martedì 20 dicembre 2016

Bizantini, come si adattarono ai barbari

L’arte di adattarsi ai «barbari» fu l’arma segreta dei Bizantini

di Giovanni Brizzi - 04/12/2016

La Lettura - Corriere della Sera


Strutturato secondo un impianto cronologico-narrativo, il volume di Gastone Breccia Lo scudo di Cristo (Laterza) sulle guerre bizantine copre il periodo compreso tra la disfatta subita da Valente ad Adrianopoli (378 d.C.) e il fallito attacco del khan bulgaro Krum contro Costantinopoli (813); i secoli, cioè, che videro l’Impero romano d’Oriente opporsi a successive ondate di invasori sempre diversi, reprimere incursioni e razzie, proteggere i confini e persino riconquistare territori da tempo perduti. Gli aspetti chiave su cui l’autore insiste sono sia la situazione politico-militare dell’Impero, sia la struttura, l’organizzazione e l’impiego dei suoi eserciti. Due i momenti fondamentali: la creazione di un nuovo sistema difensivo da parte di Teodosio I, dopo Adrianopoli, e la grande «riforma tematica» della seconda metà del VII secolo. La prima svolta interessò soltanto le forze armate; la seconda trasformò completamente lo Stato.
Dal punto di vista strategico la Nuova Roma poté giovarsi della posizione centrale della sua inespugnabile capitale. Come si sarebbe poi visto, fino a che questa sopravviveva, sopravviveva l’Impero… Da Costantinopoli, per linee interne, le forze scelte di riserva potevano raggiungere in fretta, lungo buone strade, i territori sotto attacco. Paradossalmente, però, quella centralità era anche un elemento di debolezza, poiché la più splendida delle città esercitava, nei confronti degli invasori, un’irresistibile attrazione; sicché le forze imperiali potevano trovarsi a fronteggiare attacchi simultanei dalle opposte frontiere, nel settore balcanico-danubiano e in quello mesopotamico.
Tra gli elementi più interessanti emersi dallo studio delle fonti figura la riflessione teorica sui vari aspetti dell’arte bellica. Se non si può parlare di una manualistica strategica in senso moderno, emerge però l’elaborazione di norme tattiche flessibili: vengono codificati i diversi tipi di schieramento e manovra, viene ribadito un principio che rappresenta una parziale rottura col passato e, insieme, una valida alternativa, quello di «adattarsi al nemico», analizzando i punti di forza e debolezza di ogni «barbaro» per contrastarli o sfruttarli a proprio vantaggio. Le legioni della prima Roma tendevano ad imporre il loro modo di combattere, confidando in una superiorità che credevano assoluta; le armate d’Oriente, spesso inferiori di numero, debbono invece di volta in volta adattarsi, utilizzando formazioni differenti.
Dal punto di vista tattico i secoli dal IV al IX vedono una trasformazione completa dell’arte bellica. Dalle grandi armate di fanteria pesante dell’antica Roma si passa a eserciti più snelli, compresi in genere tra i 15 e i 20 mila effettivi. L’esercito di Costantinopoli resta però, nel suo momento migliore, una forza basata, come quelle antiche, sull’impiego coordinato di specialità diverse, che affianca fanti e cavalieri, «portatori di scudo» pesantemente armati, adatti allo scontro frontale e alla difesa di postazioni fisse, ai cavalleggeri unni, formidabili nella ricognizione e nelle imboscate, e agli hippotoxotai , gli arcieri a cavallo tratti soprattutto da Anatolia e Tracia, e dispone persino di un’artiglieria da campo e di sistemi di segnalazione acustica e visiva. Celebri restano le imprese di riconquista volute da Giustiniano, quella africana contro i Vandali del 533, che (contro ogni aspettativa) si risolse in una sorta di «guerra lampo»; e quella, ben più lunga e difficile (535-553), contro i Goti in Italia.
Giustificate con l’intento di ripristinare l’ orbis Romanus et christianus , le guerre per la restauratio imperii dimostrarono la forza delle armate orientali. Giustiniano sconfisse «gli unici popoli che, fino a quel momento, erano riusciti a insediarsi nei territori romani», perché «gli eserciti e le flotte coordinate da Costantinopoli avevano dato un’impressionante dimostrazione di forza militare», ma non riuscì «a garantire ai suoi sudditi il bene più prezioso, “la dolcezza della pace”».
Questo ci porta ad un’ultima considerazione: benché sempre più militarizzato , l’impero non diventò mai militarista . Pur costretto a combattere guerre incessanti, utilizzando fino al 95 per cento delle proprie risorse per le spese belliche, lo Stato romano e cristiano non elaborò mai, a sostegno di questo sforzo immane, un’ideologia positiva della guerra, che rimase il peggiore dei mali, da evitare ad ogni costo, facendo ricorso anche alla corruzione o al tradimento, all’assassinio mirato o al pagamento di tributi… Solo eccezionalmente la guerra venne vista come una «missione» dai connotati religiosi: Eraclio, quando l’Impero era sull’orlo della catastrofe, fece appello anche alla fede per respingere un nemico «alieno» al cristianesimo, ma solo perché era in gioco la sopravvivenza della res publica . La guerra fu sempre, altrimenti, un disvalore, che solo i popoli «barbari» affrontavano con gioia.
L’eccellente saggio di Breccia raggiunge appieno entrambi gli scopi che si prefigge. Destinato non solo agli specialisti (il linguaggio è di esemplare chiarezza), è scritto per raggiungere (e raggiungerà, io spero…) un vasto pubblico; e riesce a confutare la communis opinio secondo cui «la Roma che non cadde» (Williams-Friell) avrebbe avuto in sé e nei suoi ordinamenti militari i caratteri della «decadenza». La fine della prima Roma si deve «all’emergere di un differente tipo di cultura e di vita» (Gabba). Con tale modello Costantinopoli e l’Impero orientale, in fondo, si identificavano; sicché sopravvissero...

I Fugger


Le penne nei calamai, qualche pergamena in disordine, la sedia discosta dalla scrivania come se il patron si fosse appena assentato dall’ufficio. Ma in effetti Herr Fugger è via da cinque secoli. Ad Almagro, in Spagna, ne hanno ricostruito lo studio dentro il palazzo gentilizio che fu una delle innumerevoli filiali europee della più potente dinastia plutocratica del Rinascimento e forse non solo.

Inventori della finanza moderna o clan di lobbysti, tangentari e pescecani affamapopolo? Prima multinazionale o Spectre politico-affaristica? Spietati mercatisti o antesignani di un’imprenditoria dal cuoricino sociale?

Da vivi come da morti i Fugger hanno scatenato una rissa di valutazioni contrapposte. Ripercorrerne la saga non significa solo tuffarsi in una vicenda altamente romanzesca, ma risalire alle favoleggiate sorgenti del capitalismo. È quanto fa Greg Steinmetz in Il creatore di re (Baldini e Castoldi), biografia spigliata del più audace della progenie: Jacob II (1459-1525) detto il Ricco per distinguerlo dal padre Jacob I che pure povero non era.

Da contadini a commercianti di tessuti a banchieri in grado di tenere sotto schiaffo imperatori e papi: che l’ascesa dei Fugger si sia realizzata nell’arco di appena tre generazioni dà già la misura di un’epoca in turbolenta mutazione. Epoca nella quale l’Italia centro-settentrionale giocava ancora un ruolo economico di punta.

I primi trucchi dell’arte mercantile il giovane Jacob li aveva imparati durante uno stage a Venezia. Da Augusta – l’operoso capoluogo svevo che diverrà la Camelot della schiatta – i genitori l’avevano spedito a farsi le ossa nella Serenissima. Nel Fontego dei Tedeschi, quartier generale dei traffici con l’area germanica, il tirocinante prende tra l’altro dimestichezza con due strumenti che in seguito gli sarebbero tornati utilissimi e dei quali avrebbe perfezionato l’uso: le cambiali (quelle timbrate Fugger avranno l’affidabilità di una valuta forte) e i registri a partita doppia – su una colonna i pagamenti, sull’altra le riscossioni – che oggi sono una banalità contabile ma ai tempi non erano ancora ragioneria diffusa.

Aiutato da un capitale familiare in espansione e dai redditizi legami che i predecessori avevano stabilito con gli Asburgo in materia di forniture tessili, Jacob sgancia i primi prestiti a Sigismondo d’Austria, sovrano spendereccio. In cambio ottiene lo sfruttamento dei giacimenti d’argento in Tirolo. Ma gli affari grossi cominciano con Massimiliano, futuro Kaiser del redivivo Sacro Romano Impero; l’uomo che – anche coi soldi dei Fugger – catapulterà la casata asburgica al centro delle lotte per l’egemonia europea. 

Pare che con Jacob si fossero conosciuti alla fiera di Francoforte. Location per niente casuale: sul finire del Quattrocento le fiere sono in piena metamorfosi. Da mercati dove si scambiano merci vanno trasformandosi in posti dove si compravende quella super-merce chiamata denaro. Diremmo delle proto-borse. Così, dopo l’argento, i Fugger si ritrovano a controllare per decreto imperiale pure le miniere ungheresi di rame. Metallo altrettanto remunerativo, se non altro perché fuso con lo stagno diventa il bronzo con cui si sfornano cannoni e moschetti.

Come nessun altro in precedenza, il cosiddetto Secolo dei Fugger (1450-1550) è contrassegnato dal massiccio ricorso dei governi al credito sborsato da private famiglie. Se il Palazzo ha uno smisurato bisogno di quattrini è perché, sin dai primi vagiti, lo Stato moderno è ingordo. Costoso.

C’è da mantenere l’incipiente apparato amministrativo; c’è da potenziare lo sfarzo delle corti; e soprattutto ci sono da pagare le costanti imprese belliche. Quelle tentate da Massimiliano d’Asburgo saranno marcate da ripetuti flop. Molto più efficace si dimostrerà invece la sua politica matrimoniale culminata nelle nozze del figlio Filippo il Bello con Giovanna di Castiglia, l’erede dei Re cattolici di Spagna che, morto il consorte, uscirà di senno passando alla cronache come la Pazza.

Dall’unione nascerà Carlo V e i Fugger ne saranno i principali tutori finanziari. A partire dalla sua designazione a Imperatore nel 1519. Un capolavoro politico-corruttivo che costò ai banchieri mezzo milione di fiorini ripartiti in maxi-bustarelle per i grandi elettori: 113 mila a quello di Magonza; 184 mila a quello del Palatinato; 70 mila a Federico di Sassonia...

Diventare il bancomat del padrone di mezza Europa, più le colonie americane, è un colpaccio, ma non esente da rischi. I crediti vengono rimborsati con rendite fondiarie, nuove concessioni minerarie e con le entrate fiscali. Però la tassazione è un utensile difettoso: aggravare le imposte scatena rivolte e su domini tanto vasti la raccolta dei tributi è operazione macchinosa. Oltretutto l’Imperatore è in guerra contro tutti: la Francia, gli ottomani, i pirati musulmani nel Mediterraneo, i principi tedeschi... Le spese militari gonfiano il debito pubblico.

Incatenato ai banchieri, Carlo è in affanno sulle rate. E i Fugger gli battono cassa senz’ombra di timori reverenziali. «Maestà, se faccio sapere che lei è insolvente,col mercato dei prestiti ha chiuso» gli scrive Jacob. «Lei sta parlando all’Imperatore» risponde piccato il Sovrano. E il finanziere gli ricorda una cosetta semplice semplice: «È ben noto che senza di noi Vostra Maestà non avrebbe potuto ottenere la corona imperiale». Ergo: «La nostra rispettosa richiesta è... che venga calcolato l’ammontare che vi abbiamo procurato, compresi gli interessi, e che ci sia restituito senza ulteriori ritardi».

Sebbene strozzato dagli alti interessi dei prestiti a breve termine, alla fine «Carlo si rivelò solvibile» assicura Steinmetz nel libro. Peggior cliente sarebbe stato suo figlio Filippo II, che da re di Spagna inaugurerà la politica delle bancarotte allegre.

All’epoca i default funzionavano all’incirca così: gli impagati venivano convertiti d’autorità in titoli di debito pubblico; scadenza lunga, interessi bassi. E buonanotte ai creditori. La finanza creativa fa collassare i banchieri, mentre il re, lui, rimane in sella. Ma a differenza di altre famiglie i Fugger non finirono in rovina. Il loro fu casomai un prolungato declino. Merito di Jacob che aveva corazzato la baracca differenziando il business. Tramite i portoghesi s’era infilato nel giro delle spezie, e «con ogni probabilità finanziò la circumnavigazione del globo di Magellano».

Dai papi che aveva sovvenzionato – Giulio II e Leone X – ottenne la gestione della zecca pontificia e del primo reggimento di guardie svizzere, nonché una posizione di riguardo nei mercati delle cariche ecclesiastiche, delle indulgenze, delle reliquie: traffici che avrebbero dato fuoco alle polveri della Riforma. Cattolico indefettibile, Fugger è la bestia nera di Lutero e, nelle invettive, l’umanista Ulrich von Hutten lo ribattezza Re di denari. Tutto mentre con formidabili stratagemmi teologici la Chiesa sdogana le pratiche del prestito dal peccato di usura.

Nella Guerra dei contadini tedeschi – che, allargandosi troppo, Steinmetz definisce «il primo grande conflitto tra capitalismo e comunismo» – Jacob finanzia la repressione anche perché con coltellacci e forconi la sommossa gli è arrivata in casa. E poco importa che nel frattempo lui avesse fatto costruire ad Augusta la Fuggerei, ossia il primo nucleo europeo di case popolari dove ancora oggi gli inquilini pagano una pigione di 88 centesimi di euro l’anno, equivalente simbolico di un fiorino d’allora.

Nel sito web della cittadella – ricostruita dopo i bombardamenti del ‘44  – Jakob der Reiche è naturalmente ricordato come un filantropo. Non lo fu. Ma che tipo era? Nessuno ce l’ha mai raccontato meglio di Albrecht Dürer, suo protetto, che lo ritrasse intorno al 1520. Zucchetto, stola di pelliccia sopra il vestito scuro, occhio fisso sull’obiettivo: riteneva che Dio l’avesse paracadutato in Terra per far soldi.

Non amava il lusso ma ne capì la forza di suggestione. Si spostava su carrozze trainate da 24 cavalli e gli ospiti facevano Ooh! visitando la sua dimora provvista di acqua corrente e riscaldamento, vetri veneziani, broccati francesi, sete cinesi. In trasferta, persino Montaigne ne rimase abbagliato.

Per i servigi resi, Jacob si guadagnò titoli nobiliari, ma non fu mai tentato dalla politica: preferiva telecomandarla dal retro. Difese il libero mercato con più ostinazione di un economista della scuola di Chicago. Diceva che concedere prestiti procura «solo pene, fatica e ingratitudine».

Però le angustie non gli rovinarono mai il sonno: «Quando vado a letto, assieme alla tunica, mi spoglio di tutte le preoccupazioni». Modernizzò la finanza intuendo la potenza dell’informazione. Che si trattasse d’una crisi di Palazzo, dell’esito di una battaglia o della morte di un pezzo grosso, attraverso una fitta rete di corrieri, emissari, spie veniva a sapere le news prima dei concorrenti, ricalibrando le strategie di conseguenza.

La quantità di uffici e liquidità gli consentirono «di creare un circolo chiuso dove poteva addebitare una cifra sul conto di una filiale e accreditarne l’importo in un’altra, senza un reale trasferimento di denaro». Così evitava il rischio di rapine lungo il tragitto. «Come un’odierna società di carte di credito prende una piccola percentuale su ogni uso della carta, Fugger incassava il 3 per cento su ogni transazione».

Mediante arcigni revisori ridusse al minimo le approssimazioni di bilancio e quando gli fu possibile sorvegliò le casse dei governi debitori come un bulldog dell’Fmi. Fu il primo milionario della storia, ma non derogò mai alla prudenza contadina e alla morte il suo profitto complessivo ammontava a un tutto sommato ragionevole 12 per cento.

Con la moglie Sybille ebbe una relazione glaciale e nessun figlio. I Fugger si estinsero un secolo dopo la dipartita di Jacob incrociandosi con famiglie dell’aristocrazia e preferendo via via agli affari la vita devota o intellettuale.

Ancora oggi i discendenti risiedono in Svevia: «i conti Fugger-Kirchberg nel castello di Oberkirchberg presso Ulm, i principi Fugger von Glött nel castello di Kirchheim e i principi Fugger-Babenhausen nel castello di Babenhausen e nel castello di Wellenburg presso Augusta» riferisce il sito www.fugger.de sempre efficiente, aggiornato e tedeschissimo come il suo ispiratore.

Battaglia di Ortona



Pubblicato il 19/12/2016 La Stampa
ANDREA CIONCI
In pochi conoscono la vera storia e gli inquietanti retroscena della Battaglia di Ortona (20-28 dicembre 1943) passata alla storia come la “Stalingrado d’Italia”: gli errori di Montgomery, l’accanimento su un obiettivo inutile, ma irrimediabilmente enfatizzato dalla propaganda, il sacrificio di duemila soldati canadesi per tranquillizzare i sovietici, la falsa attribuzione della distruzione della cattedrale, gli stupri perpetrati dalle truppe indiane. 

Con il contributo degli storici della battaglia, le testimonianze di reduci e civili, e perfino attraverso l’indagine sul campo con metal detector, proveremo a riassumere questa tragica vittoria di Pirro che, per le sue tecniche combattive, rimase un unicum su tutto il fronte occidentale. Come Stalingrado, anche la cittadina abruzzese – sebbene in scala minore - fu un inferno di corpo a corpo, trappole esplosive, combattimenti “stanza per stanza” che spezzarono i nervi ai soldati alleati che vi presero parte, tanto da non poter essere più inviati in prima linea. Molti di questi reduci smisero per sempre di festeggiare il 24 dicembre a causa del terrore che il Natale di sangue del 1943 aveva irrimediabilmente impresso nella loro psiche. 

1.La linea Gustav  
Erano passati cinque mesi da quando gli anglo-americani erano sbarcati in Sicilia. Nonostante l’eroica – quanto dimenticata – resistenza della divisione “Livorno” del Regio Esercito (che lasciò sul campo 9.000 dei suoi 13.000 effettivi) gli Alleati avevano conquistato, senza ulteriori difficoltà, il sud della penisola e avevano iniziato a marciare verso Roma. Tuttavia, se gli statunitensi, guidati lungo la costa tirrenica dal generale Clark, furono bloccati a Cassino, l’armata anglo-canadese (comprensiva anche di neozelandesi, indiani, sudafricani, australiani) agli ordini di Montgmomery, si impantanò a Ortona mentre risaliva lungo la costa adriatica. Fra le due cittadine si tendeva, infatti, la Linea Gustav, la prima di una serie di fortificazioni e trincee volute da Hitler per arrestare una prevedibile invasione dell’Italia.  
  
2.Gli errori della “Faina”  
Il piano di Montgomery era quello di sfondare a Ortona, raggiungere a Pescara, poco più a nord e da lì percorrere la Tiburtina per prendere Roma da est. “Un piano già pensato male – spiega Marco Patricelli, storico di fama internazionale e autore del volume “La Stalingrado d’Italia”(ed. Utet) – perché gli inglesi sottovalutavano le difficili condizioni meteo che avrebbero trovato cercando di attraversare l’Appennino abruzzese, con un esercito meccanizzato, in dicembre. Un altro errore di Montgomery fu quello di non tentare, immediatamente dopo la faticosa vittoria sul fiume Sangro, di conquistare Ortona, ancora non fortificata dai tedeschi. Prese tempo per dotarsi di mezzi e materiali, come era suo costume, e questo consentì ai nazisti di innescare una delle più micidiali trappole di tutta la Seconda guerra mondiale”.  

3.La campagna mediatica  
Ortona avrebbe potuto essere tranquillamente aggirata, se non fosse stato per la stampa alleata che, grazie ai suoi giornalisti “embedded”, (integrati al seguito delle truppe), aveva dato un’importanza spropositata alla conquista della cittadina abruzzese. “Si trattava, infatti – continua Patricelli - di un’operazione mediatico-politica: Stalin, dopo la vittoria ottenuta l’anno prima, a carissimo prezzo, a Stalingrado, cominciava a lamentarsi dell’immobilismo degli Alleati in Italia. Occorreva dare un segnale e, non a caso, furono invitati a Ortona ufficiali sovietici in funzione di osservatori”. Di fronte alla campagna mediatica suscitata dal nemico, anche per Hitler divenne imperativo difendere la città: “Die Festung Ortona ist bis zum letzten Mann zu halten!” – “La Fortezza Ortona deve essere difesa fino all’ultimo uomo!” ordinò, perentorio, al Feldmaresciallo Albert Kesselring, comandante supremo delle forze tedesche in Italia. 


4.Gli specialisti della guerra  
A Ortona fu quindi fatta confluire la 1° divisione dei Fallschirmjäger (paracadutisti) che, fino ad allora, avevano ceduto elasticamente terreno in Italia meridionale seguendo la strategia difensiva di Kesselring. In Germania erano soprannominati “Pompieri del fronte” perché, analogamente alle Waffen SS sul fronte orientale, erano truppe scelte che venivano inviate per “spegnere” i più pericolosi sfondamenti avversari. “Nonostante vi fossero tra loro giovanissime reclute – spiega Andrea Di Marco, autore del volume “Assolutamente resistere” (ed. Menabò) – in buona parte, questi parà erano reduci delle campagne Creta, di Norvegia, di Russia e soprattutto delle battaglie in area urbana svoltesi a Centuripe, in Sicilia. Formati idealmente nella Hitler Jugend, erano combattenti esperti e possedevano uno spirito di corpo formidabile. Tuttavia, come risulta dai loro diari, sebbene sentissero forte il valore dell’obbedienza agli ordini, (il “Führerprinzip”, “Principio del capo” costituivo dell’onore del soldato tedesco), si domandavano anch’essi che senso avesse difendere ad ogni costo quella cittadina, strategicamente insignificante”.  
  
Nel ’43, i tedeschi in Italia erano motivati a combattere anche per difendere la Germania dai bombardamenti alleati. Dalla Sicilia, gli aerei angloamericani potevano raggiungere, all’incirca, solo la Baviera, ma quanto più spazio avessero guadagnato in Italia, tanto più territorio tedesco avrebbero potuto bombardare.  
“Come truppe scelte - spiega Massimo Lucioli, vicepresidente dell’associazione di rievocatori Historica XX secolo - i Fallschirmjäger possedevano un equipaggiamento altamente specialistico. Mentre i canadesi avevano in dotazione l’equipaggiamento standard inglese, (elmetto piatto, fucile Enfield e giberne in canapa, con l’unica eccezione del mitra americano Thompson) i parà germanici disponevano di elmetti speciali, dalle falde accorciate per non subire danni al collo durante il lancio, nonché di giubbe, calzature e buffetterie appositamente disegnate per loro”.  

5.Casa Berardi  
Per i soldati canadesi comandati dal generale Chris Vokes, dei quali molti appena diciottenni, Ortona era il grande momento per dimostrare al mondo il loro valore. Sapevano che si sarebbero confrontati con l’élite delle forze armate naziste, ma erano ottimisti. Dopotutto, erano numericamente il triplo degli avversari, disponevano di una logistica ben organizzata, di abbondanza di cibo e di una spaventosa artiglieria terrestre e navale. Tuttavia, l’inesperienza, - per quanto unita al coraggio - dei canadesi si rivelò fatale, fin da subito, nella conquista del primo avamposto tedesco: Casa Berardi. E’ questo un casale situato ancor oggi alle porte di Ortona, che domina una ripida valle che i canadesi battezzarono “The Gully” – “La Gola” e che si trasformò in breve tempo in un cimitero per i loro carri armati Sherman. “Dì a Monty – sbraitò il generale Vokes a una staffetta di Montgomery – che se venisse in questo inferno, a vedere in quale pantano ci siamo ficcati, saprebbe benissimo perché non avanziamo!”. 


6.Un testimone oculare  
L’agricoltore Nicola Paolini, di 83 anni, vera memoria storica di Ortona, vive ancor oggi sul crinale opposto a Casa Berardi. Aveva dieci anni quando fu testimone dell’assedio all’avamposto: “Nella casa erano asserragliati cinque soldati tedeschi, con una mitragliatrice, alcuni lanciarazzi e un carro armato (Panzerkampfwagen IV, n.d.r.) nascosto dietro l’edificio. I carri canadesi attaccarono dapprima frontalmente, attraversando il fosso, e nove furono distrutti. Allora, tentarono un aggiramento da sinistra, su strada, ma alla prima curva, altri due furono centrati da un cannoncino anticarro che i tedeschi avevano già nascosto sotto il profilo del terreno”.  

Tutta la battaglia fu, infatti, accuratamente disegnata sul campo dai parà nazisti, che prevedevano i movimenti di carri e fanti nemici e li convogliavano verso punti di annientamento. “Fu solo il colpo di genio del capitano canadese Paul Triquet – continua Paolini – a sbloccare la situazione: ebbe l’ardire di passare a destra della Casa Berardi in un territorio già occupato dai nemici. In questo modo, poté sorprendere il loro unico panzer e metterlo fuori combattimento. La strada per Ortona era aperta e Triquet fu il primo canadese a essere decorato con la Victoria Cross britannica”.  

Ancor oggi, intorno a Casa Berardi, si possono trovare, con il metal detector, un’infinità di schegge di granate alleate. Aperte in quattro petali, le spolette esplose sembrano dei grossi fiori di ottone massiccio, e recano ancora stampigliati modello e anno di costruzione. Per calibro e quantità restituiscono con immediatezza, pur a settant’anni di distanza, il tremendo volume di fuoco che l’artiglieria anglo-canadese scaricò sugli avversari. Il terreno ha restituito perfino una baionetta di fucile Mauser k 98 tedesco, ormai ridotta a uno spezzone di ruggine, ma senza dubbio evocativa.  


7.I combattimenti “stanza per stanza”  
Fu proprio il combattimento all’arma bianca una delle caratteristiche più cruente e “medievali” della Stalingrado italiana. Come ben spiegato presso il Museo della Battaglia di Ortona, i tedeschi avevano fatto crollare i palazzi delle tre direttrici principali della città, che vanno da Porta Caldari alla piazza del Municipio. I detriti impedivano, così, il passaggio ai carri: non appena uno di questi tentava di salire su un cumulo di macerie, infatti, esponeva il ventre, meno corazzato, ai colpi del Panzerschreck, una versione del bazooka che, dalla Tunisia, i tedeschi avevano copiato dagli americani. 


Senza poter avvalersi degli Sherman, i fanti canadesi dovettero impegnarsi nei combattimenti casa per casa, fra le macerie. Continuamente bersagliati, furono costretti a traforare l’interno delle abitazioni pur di avanzare al coperto: una volta liberato uno stabile, dal secondo o terzo piano, facevano saltare le pareti divisorie, per passare nell’edificio contiguo, ma non di rado i Fallschirmjäger li aspettavano dall’altra parte e, approfittando del polverone, colpivano gli avversari ancora frastornati dall’esplosione. Si dovettero quindi innalzare dei ripari prima di minare le pareti delle case. Nonostante questi continui adattamenti, i soldati venuti da oltre Oceano continuavano a cadere per i trappolamenti esplosivi, le mine anticarro e antiuomo, gli agguati corpo a corpo, e il fuoco incrociato dei cecchini. Impiegarono una settimana per conquistare 500 metri di territorio urbano; fu un combattimento così devastante per i loro nervi che dopo Ortona nacquero degli studi psicologici sui danni provocati dallo stress da combattimento. Anche per i più esperti paracadutisti tedeschi, schiacciati dall’inferiorità numerica e dai tassativi ordini di resistenza, fu un’esperienza psicologica terribile. Una drammatica foto ricorda la vicenda del sottotenente Ewald Pick il quale, non potendo più sostenere l’assalto nemico e avendo ricevuto via radio l’ordine di resistere ad ogni costo, ebbe un crollo nervoso. Si alzò dalla postazione, andò tranquillamente a fumare una sigaretta sulla fontana, al centro della piazza, e si fece fulminare dalle fucilate canadesi.  


8.Militari e civili  
Le perdite tedesche, tra morti, feriti e dispersi furono circa 870; quelle canadesi intorno alle 2.340 e le vittime civili furono circa 1300. Nonostante gli occupanti si fossero attivati per far sfollare la popolazione prima della battaglia, l’ordine non fu rispettato da tutti i cittadini molti dei quali non si rendevano conto del pericolo incombente. Il rapporto fra militari dei vari eserciti e i civili, riferito dagli ortonesi che vissero quel periodo, fu più complesso rispetto ai cliché sedimentati nell’immaginario comune. 


“I miei nonni – racconta Nicola Paolini - si erano riparati in una grotta sotto al crinale dietro il quale si erano accampati gli Alleati. Un giorno, il nonno fu arrestato dai canadesi che lo ritenevano, erroneamente, una spia e la nonna, completamente paralizzata, rimase abbandonata nella grotta. I parà germanici, di notte, passando a pochi metri dai nemici, portavano da mangiare all’anziana rimasta sola”. Ciò che emerge dalle testimonianze è che nonostante i tedeschi avessero fatto saltare il porto di Ortona, per impedire l’attracco alle navi nemiche, avevano mantenuto un rapporto sostanzialmente corretto con la popolazione, forse anche per la rigida disciplina cui erano avvezzi. 

I canadesi furono accolti con grande benevolenza, come liberatori, e aiutarono i civili nella prima riorganizzazione di una vita normale, dopo la battaglia. Tuttavia, dato che erano poco abituati al vino, (le cantine di Ortona ne abbondavano) si verificarono diversi problemi disciplinari dovuti all’ ubriachezza. Gli inglesi erano percepiti come militari intransigenti, ma erano anche quelli che potevano controllare le intemperanze dei loro alleati. I più temuti di tutti dalla popolazione furono gli indiani, presenti nel contingente alleato, che, a detta di numerosi testimoni, compirono stupri su donne e ragazzi.  

9.L’ultimo massacro e la distruzione della Cattedrale  
Dopo la notte di Natale in cui i canadesi cenarono con birra, maiale in salsa di mele e pudding (l’ultimo pasto per molti di loro) la battaglia entrò nella fase finale, ma si completò con un ulteriore disastro. Una volta riusciti a percorrere le tre vie principali, le forze alleate confluirono e si ammassarono incautamente nella piazza del Municipio. Qui, alcuni cecchini tedeschi appostati sulla torre dell’orologio ne fecero strage. “Ebbi modo di parlare con uno di loro – spiega Marco Patricelli - il quale mi riferì che alla fine, disgustati loro stessi da tanta carneficina, si limitavano a tirare solo su ufficiali e sottufficiali, per lasciare senza guida la truppa”. Nonostante la ferocia dei combattimenti, non furono rari gli episodi di reciproca cavalleria fra i due schieramenti e di comprensione umana per il nemico ferito o catturato. 
  
Alle spalle del Municipio sorge la Cattedrale di San Tommaso, il cui campanile e la cupola furono distrutti il 21 dicembre. “Una leggenda vuole - continua Patricelli - che fosse stata minata da un ufficiale germanico, protestante, in odio al culto cattolico delle reliquie di San Tommaso Apostolo ivi custodite. I documenti militari e il diario del maggiore canadese Bert Hoffmeister hanno però dimostrato che la cattedrale fu presa a cannonate dall’artiglieria navale alleata in quanto forniva un punto di osservazione privilegiato al nemico”.  


10.Vittoria?  
Il 28 dicembre, gli ultimi Fallschirmjäger si ritirarono dalla città, ormai rasa al suolo; si arroccarono appena 5 km a nord, sul fiume Riccio, dove resistettero per sei mesi, fino alla liberazione di Roma, avvenuta il 4 giugno dell’anno successivo.  
Tatticamente, Ortona fu una vittoria alleata, anche se Montgomery non la incluse nelle sue memorie, fermandosi al successo ottenuto sul Sangro. Strategicamente, invece, può essere considerata una vittoria dei tedeschi: con pochi uomini erano riusciti a ritardare l’avanzata dell’avversario angloamericano dissanguandolo per ogni palmo di terreno conquistato. Dopo aver subìto lo sfondamento della Gustav a Cassino, e aver perso Roma, i nazisti nuovamente si attesteranno sulla Linea Gotica, tra Pisa e Rimini, mantenendo il fronte per altri quattro mesi. L’obiettivo di Churchill di far stornare al nemico molte divisioni nella Campagna d’Italia era fallito, e questo renderà, agli Alleati, molto più dura la conquista della Normandia, che prenderà il via con il D-Day del 6 giugno 1944. 


Favole sul Natale

Elisabetta Broli per “il Giornale”

L'importante è che non lo sappiano i bambini: Gesù non è nato il 25 dicembre, non è nato neanche nell'anno zero. E poi: a Betlemme non c'erano il bue e l'asinello, Gesù non è nato di notte in una grotta - i Vangeli non lo precisano - Giuseppe e Maria non furono cacciati dagli alberghi. La colpa è della tradizione popolare che, la fede ha bisogno anche di «immagini», ha diffuso nei secoli innocue bugie intorno a fatti e personaggi delle Sacre Scritture.


E infatti chi lo dice che Gesù è nato il giorno di Natale? Scrive Luca nel suo Vangelo: «Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto». Nessuna data. Il 25 dicembre (fondamentale per i negozianti) è una data convenzionale, comparsa per la prima volta (inserita da chi?) in un calendario a Roma nel 326, a pochissimi anni dall'editto di Milano che concesse a tutti i cittadini dell'Impero la libertà di culto, cristiani compresi. Poi la data fu fissata nel 354 da papa Liberio e cominciò a essere accettata da tutta la Chiesa.

Nel 425 l'imperatore Teodosio ne codificò i riti, nel 506 divenne festa di precetto e nel 529 anche festa civile. Da ottocento anni è la festa più popolare tra i cristiani (mentre dovrebbe essere la Pasqua, un conto è nascere, nasciamo tutti, un conto è risorgere). Ma perché il 25 dicembre e non il 9 aprile? Due, tremila anni fa le culture festeggiavano, il 21 dicembre, le giornate che improvvisamente smettevano di accorciarsi con il sole che rinasceva.


In Egitto si ricordava il dio Horus, divinità solare figlio della vergine Iside; nella mitologia nordica un «figlio di Dio», Frey; i romani nello stesso periodo festeggiavano i Saturnali, una specie di Carnevale d'inverno con banchetti, giochi e scambio di doni.

Nel 274 l'imperatore Aureliano scelse il 25 dicembre per consacrare un nuovo tempio al Sole invitto, alias il dio Mitra vincitore delle tenebre e caro agli ambienti militari. Anche per la simbologia cristiana Gesù era il sole che nasce, il sole della giustizia: perché non approfittare di questa data? Insomma, una data simbolica scippata al paganesimo e reinterpretata in base alla teologica cristiana?

Quello che è certo, invece, è che Gesù non è nato nell'anno zero e di conseguenza non è morto a 33 anni. Cristo è nato cinque o sei anni...prima di Cristo. Tutta colpa di un certo Dionigi il Piccolo, un monaco russo matematico che nel VI secolo dopo complessi calcoli credette di identificare l'anno esatto della nascita di Gesù. Senza computer e neppure una piccola calcolatrice elettrica, si confuse fissando il punto zero della storia (in cui con la venuta di Gesù il tempo ha invertito il senso di marcia) nell'anno 753 dopo la fondazione di Roma.
Studiando con più attenzione le fonti storiche si è però scoperto che re Erode è morto tra marzo e aprile dell'anno di Roma 750 (l'attuale 4 a.C.), quando Gesù era già nato, da quello che dice l'evangelista Matteo sulla strage degli innocenti, ordinata da Erode contro i bambini «da due anni in giù». Insomma, le ipotesi storiche oggi più accreditate lo danno nato dal 5 al 7 a.C., litigando con chi sostiene che Dionigi il Piccolo è nel giusto.
Anche sul bue e l'asinello, da mille anni inseriti in coppia nel presepe, qualche precisazione va fatta, partendo sempre dai Vangeli: non ne parlano. Come ci sono finiti? Il primo a inserirli, ma al terzo giorno, quando Maria sarebbe arrivata in una stalla, fu il Vangelo apocrifo dello Pseudo-Matteo: è qui che i due animali si accostano alla mangiatoia e si inginocchiano.

Tutti i testi antichi sono d'accordo nel dire che il bue e l'asinello non avevano la funzione di calorifero a fiato, ma quello di simbolo di adorazione, portando a compimento le scritture: «Il bue conosce il proprietario e l'asino la greppia del padrone» (Isaia); e secondo il libro dei Numeri l'asina di Balaam riconobbe l'angelo del Signore prima del suo padrone indovino. Gli hanno incollato addosso un po' di teologia. Secondo san Gerolamo l'asino significa l'Antico testamento e il bue il Nuovo; per san Bernardo l'asinello è il simbolo della pazienza virtuosa, il bue secondo Riccardo di san Vittore è segno dell'umiltà evangelica.

Via dal presepe anche la grotta sperduta nella campagna e isolata dal resto del mondo, e spazio alla mangiatoia come dice l'evangelista Luca, oppure semplicemente a una casa come scrive Matteo. Anche perché è verosimile: molte abitazioni della Palestina erano addossate a cavità della roccia, che custodivano gli animali. La «grotta» in cui nacque Gesù a Betlemme, conservata nella basilica, secondo studi archeologici è proprio un locale di questo tipo, incorporato nel recinto di una casa e non isolato nella campagna.


La lista delle credenze prosegue nel post-Natale: i re Magi non erano tre; forse quattro o due, c'è chi sostiene fossero sessanta, e comunque non erano re. Non è vero che Babbo Natale sia a-cristiano e la Befana pure...Tutto questo, naturalmente, non inficia la fede. A chi crede sta bene anche che Gesù sia nato il 14 maggio e in un albergo ai Caraibi: beato lui!

Big Bang

Roger Penrose: "Ecco il Big bang della fisica"
Il celebre scienziato, grande amico di Hawking, nel suo ultimo libro demolisce alcuni pilastri della cosmologia moderna: "I miei colleghi inseguono mode, fede e fantasia"

di LUCA FRAIOLI
Roger Penrose: "Ecco il Big bang della fisica"

“Non è vero che i topi amano il formaggio. In realtà sono golosi di cioccolata. Nella mia casa, appena fuori Oxford, la uso come esca e funziona benissimo. Purtroppo i topi hanno capito come prenderla senza far scattare la trappola, sembra che abbiano imparato dagli errori dei compagni più sfortunati " .

Due ore di colloquio con Sir Roger Penrose danno un senso di vertigine. Prima di esporre le sue ipotesi sulla coscienza (e come queste si possano applicare anche ai topi) o raccontare la lunga amicizia con Stephen Hawking, il celebre fisico-matematico britannico ha demolito a colpi di logica tre pilastri della cosmologia moderna: la teoria delle stringhe, la repentina espansione dell'Universo neonato (nota come inflazione), l'applicazione della meccanica quantistica al macrocosmo. Per decenni centinaia di ricercatori sono stati sedotti da queste tre grandi costruzioni concettuali, convinti che rappresentassero il passo finale verso la comprensione del Tutto: l'origine dell'Universo, la sua fine, la sua struttura più intima. Roger Penrose, solitario e un po' folle come un personaggio shakespeariano, ora si rivolge loro e dice: "Avete sbagliato, le generazioni future bocceranno le vostre teorie".

Professore emerito all'Università di Oxford, Penrose ha speso gran parte dei suoi ottantacinque anni a immaginare formule matematiche che descrivessero i lati più nascosti dell'Universo, dai buchi neri alla mente umana. E ha raccontato la sua avventura intellettuale in libri di successo come La mente nuova dell'Imperatore ( 1989), dove avanzava l'ipotesi che la coscienza possa aver origine da fenomeni quantistici interni ai neuroni. Ci riprova con un saggio ancor più provocatorio per l'establishment scientifico: Fashion, faith and fantasy in the new physics of the universe, pubblicato dalla Princeton University Press. In cinquecento pagine affascinanti e complesse Penrose sferra un duro colpo alla Nuova fisica: le stringhe, l'inflazione, la gravità quantistica hanno fallito.

Professor Penrose, perché questo fallimento ha a che fare con moda, fede e fantasia?
" Perché anche chi lavora sulle frontiere della fisica può farsi condizionare nell'abbracciare una teoria piuttosto che un'altra. In alcuni casi, moda, fede e fantasia aiutano gli studiosi. In altri li portano fuori strada. E questo è successo con stringhe, meccanica quantistica e inflazione".

Cominciamo dalla teoria delle stringhe ( le particelle elementari anziché puntiformi sarebbero stringhe a una dimensione). Si è affermata nella comunità scientifica perché "alla moda"?
" È quello che penso. Lo scopo principale della teoria delle stringhe era descrivere il mondo conciliando gravità e fisica delle particelle. In realtà descrive un universo che non è quello in cui viviamo. Invece delle quattro dimensioni che conosciamo (tre spaziali e una temporale) ne prevede ventisei. Ma allora perché non le vediamo? La risposta di chi sostiene la teoria delle stringhe è che si tratta di entità così piccole da non poter essere percepite, che ci vorrebbe una energia grandissima per eccitare e far distendere le extra-dimensioni normalmente raggomitolate su se stesse. Può essere vero sulla Terra, ma non nell'Universo: ci sono fenomeni che sprigionano energie enormi, si pensi all'interazione tra due buchi neri, e ne basterebbe una piccola frazione per eccitare le dimensioni nascoste e renderle visibili. Eppure restano nascoste".

Veniamo alla fede. È sbagliato credere all'infallibilità della meccanica quantistica?
"Sarei uno stupido se criticassi la meccanica quantistica per le sue previsioni sulle particelle, sulla chimica, sulle proprietà dei materiali. Al contrario della teoria delle stringhe, che in oltre quarant'anni non ha fatto previsioni verificabili, la teoria dei quanti ha una enorme serie di conferme. Tuttavia lo stesso Schroedinger, uno dei fondatori, sottolineò con l'esempio del gatto che se si applicano le sue stesse equazioni al mondo macroscopico si arriva a un paradosso (il gatto è sia vivo che morto).

Ci sono filosofi che portando alle estreme conseguenze le equazioni di Schroedinger, immaginano che di fronte a una scelta il mondo di sdoppi: in un mondo il gatto è vivo, nell'altro è morto. E questo per ogni possibile situazione, con un proliferare di universi paralleli. Assurdo. La meccanica quantistica è evidentemente incompleta. Persino Paul Dirac, che è stato mio professore a Cambridge, sosteneva che fosse una teoria capace di fare previsioni ma che presto o tardi sarebbe stata sostituita da una migliore. E invece molti scienziati pensano di poterla applicare indifferentemente alle particelle e ai buchi neri: hanno "fede". Secondo me non funziona più bene quando la gravità diventa importante. Più è grande la massa degli oggetti coinvolti, più si riduce il lasso di tempo in cui c'è una sovrapposizione di stati tipica della meccanica quantistica. Un gatto è abbastanza pesante perché questo tempo sia ridicolmente breve: la sovrapposizione tra gatto vivo e gatto morto dura un istante. Poi prevale uno dei due stati".

L'ultima parola è fantasia. L'inflazione è pura fantasia?
"Quando ne sentii parlare la prima volta provai orrore. Serve a spiegare perché l'Universo è uniforme e piatto: la fase di espansione rapidissima, chiamata inflazione e verificatasi pochi istanti dopo il Big bang, avrebbe stirato e appiattito tutte le irregolarità. Ma c'è bisogno di una fisica inventata ad hoc, a cominciare dall'inflatone, particella la cui esistenza serve solo a giustificare l'inflazione. È una teoria " artificiale", che non risolve il problema fondamentale sull'origine dell'Universo: cos'è davvero il Big bang? L'esplosione da cui tutto ha avuto origine non è, come si potrebbe immaginare, l'inverso di un buco nero che collassa su se stesso. Mentre nel collasso di un buco nero la massa è dominata dalla gravità, nel Big bang la gravità è soppressa. E l'inflazione non spiega perché".

Come se ne esce professor Penrose?
" Immaginando un " prima" del Big bang. E lo si può fare guardando al nostro futuro remoto: i buchi neri inghiottiranno via via tutta la materia, poi si mangeranno l'uno con l'altro producendo quantità enormi di onde gravitazionali. Alle fine rimarranno solo black hole. Ma Stephen Hawking ci ha spiegato che i buchi neri evaporano fino a dissolversi emettendo radiazione. Nell'Universo finale non ci sarà massa ma solo fotoni, come nel Big bang".

Sta dicendo che la nostra fine potrebbe coincidere con un nuovo inizio?
"Proprio così. L'attuale Universo può essere uno degli infiniti che costituiscono un Universo eterno: ogni Universo si espande da zero a infinito, ma l'infinito futuro di ogni Universo coincide con il Big bang di quello successivo".

C'è modo di verificare questa sua ipotesi?
"È già successo. Le onde gravitazionali prodottesi nell'Universo che ha preceduto il nostro sono arrivate fino a noi lasciando una traccia, dei cerchi concentrici, nella radiazione cosmica di fondo, il residuo calore prodotto dal Big bang. Quei cerchi li abbiamo osservati nel 2010, ma i nostri risultati sono stati ignorati dalla comunità scientifica. Come per le mie critiche alla teorie delle stringhe, la risposta è stata il silenzio".

Lei è sempre andato controcorrente. Si sente di consigliarlo ai giovani scienziati di oggi?
"È difficile. I miei studenti se vogliono trovare un lavoro altrove devono abbandonare le ricerche che hanno fatto con me. Certo, tra le ragioni che mi spingono a scrivere c'è anche l'idea di stimolare i giovani ad avvicinarsi alla scienza imboccando strade inesplorate. Ma le lettere che mi arrivano sono tutte scritte da pensionati. Sarà che sono i soli ad avere il tempo di leggere i miei libri".

A proposito di strade inesplorate, nei giorni scorsi si è tornati a parlare della sua teoria sull'origine quantistica della coscienza: un anestesista americano Stuart Hameroff sostiene che si è vicini a provarla sperimentalmente.
"La mia idea, condivisa da Hameroff, è che ci sono elementi per parlare di coerenza quantistica nel cervello a partire dai microtubuli, strutture proteiche all'interno dei neuroni. Quello che ci incoraggia a proseguire è che da studi indipendenti emerge che i principi attivi di molti anestetici agiscono

proprio sui microtubuli".

Ma se la coscienza ha a che fare con la struttura dei neuroni, potrebbe non essere una esclusiva umana.

"È quello che penso anch'io ogni volta che i topi di casa eludono le trappole e portano via la cioccolata".

Cantico Dei Cantici

Silvia Ronchey per “la Repubblica”

Di cosa parliamo quando parliamo del Cantico? Questa domanda non può avere risposta. «Il cantico è un enigma», scriveva Agostino (“Sermo” 46, 35). È un mistero nel senso tecnico della parola. L’iniziato non parlerà perché non potrà farlo (“mysterion” da “myein”, «tenere le labbra serrate»). Il profano parlerà, ma non saprà di che parla. «Perché chi sa non parla e chi parla non sa», secondo il detto di Lao Tse.
 Ma alla fine del I secolo, quando si formò il canone della bibbia giudaica, il sapiente Rabbi Aqiba disse: «Il mondo intero non vale il giorno in cui il Cantico dei cantici è stato donato a Israele, perché tutte le Scritture sono sante, ma il Cantico dei cantici è il Santo dei santi». Già allora che cosa fosse il Cantico non lo si sapeva né voleva dire: la sua santità era direttamente proporzionale al suo mistero; anzi, era proprio la profondità abissale dei suoi enigmi a sprigionare quel vertice di santità.
«Petali di loto le labbra del mio amato /colano mirra. Il suo inguine è avorio / tempestato di zaffiri. / Favi colanti le tue labbra mia sposa / miele e latte sotto la tua lingua / come incenso del Libano / l’aroma del tuo grembo / giardino chiuso fonte sigillata. / Entri il mio amato nel suo giardino / succhi il suo frutto prodigioso. / Nel mio giardino entravo / mia sorella mia sposa / e la mirra e ogni essenza rapivo / e succhiavo il miele dal favo».
 Poemetto di età post-esilica, forse patchwork di canti attinti al patrimonio della tradizione assiro-babilonese ed egizia oltre che ebraica, con echi greco- ellenistici nello stile di Teocrito, il Cantico è indubitabilmente un testo erotico, quasi pornografico. Nella traduzione latina di Girolamo: Dilectus meus misit manum suam per foramen / et ventrem meus intremuit ad tactum eius.
«Il mio amato infila la mano nel mio grembo/ le mie viscere fremono per lui. / Per aprirgli mi alzo /le mie mani colano mirra /dalle dita la mirra fluisce / sul chiavistello che impugno». Secondo la tradizione rabbinica, alcuni brani del Cantico venivano cantati nelle taverne. Si sdegnava Rabbi Aqiba: «Chi canta il Cantico nelle taverne o lo tratta come una canzone profana non avrà posto nel mondo futuro».
 Levitò presto l’esegesi anagogica midrashica, gelosamente sacra, del Cantico come celebrazione dell’alleanza sponsale tra JH-WH e Israele, protratta poi nell’interpretazione cristiana che per secoli e secoli vi lesse la figura dell’amore di Cristo per la chiesa, non senza lasciare spazio a una congerie di altri sistemi allegorici minori, spesso iniziatici – astrologici, cabalistici, filosofico- sapienziali –, nella letteratura medievale, rinascimentale e moderna.
 Sulle ali della metafora della sposa-chiesa i versetti del Cantico si disseminarono nella fonosfera della liturgia, della musica, della letteratura, tramandole come mantra sempre meno dischiusi al senso. Più la torsione simbolica della teologia occidentale sottraeva loro il significato naturale – da Ambrogio a Gregorio Magno, da Guglielmo di Saint-Thierry a Bernardo di Clairvaux, da Francesco di Sales a Bossuet – più le sillabe e le immagini spandevano il loro mistero elementare. Nigra sum sed formosa.
Da Monteverdi a Giovanni della Croce, da Maupassant a Moreau duemila anni di omissioni hanno addensato connessioni così colossali nel Cantico da renderlo simile all’Aleph di Borges: un punto dello spazio letterario che contiene una pluralità infinita di altri punti. Già il Talmud ammoniva, comunque, a non sottovalutare la letteralità che nessun testo biblico deve mai perdere.
 I letteralisti o naturalisti sono sempre, a ragione, esistiti: bizantini come Teodoro di Mopsuestia o giudaici come Ibn Ezra. Un grande saggio protestante del Cinquecento, Sébastien Castellion, propose di eliminare il Cantico dal canone dei testi ispirati, in polemica con Calvino; lo seguì Herder. Il Novecento ha visto anche esegeti ecclesiastici cattolici, da Dietrich Bonhoeffer a Luis Alonso Schökel, assaliti dal dubbio: se dietro i versetti del Cantico non ci fosse nulla? Bisogna intendersi.
 Il Cantico è nulla. È un prisma trasparente nella cui luce si riflette, moltiplica e illumina qualunque esperienza reale o spirituale, intellettuale o dottrinale vi si accosti. Inoltre, dietro al Cantico c’è il nulla. «In verità, il vuoto del Cantico è lì per confermarne la sacralità. Il Cantico è un pezzo di vuoto sacrale. Dico che è vuoto per non negargli niente», ha scritto Guido Ceronetti.
 Almeno quanto l’Ecclesiaste evoca il vuoto e almeno quanto Giobbe il dolore, il Cantico evoca la dolorosa inattingibilità dell’amore. «L’uomo non può capire il Cantico se non ha mai amato», ha scritto Bernardo. Anima mea liquefacta est. Quaesivi, et non inveni illum. Vocavi, et non respondit mihi.
 «La mia anima si disfa. / Lo cerco e non lo trovo / lo chiamo e non risponde». Ha scritto Jung: «Mi sono ripetutamente trovato di fronte al mistero dell’amore, e non sono mai stato capace di spiegare cosa sia. Qui si trovano il massimo e il minimo, il più remoto e il più vicino, il più alto e il più basso, e non si può mai parlare dell’uno senza considerare l’altro. Non c’è linguaggio adatto a questo paradosso. Qualunque cosa si possa dire, nessuna parola potrà mai esprimere tutto».
 Nessuna parola può esprimere tutto, ma il Cantico, illusionisticamente, lo fa. Se la natura del desiderio è indicibile, il Cantico la dispiega in enigmi. «Mettimi come un sigillo sul tuo cuore / come un tatuaggio sul tuo braccio / perché forte come la morte è l’amore / duro come l’Ade il desiderio ». L’amore è più forte della morte: cosa vuol dire? che l’amore può vincere la morte? che il piacere è una piccola morte? che l’eros è la morte dell’io e ci fa uscire dai suoi confini portando all’insania, come già segnalato da Lucrezio?
«L’eros lo conosciamo solo nella distanza del fallimento. Prima del fallimento non si dà conoscenza », ha scritto Christos Yannaras, massimo esperto contemporaneo del Cantico (alcune delle sue pagine in AA.VV., Il più bel canto d’amore. Letture e riscritture del Cantico dei cantici, Qiqajon, Comunità di Bose, pagg. 231, euro 20, che del Cantico contiene anche la migliore traduzione italiana, di Enzo Bianchi). «Dopo il fallimento sappiamo che l’eros è il modo della vita, ma un modo inaccessibile alla natura umana. Il modo della vita lo palpiamo nella privazione, nel calco dell’assenza».
La riflessione sull’eros del teologo ortodosso Yannaras conclude oggi il discorso sul Cantico aperto da un altro filosofo greco-orientale, Origene: nel III secolo, quando da poco quell’erma testuale bifronte che esaltava un amore fisico e carnale fino all’oscenità era entrata nel libro sacro a tre religioni e in queste aveva cominciato a porre, o trasporre, il suo enigma.
 Enfant prodige del platonismo alessandrino, a poco più di vent’anni Origene si era evirato. Aveva, narra Eusebio, troppo da fare coi libri, giorno e notte, e questa era per lui già «una passione e una ginnastica ». Nulla doveva distoglierlo dal comparare e commentare i testi della bibbia. Il suo fu il più grande esperimento di applicazione dell’esegesi allegorica neoplatonica al cristianesimo.
Nel Commento al Cantico, opera della sua maturità, uscito ora in traduzione italiana insieme alle magnifiche Omelie sul Cantico di un altro grande padre greco, Gregorio di Nissa (Origene, Gregorio di Nissa, Sul Cantico dei cantici, a c. di V. Limone e C. Moreschini, Bompiani, pagg. 1565, euro 50), raccolse l’eredità della ricerca platonica sull’essere e la sua contrapposizione fra anima e corpo, tra metafora e lettera, tra esoterismo e “annuncio”.
 Sottrasse al Cantico letteralità e fisicità per accenderne l’erotismo metaforico in un modo che nessuno aveva mai osato prima: utilizzandolo in senso psicologico. Col bisturi della filologia neutralizzò la carne degli sposi, per lasciare tutto lo spazio al loro puro spirito. Operò, in un certo senso, come aveva operato sul suo stesso corpo.
L’autoevirazione di Origene, che la tradizione antica riporta, fu reale o simbolica? Di fatto, in uno dei più fantasmagorici trompe l’oeil della letteratura universale, con Origene il Cantico perse per sempre il suo originario connotato realistico per diventare un’allegoria dell’eros mistico, di quell’amore sofferente che sta in ogni atto di ricerca o tentativo di creazione o impulso di unione.
 La Sulamita che cerca lo sposo non è solo Israele, secondo l’interpretazione giudaica, e non è solo la chiesa, secondo la versione cristiana vulgata. È in primo luogo l’anima, che secondo la tradizione platonica cerca sempre, e non trova, la perfezione del Logos. Con il Commento al Cantico di Origene il cristianesimo orientale si è fin dall’inizio affiancato agli altri grandi saperi tradizionali nell’esprimere il quaesivi et non inveni, il “cerco e non trovo” che si applica a tutte le sfere dell’indagine, ma anzitutto a quella su noi stessi.

domenica 9 agosto 2015

DOBBIAMO PRENDERCI IN CASA TUTTA L'AFRICA?

"Respingere gli immigrati è un atto di guerra", ha accusato il papa argentino. Ma questa, il pontefice mi perdoni, è una sciocchezza. Casomai, l'invasione è un atto di guerra.  Ad ogni modo, sono chiacchiere. Come quelle del Pd Orfini, il quale liquida chi solleva il problema immigrati dicendo che sono sciacalli. Sono chiacchiere per evitare di rispondere agli interrogativi cruciali: 1) dobbiamo accogliere e mantenere tutti gli africani? Quando diremo basta? 2) Fino a quando le navi della Marina militare verranno impiegate come mezzi per passeggeri?
Se non si cerca subito una soluzione, il futuro del nostro Paese sarà orribile. Non solo per noi, ma anche per gli immigrati, che non avranno un lavoro per vivere.
Raccontando quello che ho visto davanti al supermercato da 25 anni a questa parte si potrebbe scrivere la storia dell'immigrazione in Italia. Una storia tristissima, senza speranza. Dalla quale bisognerebbe imparare che far arrivare tanta gente disperata non è un atto di bontà.
I primi ad arrivare furono un paio di ragazzi dello Sri Lanka. Cercavano di aiutare le signore a spingere il carrello della spesa per recuperare la monetina. Furono presto rimpiazzati da una coppia, una ragazza e un ragazzo di origine albanese. Anche loro a caccia di monetine. Poi si persero nel nulla e un giorno ci accorgemmo di nuovi arrivi, stavolta migranti del Bangladesh. Finché comparvero due slavi, due marcantoni violenti che minacciarono i ragazzi del Bangladesh e li costrinsero a cambiare aria. Con le monetine dei carrelli e gli spiccioli che riuscivano a raggranellare compravano casse di birra e ogni tipo di alcol. Erano sempre più gonfi di alcol. Dormivano ai giardinetti dove una mattina li trovarono tutt'e due morti, distrutti dalle bevute smodate.
Infine sono arrivati gli africani. Adesso davanti al supermercato ce ne sono 5. Chi cerca di prenderti il carrello, chi vuole venderti mutande e penne a sfera, chi semplicemente ti chiede: "Fai regalo?".
Che futuro hanno queste persone? Le dobbiamo campare noi. L'euro del carrello sarà pure una cosa minima, tuttavia è una tassa in più. Allora molto meglio se i fondi per gli immigrati vengono spesi per mantenere questi sventurati nei loro Paesi. Tra parentesi, il viaggio per arrivare in Italia, costa ad ognuno almeno 5 mila euro: dove li prendono?

MORIRE

  www.leggo.it  del 5 aprile 2024   JULIE MCFADDEN- 1 Julie McFadden è un'infermiera molto famosa sui social perché condivide le sue esp...