effetti, meno impensabili da usare. Una nuova generazione di armi atomiche sta per fare il suo esordio sulla scena globale.

La progressiva obsolescenza degli ordigni attuali, vecchi di decenni, e le nuove strategie militari, fondate su difese anti-aeree sempre più sofisticate e impenetrabili, spingono le grandi potenze nucleari al più massiccio e radicale rinnovamento dei loro arsenali dell' ultimo mezzo secolo.

Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna (i 5 Paesi che posseggono ufficialmente la Bomba) sono già di fatto dentro una modernizzazione, che punta a garantirsi, da qui al 2080, dotazioni «sicure, protette e affidabili». Quanto alle potenze non dichiarate - India, Pakistan, Israele e Corea del Nord - anche loro stanno sviluppando nuove capacità «tattiche» diversificate, che le mettono potenzialmente in grado di usarle nei teatri regionali.

Diciamolo diversamente. Nel momento in cui le Nazioni Unite lanciano a Vienna i primi negoziati per un nuovo Trattato di interdizione pura e semplice degli armamenti atomici, le nazioni che li posseggono stanno per investire massicciamente in una nuova generazione di ordigni, che ricorda i periodi più bui della Guerra Fredda e che per i suoi contenuti tecnologici e le dottrine che la sottendono rischia di alterare il cosiddetto «equilibrio del terrore», con il paradosso di rendere più plausibile l' ipotesi di una guerra termonucleare.

Nessuno può dirsi innocente, in quella che viene definita la terza era atomica, dopo la prima della «distruzione reciproca assicurata» e la seconda del timido disarmo a cavallo del Millennio. Non la Russia di Vladimir Putin, che cerca di compensare il declino economico mantenendo una relativa parità strategica con gli Stati Uniti.

Non l' America, già quella di Barack Obama e ancor più quella al testosterone di Donald Trump, decisa a investire l' incredibile cifra di 1.000 miliardi di dollari in 30 anni in un ambizioso rinnovamento della propria panoplia nucleare. E non è innocente la Cina, impegnata ad assumere in pieno il ruolo di Superpotenza, guardando agli Usa come benchmark del proprio avanzamento tecnologico.

Tra quelle installate su missili e quelle nei silos, secondo i dati dell' International Peace Research Institute (Sipri) di Stoccolma, gli Usa nel 2016 contavano 7 mila testate nucleari. Arrivato al potere nel 2009 con la promessa di un mondo libero dalle armi nucleari, Barack Obama ha finito per lanciare un programma di modernizzazione, che il presidente del Sipri, Hans Kristensen, giudica in «netto contrasto con l' impegno a ridurre il ruolo della componente atomica nella strategia di sicurezza americana».

L' Amministrazione Trump lo ha immediatamente fatto proprio. Esso prevede interventi sull' intera triade terrestre, aerotrasportata e sottomarina: la sostituzione di 14 sommergibili lanciatori della classe Ohio, l' aggiornamento dei bombardieri B-52 e B-2 in servizio e lo sviluppo di un nuovo B-21 con tecnologia stealth, l' ammodernamento dei sistemi Trident D-5 e Minuteman III.


Ancora, il completamento dei sistemi spaziali d' allerta avanzata e nuove strutture di comando e controllo. Il primo gioiello di questo nuovo arsenale è la bomba da crociera B61-12, in grado di essere armata con testata nucleare o convenzionale, a potenza variabile e altissima precisione. Proprio contro la B61-12, che secondo il Pentagono rimpiazzerà 4 diversi tipi di bombe riducendone quindi il numero complessivo, si sono appuntate le critiche di una fonte insospettabile.

Secondo William Perry, che fu ministro della Difesa nell' Amministrazione Clinton, si tratta infatti di un' arma «costosa, non necessaria e particolarmente destabilizzante», proprio perché può essere armata sia con testata nucleare che convenzionale: «Un nemico sotto attacco tende sempre a immaginare il peggio e potrebbe rispondere con le atomiche a un attacco convenzionale».

Con 7.290 testate nucleari in totale, sempre dati del 2016, Mosca dispone del più grande arsenale nucleare del pianeta, ancorché non il più moderno. Putin ha confermato il ruolo della componente atomica nella dottrina militare russa, diversificando le opzioni quanto all' uso e puntando allo sviluppo di sistemi duali, cioè in grado di essere armati sia in modo nucleare che convenzionale, a seconda delle necessità. Secondo Kristensen, la Russia si trova «a metà strada di una vasta modernizzazione, che porrà nuove sfide alla comunità del controllo internazionale delle armi».

Al cuore del programma, i nuovi SS-27-2 o Yars, missili intercontinentali che possono portare fino a 4 testate Mirv, cioè in grado di rientrare separatamente nell' atmosfera e puntare a diversi obiettivi. Secondo gli Stati Uniti, questi sistemi sono in violazione dei limiti del New Start, il trattato firmato da Usa e Russia a Praga nel 2010, che fra le altre cose proibisce le testate multiple. I russi potrebbero però ridurre le cariche, teoricamente rispettando gli accordi. Altre armi sono in corso di sviluppo: gli SS-30 Sarmat, i «Figli di Satana» nel linguaggio della Nato, a dieci testate; una nuova generazione di sottomarini lanciatori in sostituzione degli 11 attualmente in servizio; la modernizzazione dei bombardieri Tu-160 e Tu-95MS.

Pechino, che nel 2016 disponeva di 250 testate nucleari, punta ad aumentare decisamente la sua dotazione. Ambizioni globali, la volontà di avvinarsi agli Usa almeno sul piano tecnologico, la concorrenza dei vicini India e Russia, le preoccupazioni dettate dall' incontrollabile «alleato» nordcoreano spingono la dirigenza cinese a massicci investimenti in ricerca e sviluppo nei sistemi iper-veloci, cioè missili in grado di rientrare dallo spazio a velocità supersonica.

La Cina sostituirà i suoi vettori a testata unica con una nuova generazione a testata multipla e propulsione solida. Il volume delle somme impegnate dai cinesi è sconosciuto, ma i programmi appaiono giganteschi. I nuovi sottomarini lanciatori, successori della classe Triomphant, dovrebbero entrare in servizio tra 2035 e il 2048.

Nel frattempo Parigi modernizzerà i suoi missili intercontinentali M51 e gli ASMP a gittata media aerotrasportati dai Rafale. Quest' ultimi saranno sostituiti entro il 2040, così come la portaerei Charles de Gaulle . La Francia continuerà tuttavia a limitare a 300 (il livello attuale) il numero delle testate atomiche in suo possesso.
Londra possedeva un anno fa 215 testate nucleari. Il governo britannico ha annunciato la costruzione di 4 nuovi sottomarini nucleari, in sostituzione di quelli della classe Vanguard, per far fronte all'«aumento degli avversari potenziali e alla modernizzazione delle loro forze». L' investimento è di 46 miliardi di euro.

Trasporteranno ancora i missili Trident. Il quadro geopolitico non promette nulla di buono. La forte accelerazione del programma nucleare della Corea del Nord introduce un ulteriore elemento di incertezza. Di più, se l' Amministrazione Trump dovesse denunciare l' accordo che impegna l' Iran a rinunciare per oltre 10 anni alla bomba, Teheran non si sentirebbe più vincolata a rispettarlo e questo potrebbe far partire un' inedita corsa all' atomica in Medio Oriente, aggiungendo ulteriore instabilità.

Ma a rendere realistica la prospettiva di una nuova corsa al riarmo è soprattutto il clima di tensione prodotto dalla nuova assertività della Russia di Putin, iniziata con la crisi dell' Ucraina e l' annessione della Crimea, cui fa riscontro un atteggiamento non sempre distensivo della Nato, troppo concentrata su una «minaccia russa» sul fronte Est, più percepita che reale.


Ancora più allarmante è che ogni revisione di una parte rischia di essere percepita come segnale della necessità di nuovi investimenti da un' altra e che addirittura altri Paesi (oggi privi, ma tecnologicamente in grado di farlo) siano tentati di dotarsi dell' arma nucleare, dalla Germania, al Giappone, all' Arabia Saudita.

giovedì 15 giugno 2017

Albert Speer

Paolo Valentino per il “Corriere della Sera”

Il 1° ottobre 1966, dopo venti anni di prigionia, le porte del carcere di Spandau, nella sezione occidentale di Berlino, si aprirono per Albert Speer. Architetto del regime nazista, amico intimo di Hitler, ministro degli Armamenti e della Produzione bellica del Terzo Reich durante la Seconda guerra mondiale, Speer aveva abilmente evitato la condanna a morte al Processo di Norimberga, assumendosi una generica responsabilità storica e ammettendo di aver subito il fascino del Führer, ma negando di esser mai stato a conoscenza dei crimini di guerra nazional-socialisti, tantomeno dello sterminio degli ebrei.

Accolto come una rockstar da una folla di fotografi e inviati dei media di tutto il mondo, in quell' autunno di mezzo secolo fa Speer iniziò una seconda carriera di testimone oculare del suo tempo, autore di bestseller mondiali, ospite di convegni e trasmissioni televisive, corteggiato dai circoli intellettuali.

Nella Germania del Dopoguerra che faceva ancora conti sommari con il passato nazista, preferendo rimuoverlo, si credeva volentieri a quel signore alto, elegante e colto, la cui narrazione in apparenza sincera sembrava aiutare l'auto-assoluzione di un'intera generazione. «Ha mai sentito il nome Auschwitz?», gli chiese in una celebre intervista Joachim Fest, lo storico che ne raccolse le memorie e uno dei tanti che accettarono per buona la «verità» di Speer. «Non l'ho mai sentito direttamente», fu la risposta.
  
Speer morì nel suo letto, ormai celebrità internazionale, nel 1981. Ma ci volle più di un decennio perché la sua leggenda fosse completamente smascherata e venissero alla luce le sue enormi responsabilità nei crimini del nazismo, incluso il pieno coinvolgimento personale nell' organizzazione dell' Olocausto.

Una prova per tutte, oggi ampiamente documentata, la riunione del 15 settembre 1942, nella quale il ministro per gli Armamenti e la Produzione bellica autorizzò personalmente il progetto del lager di Auschwitz-Birkenau, al costo di 13,7 milioni di Reichsmark, compresa la costruzione dei luoghi per i «trattamenti particolari», parole in codice per camere a gas e forni crematori.

Di più, altri documenti venuti alla luce negli anni Novanta comprovano che due assistenti di Speer lo tennero costantemente informato dell' avanzamento dei lavori nel più conosciuto lager nazista; che egli visitò personalmente il campo di Mauthausen e infine che, a differenza di quanto sostenne a Norimberga dove rovesciò la colpa su Fritz Sauckel, fu proprio sua l' idea di usare il lavoro degli schiavi-ebrei nelle fabbriche sotterranee di Mittelbau-Dora, dove si costruivano le V-2.

Ma come fu possibile che il «racconto» autoassolutorio di Albert Speer rimanesse non controverso per così tanto tempo? Come si spiega che così tanti tedeschi abbiano accettato così a lungo la sua verità, anche dopo che una rigorosa ricerca storica l' aveva confutata?

È intorno a queste domande che ruota la mostra aperta fino alla fine di novembre al Doku-Zentrum di Norimberga. Il luogo dell' allestimento non poteva essere più adatto: il Centro di documentazione bavarese è infatti ospitato nel monumentale complesso che proprio Speer progettò per i congressi del partito nazional-socialista e dove il Reich millenario inscenava la propria megalomania.

Curata da Martina Christmeier e Alexander Schmidt, la mostra di Norimberga percorre con filmati, fotografie, documenti e installazioni tutta l' autorappresentazione «speeriana» dopo il 1945. C' è il suo show da tecnocrate impolitico a Norimberga, il cinismo con cui rovescia su altri la responsabilità di decisioni sue. Viene alla luce la rete informale di amici e familiari sulla quale poté contare in Germania durante e dopo i vent' anni di prigionia e che fu determinante per ripulire le tracce del suo coinvolgimento: fra gli altri, i documenti che dimostrano come Rudolf Wolters, un suo ex assistente, eliminò dai diari del maestro ogni passaggio compromettente, prima di consegnarne degli «originali» rifatti agli archivi federali.

«Quella di Speer - spiega Alexander Schmidt - fu una sistematica operazione di falsificazione della storia. Perfino nelle Memorie , che lui non scrive ma detta a Joachim Fest e all' editore Wolf Jobst Siedler, i quali probabilmente lo "aiutano" a ricordare, nulla è autentico, tutto è ricostruito in modo a lui favorevole».

Un lavoro molto accurato venne fatto, per esempio, per nascondere la partecipazione di Speer alla famosa riunione di Himmler con i Gauleiter dell' ottobre 1943 a Poznan, in Polonia, quella in cui il capo delle SS disse chiaramente e senza eufemismi che tutti gli ebrei dovevano essere uccisi. In realtà il ministro per gli Armamenti e la Produzione bellica non solo vi prese parte, ma ebbe anche una lunga conversazione con Himmler.
Eppure, le giustificazioni di Speer vennero pienamente accettate in Germania, mentre era ancora in vita.

Perché? «Perché era quello che i tedeschi volevano sentire - spiega Schmidt -, se perfino lui, che era nel cerchio magico di Hitler e una delle figure di punta del Reich, non sapeva cosa stesse succedendo, allora chiunque altro poteva dire in coscienza "anch' io non ne sapevo nulla".

Il suo racconto assolveva l' intera società tedesca, dopo il 1966 il ruolo di Speer è stato nefasto nel confronto della Germania con il passato nazional-socialista». Non poco contribuirono il suo carisma, la sua cultura, la bella presenza, la rassicurante immagine borghese che faceva a pugni con l' iconografia bovina e criminale dei nazisti.


Con la mostra di Norimberga cala probabilmente in modo definitivo il sipario su una delle personalità più significative e controverse del regime hitleriano. Sfatate le troppe menzogne, l' architetto Albert Speer emerge come uno dei principali colpevoli dell' universo criminale nazista. Ma è troppo tardi. Se i giudici di Norimberga avessero saputo allora ciò che sappiamo oggi, sicuramente lo avrebbero mandato a morte.

mercoledì 14 giugno 2017

Psicoanalisi

Aristofane inventò la psicoanalisi 

Mauro Bonazzi
«Adesso sdraiati qui e tira fuori qualche pensiero sui casi tuoi». Si ripete sempre che la psicoanalisi è nata alla fine dell’Ottocento, quando Sigmund Freud iniziò a esaminare le sue pazienti, distese sul famoso divano. Ma se questo è il gesto che inaugura la psicoanalisi, allora tutto è cominciato prima, molto prima.
Nel marzo del 423 a.C. gli Ateniesi si ritrovarono a teatro per assistere alla nuova commedia di Aristofane, le Nuvole. La storia, eternamente uguale a se stessa, è quella di un padre che non sa come fare per sbarcare il lunario, con una moglie poco propensa al risparmio (ma viene dalla società bene, lei, mentre il marito è un contadino inurbato), un figlio scapestrato (tutto la madre) e tanti creditori che lo assillano. È l’alba, il momento dei pensieri più angosciosi e delle intuizioni più ardite. Corre voce di un sapientone, si chiama Socrate, che aiuta a risolvere i problemi, insegnando come fregare gli altri. Ecco chi lo salverà! Strepsiade si precipita da Socrate, che lo guarda dubbioso: prima lo vuole conoscere, e Strepsiade deve conoscere se stesso. C’è un lettino nel suo pensatoio, pieno di cimici e pidocchi, ma pur sempre un lettino: Strepsiade è invitato a sdraiarsi e ad aprirsi al maestro (è il verso citato all’inizio). La psicoanalisi è nata quel giorno, all’ombra dell’Acropoli di Atene.
Una battuta? Di quelle che nascondono un grano di verità, però. La scoperta di Freud, che scandalizzò l’Europa, fu che non siamo quello che pensiamo di essere. Ci crediamo razionali e morali; invece siamo un calderone ribollente di passioni, impulsi, istinti di cui non siamo neppure consapevoli. Questo è, precisamente, quello che il Socrate di Aristofane rivelava ai suoi malcapitati pazienti. Strepsiade, poveretto, è troppo stupido per seguire. Ma suo figlio, Fidippide, capisce, e in fretta: pensiamo di essere superiori, ma ci sono davvero differenze tra noi e gli animali? Non inseguiamo le stesse cose – sesso, sesso, e ancora sesso? («c’est le sexe, toujours le sexe», spiegava Charcot, uno dei maestri di Freud). E cosa sono le leggi o la morale, se non dei tentativi di contenere la nostra natura profonda? Ostacoli, insomma, che ci impediscono di inseguire i nostri bisogni, condannandoci all’infelicità? (E uno legge Il disagio della civiltà ). È ora di cambiare! A partire dal problema dei problemi, la causa di tutti i mali. La guerra di liberazione di Fidippide inizia con il gesto più semplice, quello che – secondo Freud – tutti sognano di fare, fin dalla più tenera età: negare il padre. Il complesso di Edipo. Avrebbe potuto chiamarlo il complesso di Aristofane.
Freud conosceva molto bene il mondo antico. Di Aristofane, però, non parla mai: per nascondere il suo debito? Anche per un’altra ragione.
George Steiner lo ha suggerito con una osservazione fulminante: molte delle nevrosi di cui parla Freud sono spuntate fuori solo dopo che lui ne ha parlato, come profezie che si autoavverano. Che si stesse meglio prima di scoprire l’inconscio? Aristofane, un conoscitore dei nostri abissi, ne era convinto. Davvero occorre portare tutto alla luce? Forse c’è un motivo se in noi sono attivi dei meccanismi che occultano le pulsioni più bestiali, ricacciandole nelle profondità dell’Io. Sul lettino di Socrate Fidippide ha guardato nel suo disordine, recuperando ciò che aveva rimosso. Si è conosciuto per quello che è e ha picchiato suo padre, spiegandogli pure che era giusto farlo. Già «la vita non è facile», come lo stesso Freud una volta ammise: era proprio necessario che Fidippide scoprisse queste cose? Che bella cosa la rimozione! Strepsiade, pentito, bastona Socrate e incendia il pensatoio. Nelle Nuvole Aristofane non solo ha inventato la psicoanalisi: ha anche cercato di affondarla per sempre.
Se non ci è riuscito è perché ad Atene Freud ha trovato un alleato. Si parla di Platone come di uno scrittore composto, sereno, equanime. Ma la sua qualità più bella è la perfidia con cui sa rimettere a posto avversari e rivali – non erano pochi, e per tutti c’è in serbo qualcosa. Aristofane aveva proiettato un’ombra su Socrate, che bisognava vendicare. Nel Simposio il personaggio sarà lui.
È una serata di discorsi in onore di Eros, ma quando arriva il suo turno, Aristofane non riesce a parlare: scoppia in un singhiozzo terribile, incontenibile – saltella, si solletica il naso, starnutisce, ma niente...
Non ci potrebbe essere difesa più brillante della psicoanalisi. Questo singhiozzo irrefrenabile ricorda i tic nervosi delle pazienti di Freud, che erompono tanto più furiosi quanto più si cerca di reprimerli; è il sintomo che rivela il suo punto debole, come la tosse nervosa rivelava quello di Anna O.: che abbia anche lui un problema con amore e sesso? È la risposta di Platone alle domande di Aristofane. Inutile illudersi di nascondere quello che abbiamo dentro, perché tanto viene fuori, in un modo o nell’altro: Aristofane, il moralista spregiudicato, in fondo è come le fragili damigelle della borghesia viennese. Magari la filosofia e la psicoanalisi potrebbero aiutarlo a fare chiarezza dentro di sé, a convivere con i suoi problemi.
Improvvisamente tutto si fa turbinoso. Freud non cita spesso Platone, ma quando lo fa le sorprese non mancano. Come in Al di là del principio di piacere, in cui rievoca le uniche pagine che non ci si sarebbe aspettato: il discorso di Aristofane nel Simposio, quando finalmente si è liberato del singhiozzo. Ma non poteva essere altrimenti perché proprio in quelle parole c’è la risposta ultima ai misteri della nostra esistenza, la rivelazione che dentro di noi la tensione verso la vita è controbilanciata da un oscuro impulso verso la morte. Eros e Thanatos : il ritmo della nostra esistenza è scandito dal conflitto tra queste forze, con una sorpresa finale. A prevalere è la seconda, la nostalgia della quiete, l’inerzia perfetta della materia inorganica. La vita è una tragica anomalia, un’eccezione che va ricomposta; il compimento della libido è il riposo della morte: come appunto insegnava il mito aristofanesco degli uomini disperatamente in cerca dell’unità perduta, che quando ritrovavano la propria metà «si lasciavano morire di fame e di inerzia». La teoria più audace di Freud era stata anticipata dall’Aristofane del Simposio. Era il capolavoro di Platone, il cerchio che si chiude: Aristofane, nemico ostinato, è arruolato tra i grandi della psicoanalisi.
Quando arrivò ad Atene, la reazione di Aristotele fu di sconcerto. La Macedonia era una regione colta, che ospitava poeti e filosofi. Era anche una terra ricca di buon senso. Proprio quello che mancava agli intellettuali ateniesi: raffinati, raffinatissimi, ma anche nevrotici, persi in polemiche, invidie e gelosie. Così Aristotele, figlio di un medico, avrebbe ragionato da scienziato, dissipando come nuvole al vento tutte queste idee sull’anima, l’amore e la morte. Con una sola mossa.
Platone, come Freud e Aristofane, aveva organizzato il suo discorso intorno alla potenza di Eros, riconoscendo in noi la presenza di passioni violente e indomabili. C’è una componente razionale, ovviamente, e diversi tipi di desideri: desideri che possono essere educati, ma anche brame bestiali, con cui è impossibile fare i conti. Il mostro dalle mille teste, scriveva Platone; il calderone di impulsi ribollenti, avrebbe ribattuto Freud.
Il rovesciamento aristotelico è semplice. Ci sono, Platone ha ragione, come tre centri dentro di noi, uno dei quali sordo a qualunque possibilità di controllo. Ma questa «parte» non ha niente a che vedere con l’amore o il sesso: è quella che sovrintende alle funzioni organiche di base – respirazione, digestione, circolazione del sangue. È la vita che trionfa, incurante dei nostri pensieri. Quanto al resto, passioni amorose incluse, tutto può essere corretto, con un po’ di educazione e un po’ di sana attività fisica. Gli psicodrammi di Aristofane e Platone non servono.
È la sfida dei nostri giorni, con medici e scienziati che guadagnano terreno a spese di filosofi e psicologi. Forse avranno anche ragione, gli eredi di Aristotele. Ma non sarebbe fin troppo noioso un mondo privo delle bizzarre teorie dei Platone e dei Freud? Senza dimenticare che tutto è ancora incerto: e se anche filosofi e psicologi avessero le loro ragioni? Sono domande. Peccato che non ci sia più in giro Aristofane per aiutarci a rispondere.

Macron

Francesca Pierantozzi per “il Messaggero”

Filosofo, scrittore, fondatore dell'Università popolare di Caen, Michel Onfray ama buttare giù miti. Anche a costo di passare per iconoclasta o provocatore di mestiere. Se l'è presa tra l'altro con Freud, con l'Occidente di cui ha decretato la morte in Décadence - e adesso piccona Macron. Il suo ultimo saggio appena uscito, La cour des miracles (La corte dei miracoli, Editions de l'Observatoire) - raccolta di ottanta brevi note di politica ha scatenato osanna e repulsione, conquistato le prime pagine di giornali di sinistra e di destra. Macron, dice, è frutto di un complotto: quello del sistema.

Un'estrema minoranza di francesi ha votato domenica per un'estrema maggioranza all'Assemblée Nationale. La democrazia francese ne esce indebolita?
«Più di un francese su due non è andato a votare, cosa che, in una democrazia sana, porterebbe ad annullare i risultati dell'elezionema noi non siamo più una democrazia sana. Emmanuel Macron ha ottenuto meno di un quarto di voti al primo turno. Il sistema organizza in modo perverso l'ascesa di Marine Le Pen per farla arrivare al secondo turno delle presidenziali, e poi la sua criminalizzazione affinché a nessuno venga in mente di votarla sul serio, presentandola come una nazista: in questo modo l'elezione presidenziale si è svolta a un solo turno e il secondo si è trasformato in un plebiscito».

Si annuncia un'opposizione molto debole in parlamento. L'opposizione si farà sentire di più in piazza?
«La metà dei francesi che non ha votato (me compreso) e l'altra grande parte che non ha votato per Macron è arrabbiata. Di sicuro quando arriverà il giorno delle riforme, che per ora il presidente tiene ben nascoste tanto sono popolicide', questi cittadini esigeranno nelle piazze quello che la democrazia non ha saputo garantire con la parodia di consultazione elettorale che è stata l'elezione presidenziale».

Dov'è oggi il popolo francese? Forse non ama Macron e non va a votare, come lei, ma nemmeno vuole sbarrargli la strada votando per qualcun altro.
«Il popolo francese? E' l'incudine su cui batte il martello liberale, da quando i socialisti si sono convertiti con Mitterrand al liberalismo nel 1983. Grazie tante Mitterrand! Quando questo stesso popolo nel 2005 ha detto con un referendum che non voleva più l'Europa liberale e lo Stato maastrichtiano che agisce per conto di quell'Europa come un martello, la destra liberale e la sinistra liberale hanno calpestato il voto degli elettori e hanno imposto il contenuto del testo respinto con un voto all'Assemblée Nationale e al Senato nel 2008: fu il famoso Trattato di Lisbona. I rappresentanti del popolo hanno votato contro il popolo, ma il popolo non ha dimenticato il tradimento».

Come giudica il debutto di Macron, presidente silenzioso' che rivendica uno stile alla Zeus, per restituire dignità e solennità alla funzione?
«Macron è il giocattolo del capitale, che per farlo eleggere gli ha messo a disposizione tutti i suoi strumenti. Macron si prende per Zeus, ma in realtà è soltanto quella che ho definito la bambola gonfiabile del capitale, proprio come Trump. Non è stato messo al suo posto per condurre la sua politica, ma per condurre la politica dell'Europa liberale. Le leggi di Macron sono quelle che auspica e vuole l'Europa dei mercati.

E' stato sostenuto dalle banche, dalla finanza, dai media liberali di destra e di sinistra (abbondantemente sovvenzionate dallo Stato, dunque dai contribuenti), dall'élite parigina, dai pubblicitari, gli start-uppers, dalla borghesia, dai giovani senza cultura e senza memoria, sedotti da un giovanilismo che facilita l'identificazione, sensibili a una comunicazione fondata solo sull'apparenza: non sarà il presidente Zeus, sarà il presidente vassallo. Si prende per de Gaulle, ma è a malapena Pompidou».

MORIRE

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