Marco Nese - Corriere della Sera - 29.10.2017
Invece di pubblicizzarla come un successo della tecnologia italiana, la notizia è stata tenuta nascosta. E’ successo martedì scorso, 24 ottobre. Il primo F-35B, aereo a decollo corto e atterraggio verticale, interamente costruito nella base di Cameri, a nordest di Novara, ha compiuto un volo di collaudo. Il pilota è rimasto ai comandi più di un’ora seguendo una scaletta prestabilita di prove tecniche.
Dalla Difesa, nessuna comunicazione e niente presenza della stampa. “Quasi ci vergogniamo - si rammarica Vincenzo Camporini, ex capo delle Forze armate e attuale consigliere Nato -. In altri Paesi per un evento del genere si scomodano capi di Stato e primi ministri”.
Mantenere il silenzio, secondo Dino Tricarico, ex capo di stato maggiore dell’Aeronautica, “è una scelta stravagante che si spiega solo col fatto che siamo in campagna elettorale: meglio non parlare di F-35, argomento divisivo che crea polemiche. Si vuole evitare di toccare questo tasto, perché l’F-35 fa perdere voti”.
A Cameri l’Aeronautica italiana ha creato uno stabilimento, vero gioiello tecnologico, che ha convinto gli americani a concedere al nostro Paese, unico caso fuori dagli Stati Uniti, la possibilità di costruire i cassoni alari, i contenitori del motore, e assemblare gli interi velivoli F-35.
Inizialmente l’Italia aveva prenotato 131 caccia F-35 per un costo totale stimato attorno ai 12,9 miliardi di dollari. In seguito alle polemiche per la spesa elevata, si è deciso di ridurre a 90 l’acquisto degli F-35 Lightning (fulmine), un caccia di quinta generazione, concepito in modo da essere invisibile ai radar e operare in rete con altri sistemi d'arma. I 90 presi dall’Italia (60 nella versione a decollo normale e 30 a decollo verticale) serviranno a rimpiazzare i cacciabombardieri Tornado e Amx dell'Aeronautica e gli Harrier della Marina.
Non è stata una buona idea acquistarne 90, perché produrne a Cameri meno di 100 ha fatto lievitare i costi (circa 100 milioni di dollari ogni caccia). E altri Paesi europei, come Olanda, Norvegia, Inghilterra e in futuro probabilmente anche Belgio, Danimarca e Polonia, non hanno più convenienza a comprare gli esemplari costruiti in Italia. Spendono meno se li acquistano direttamente negli Stati Uniti.
Finora sono stati consegnati all’Aeronautica 8 F-35 e adesso anche la Marina, quando saranno terminate tutte le fasi di collaudo del primo caccia nella versione B a decollo verticale, potrà farlo planare sulla portaerei Cavour.
“Siamo l’unico Paese - dice ancora Vincenzo Camporini - dove si fa calare il silenzio su un fatto che riguarda la sicurezza nazionale. Spaventati dall’opinione pubblica, siamo riusciti a oscurare perfino la notizia che il primo pilota a sorvolare l’Atlantico al comando di un F-35 è stato un italiano”. L’evento risale al febbraio 2016, il maggiore Gianmarco Di Loreto volò da Cameri fino a Patuxent River, nel Maryland, dove fu accolto con grandi festeggiamenti.
Marco Nese
Questo non è un vero blog, è una raccolta casuale di scritti, alcuni anche miei, che ritengo valga la pena di leggere. Andromeda fa riferimento a due categorie fondamentali, il mito e la cosmologia. Nella mitologia, Andromeda era una giovane sacrificata dal padre Cefeo e dalla madre Cassiopea per placare un mostro marino. La Galassia che porta il suo nome è destinata a fondersi in una spaventosa collisione con le Galassie vicine, fra cui la nostra Via Lattea.
domenica 29 ottobre 2017
Russell e Lenin
Mario Ricciardi - IlSole24Ore - 29.10.2017
Nel maggio del 1920 una delegazione di “osservatori imparziali”, messa insieme dal Governo Britannico su richiesta dei sindacati, arriva a San Pietroburgo con l’incarico di studiare le condizioni economiche, politiche e sociali del paese a meno di tre anni dalla rivoluzione bolscevica. Tra i delegati c’è anche il matematico e filosofo Bertrand Russell. Già noto per i suoi importanti studi sulla logica e i fondamenti della matematica, Russell era una figura di primo piano nella vita politica britannica, impegnato da anni in difesa di cause “radicali” – dal controllo delle nascite al voto per le donne, fino al pacifismo nel corso della Prima Guerra Mondiale – egli aveva aderito di recente al socialismo pluralista teorizzato da G.D.H. Cole. Le sue convinzioni politiche progressiste lo spinsero a usare la propria influenza negli ambienti del Governo – in fondo era pur sempre il fratello del Conte Russell, membro della House of Lords – per ottenere l’invito a unirsi alla delegazione. Ecco perché, dopo qualche giorno dall’arrivo in Russia, troviamo il filosofo a tu per tu con il capo dei Bolscevichi, uno degli uomini più temuti e odiati al mondo, Vladimir Il’ic Ul’janov, detto Lenin.
Di questo incontro, che avviene nello studio del leader politico, Russell ci ha lasciato un memorabile resoconto, pubblicato poche settimane dopo nel suo libro The Practice and Theory of Bolshevism. Apprendiamo che un interprete è presente, ma che rimane per lo più in silenzio perché l’inglese di Lenin è buono. Nella stanza, arredata in modo spartano, i due discutono di politica internazionale, dei risultati ottenuti dai Bolscevichi, in particolare per quel che riguarda l’elettrificazione dell’industria, dell’opposizione dei contadini – nei confronti dei quali Lenin non manifesta grande simpatia – e delle prospettive di una rivoluzione proletaria nel Regno Unito.
Anche quando emergono disaccordi, il tono rimane cordiale. Lenin ride spesso. Russell trova queste risate dapprima amichevoli e rincuoranti, tuttavia, mano a mano che la conversazione procede, esse assumono un tono sinistro. Russell è tra i primi, seguito da una lunga schiera di intellettuali progressisti europei e statunitensi, a riconsiderare la propria iniziale simpatia nei confronti della rivoluzione bolscevica, sottolineandone gli esiti totalitari. Si distingue tuttavia dalla grande maggioranza dei critici per la rapidità con cui giunge alle proprie conclusioni negative, e perché un ruolo non secondario nella formulazione del suo giudizio ha l’aver incontrato di persona Lenin.
Oggi, a distanza di cento anni dalla presa del Palazzo d’Inverno, è molto difficile non farsi condizionare dal peso di questa tradizione negativa, e da ciò che sappiamo del fallimento del regime sovietico. La pubblicazione di una nuova edizione critica di Stato e rivoluzione di Lenin ci offre comunque un’opportunità di grande interesse: provare per un momento a sospendere il giudizio, per ritornare alle origini. Lenin, infatti, scrive questo lavoro, uno dei più letti e discussi tra i suoi contributi, nell’estate del 1917, a poche settimane dagli eventi che condurranno alla presa del potere da parte dei Bolscevichi. La stesura dell’ultimo capitolo, si legge nel poscritto del 30 novembre, viene rimandata.
Fare l’esperienza della rivoluzione, afferma Lenin, è più piacevole e utile che scriverne (possiamo immaginare che dopo aver affidato al foglio questa battuta Lenin si sia lasciato andare a una risata come quelle descritte da Russell). Non c’è dubbio che il tema fondamentale del saggio, come ha scritto Lucio Colletti, è la rivoluzione come «atto distruttivo e violento». Questo, in realtà, è un punto d’arrivo della sua riflessione. Dapprima Lenin ritiene che il compito del proletariato in Russia sia portare a termine una rivoluzione democratica, nell’ambito di una rivoluzione socialista europea. C’è, in tale opinione, l’eco del dibattito sulle condizioni sociali arretrate in cui si trova la Russia dei primi del secolo scorso, che non soddisfano i requisiti descritti da Marx nelle sue riflessioni sul crollo del Capitalismo.
In questa fase, Lenin sembra avere ancora una concezione “gradualista” della rivoluzione, l’avversario è Bucharin. Ben presto, tuttavia, la situazione politica si evolve, e il capo dei Bolscevichi si convince che sono maturate le condizioni per osare di più. In questa mutata prospettiva, egli comincia a redigere le note che diventeranno, dopo un percorso editoriale ricostruito in questa edizione nel saggio introduttivo di Tamás Krausz, Stato e rivoluzione.
Richiamando gli scritti di Marx e Engels sulla Comune di Parigi del 1871, Lenin indica gli aspetti centrali del processo di distruzione violenta dello Stato che costituisce l’obiettivo della rivoluzione: l’introduzione del mandato imperativo, la revocabilità permanente dei funzionari, il superamento della rappresentanza parlamentare che deve essere sostituita da un organo esecutivo e legislativo allo stesso tempo. Una forma radicale di democrazia diretta che attui il sogno dell’autogoverno dei produttori. Per realizzarla, Lenin deve mettere nell’angolo i compagni che vorrebbero seguire la strada parlamentare. Di qui la feroce polemica con Kautsky che lo impegna per buona parte del capitolo conclusivo.
Due anni dopo la visita di Russell a Lenin, un ragazzino di dodici anni, la cui famiglia si è da poco trasferita nel Regno Unito per sottrarsi alle violenze seguite alla rivoluzione bolscevica, scrive un breve racconto basato su un episodio di cui forse era stato testimone oculare quando ancora viveva a San Pietroburgo. Narra l’uccisione, da parte di un tal Kunnegiesser, esponente della piccola nobiltà locale, di Moise Solomonovich Uritsky, un funzionario della Cheka. Nel firmare le condanne a morte, leggiamo in questo breve componimento, Uritsky si rifaceva al motto che aveva assunto come guida nella sua azione politica: «il fine giustifica i mezzi». L’assalto al cielo dei Bolscevichi aveva provocato la discesa agli inferi di una parte dei russi. Molti anni dopo, quel giovane rifugiato, il cui nome era Isaiah Berlin, lo ricordava ancora con un brivido d’orrore.
venerdì 27 ottobre 2017
John Kennedy
Paolo Guzzanti per il Giornale
Chi era davvero John Fitzgerald Kennedy, idolo delle sinistre mondiali e in Italia idolo personale di Walter Veltroni che cercò a lungo di spacciarsi per il «Kennedy italiano»? Era davvero un uomo di sinistra democratico e pacifista, un uomo specchiato e modello dell'idealismo democratico?
Vediamo. Come uomo, fu il più infedele puttaniere del XX secolo, non soltanto per la sua lunga e tragica storia con l'attrice Marilyn Monroe (che condivideva nel suo letto con il fratello Robert, assassinato pochi anni dopo la sua morte.
Ma perché trasformò la Casa Bianca in una gigantesca casa di appuntamenti mondani ed erotici, accompagnati dall' immancabile voce di Frank Sinatra, a sua volta legato agli ambienti più opachi della mafia siculo-americana, di cui faceva parte anche Sam Giancana, l' ultimo autista di Al Capone, personaggio ambiguo indagato e protetto a fasi alterne dalla famiglia Kennedy e sospettato di esser parte del complotto finale che portò all' omicidio del trentacinquesimo presidente degli Stati Uniti.
Kennedy fu un guerrafondaio e non un pacifista: eroe militare durante la Seconda guerra mondiale come ufficiale di Marina cui vengono attribuiti molti atti eroici. Portò il mondo sull' orlo della Terza guerra mondiale durante la crisi dei missili sovietici impiantati nella Cuba di Fidel Castro dal segretario del Pcus Nikita Krusciov (successore di Stalin dopo la parentesi di Malenkov) minacciando un attacco atomico se i sovietici non avessero ritirato le loro armi dai Caraibi.
E poi condusse gli Stati Uniti nel pantano della guerra del Vietnam, territorio che era stato a lungo una colonia francese, poi occupata dai giapponesi durante la guerra e infine suddivisa come la Corea in due Stati di cui uno comunista al Nord e uno filo-occidentale al Sud.
I Vietmin, partigiani comunisti del Sud, avevano già sconfitto i francesi a Ben Diem-Phu e la potenza coloniale europea si era ritirata dallo scacchiere indocinese. Fu una scelta di Kennedy quella di impedire al Nord comunista di impossessarsi del Sud (cosa che alla fine di una martoriata guerra avvenne lo stesso) ingaggiando un conflitto militare senza soluzioni che spaccò il suo Paese (i giovani americani fuggivano in Canada per non partire per il Vietnam) e provocò una delle più profonde crisi morali della storia dell' Occidente.
Ricchissimo, figlio di un padre filonazista in combutta con i trafficanti di alcol, John Fitzgerald fu un giovane uomo viziato, privo di qualsiasi scrupolo e tuttavia considerato una icona insieme alle figure contemporanee di Krusciov (che a causa sua perse il posto di leader sovietico) e di papa Giovanni XXIII.
Durante il proibizionismo negli anni Venti il vecchio Joe trafficò con i gangster mafiosi italo-americani per i quali importava liquori sotto copertura diplomatica. Uno di loro, Sam Giancana, ultimo autista di Al Capone, è uno dei sospettati per l' omicidio di John Kennedy.
La storia è complicata: il fratello di John, Robert Kennedy (assassinato a sua volta nel 1968) aveva fatto carriera come procuratore generale perseguendo Giancana e gli ultimi gangster. Poi ci fu un rovesciamento di fronti: Joe Kennedy padre fece un accordo con Giancana facendolo scagionare dal figlio Robert in cambio di un appoggio elettorale per l' altro figlio John.
Ma dopo l' elezione l' accordo fu rotto dai fratelli Kennedy e Giancana passò al contrattacco legandosi con esuli cubani nemici di Kennedy, colpevole ai loro occhi di non aver concesso una copertura aerea all' invasione di Cuba degli esuli cubani alla Baia dei Porci.
Giancana era in contatto anche con i castristi e con i sovietici, in un intrico mai chiarito di spionaggio, contrabbando e mafia. La povera Marilyn Monroe, amante di entrambi i fratelli Kennedy (memorabile la sua performance «Happy birthday mister President» che mandò in bestia la First Lady Jacqueline Kennedy, futura signora Onassis) pagò con la vita gli intrighi della corte alla quale i giornali scandalistici avevano dato il nome di «Camelot», come quella di re Artù.
Marilyn fu uccisa con una supposta di barbiturici e la sua morte archiviata come suicidio, ma si sospetta Giancana come esecutore del delitto. John Kennedy aveva trasformato la Casa Bianca in un bordello di lusso e una reggia per milionari e artisti come Frank Sinatra, tutti più o meno connessi con la mafia siciliana.
Nato come presidente democratico e «di sinistra» il trentacinquesimo presidente fu adottato nell' empireo degli eroi americani nazionalisti di destra, una icona utile sia per democratici che repubblicani.
Fu certamente un giovane uomo duro, affascinante, seduttore spregiudicato ed eroe di guerra, un sex symbol utile per cattolici e protestanti, pacifisti e guerrafondai, un presidente che cominciò le guerre che altri dovettero chiudere e che trascinò il mondo del baratro.
Comunismo e totalitarismo
Francesca Paci per la Stampa
Agnes Heller, una delle maggiori filosofe del Novecento, arriva all' appuntamento al ghetto di Roma con le scarpe no logo appena acquistate, «perché a Budapest si trovano solo quelle fatte in Cina e tra gli ungheresi il 35 non ha molto mercato».
Minuta, vestita anonimamente, spartana fino a preferire la panchina al dehors del bar, l' ottantottenne erede di Hannah Arendt raccoglie il testimone del dialogo sulla rivoluzione d' ottobre con la verve con cui teneva testa al suo maestro, György Lukács.
Nel Palazzo della Cultura l' attende la festa della letteratura ebraica dove si parla dei suoi libri sulla politica e l' Europa editi da Castelvecchi. Il pubblico le passa accanto e non la nota.
Racconti la rivoluzione del '17.
«Fu un putsch. La rivoluzione del popolo durò da febbraio a ottobre, poi subentrò il partito. I leninisti erano una minoranza nell' assemblea costituente e Lenin la dissolse. Rosa Luxemburg gli scrisse d' indire nuove elezioni ma Lenin tirò dritto.
Se per rivoluzione s' intende la presa del potere da parte del popolo quella di ottobre non lo fu, se invece si allude al cambio di regime è diverso, il regime cambiò. Il vero turning point del XX secolo però, è la I guerra mondiale, il peccato originale che genera bolscevismo, fascismo e nazismo. Quella guerra preparò il terreno ai totalitarismi e agli altri orrori, compresa la Shoah che avvenne solo in Europa, in tutta l' Europa».
Cosa resta dopo cento anni?
«Allora pochi capirono il peso della I guerra mondiale, che oggi è chiaro a tutti. Che lezione ha tratto l' Europa? Nessuna. Sennò non avremmo avuto il secolo breve, una serie di errori sin dalla pace ingiusta del '19 che umiliò la Germania.
È vero che poi l' Europa ha rifiutato la guerra, i totalitarismi, ha archiviato la massima causa di conflitti, i poteri opposti di Francia e Germania. Le nazioni europee, diversamente dalla Russia, hanno rinunciato alle loro ambizioni territoriali. Ma non è molto».
È sopravvissuta ad Auschwitz, ha visto i gulag: abbiamo esorcizzato tutto quell' odio?
«In parte sì. L' Europa è meno divisa. Fino a 50 anni fa destra e sinistra avevano narrative opposte, fascisti e comunisti s' imputavano a vicenda il male del 900. Oggi si ammettono anche i propri errori».
Nato per emancipare l' uomo, il comunismo ha finito per uccidere la speranza?
«Marx vide il comunismo come emancipazione, i soviet furono solo totalitarismo. All' inizio diversi intellettuali aderirono.
Molti però, come Sweig, si ricredettero presto, altri finirono nei gulag. Il comunismo è stato ucciso dalla speranza nella redenzione, l' idea che la politica elevasse l' uomo. Dopo la politica toccò alla scienza. Oggi è in crisi l' illusione del progresso universale, se ci salveremo sarà con le relazioni sociali».
Caduto il muro, le due Europe si sono ricongiunte su questo?
«Dopo il 1945 sono nate in Europa alcune democrazie liberali, ma Grecia, Portogallo e Spagna sono rimaste ancora a lungo delle dittature.
Nell' 89, per ultimi, si sono liberati i Paesi dell' est e non hanno avuto il tempo d' imparare. Gli ungheresi, che non erano abituati ad agire da cittadini ma da soggetti per cui tutto era deciso dall' alto, mantengono il bisogno del leader».
Il comunismo frana a Budapest nel '56, a Praga nel '68, nell' 89?
«Fallì prima di partire perché l' impianto era sbagliato. L' esperimento produsse Stalin. Tutti ne erano consapevoli. Ma la II guerra mondiale rilanciò i sovietici, i soli capaci di fermare Hitler. Avevo 12 anni alla battaglia di Stalingrado, Parigi era caduta.
Fu lì che mio padre, anticomunista, si schierò con loro, quelli che avrebbero liberato Auschwitz. Si sapeva di Bucharin, Trotsky, ma l' antinazismo prevalse. Nel '56 a Budapest eravamo già oltre, lo avevo capito nel '53 quando era stato riabilitato Pálffy, un militare condannato come spia Usa. Dopo il caso Pálffy dissi a Lukács «compagno, è tutto finto».
L' Ungheria di Orban è una conseguenza di quel fallimento?
«Orban somiglia a Erdogan e copia Putin. Il j' accuse anti Soros è un' idea russa. Gli ungheresi odiano essere associati ai russi, il 70% vuole l' Europa anche se sostiene questo governo.
Orban è un leader senza ideologia: illiberale, non totalitario».
L' Europa è una risposta sufficiente per superare il 900?
«L' Europa non ha preso sul serio il suo compito, l' idea del salto nel futuro è falsa: non bisogna saltare ma affrontare il conflitto tra centro e periferia smettendola di pensarsi felici.
L' allargamento è stato positivo, ma non si sono capiti i problemi dell' est, le ferite del passato. Non basta difendere le democrazie liberali: l' occidente deve considerare anche quelle illiberali, la sua contraddizione».
L' occidente ha capito cosa è stato il comunismo applicato?
«I paesi con forti partiti comunisti, l' Italia e la Francia, si sono tenuti a distanza, pur essendo pagati da Mosca. Il problema con il comunismo, anche con quello anti-totalitario alla Luxemburg, è la proprietà privata: quando inizi ad abolirla finisci al totalitarismo, perché possedere è un bisogno umano».
Quali altri sono i bisogni umani nel mondo post-ideologico?
«Iniziai questa querelle con Marcuse, quando lui parlò di bisogni buoni e cattivi. Chi definisce i bisogni veri o falsi? Tutti i bisogni vanno riconosciuti come degni anche se non devono essere per forza soddisfatti».
lunedì 23 ottobre 2017
Cent'anni fa, la Rivoluzione
Giuseppe Scaraffia per “Io Donna”
FALCE E MARTELLO Era stato un pittore di Pietrogrado a proporre al Consiglio dei commissari del popolo il progetto ad acquarello di un emblema per in nuovo stato: una falce e un martello incrociati, circondati da spighe, con in mezzo una spada sguainata nel mezzo. Lenin, colpito da quell’immagine disse: "Interessante, ma perché la spada? Noi non abbiamo bisogno di conquiste. La nostra è una guerra di difesa, la spada non è il nostro emblema. [...]la spada va tolta dallo stemma dello stato socialista." Per ribadire la decisione cancellò l’arma con una matita nera. "Per il resto lo stemma è buono."
ROSSO Il rosso dalla divisa dello zar era stato spazzato via da fiumi di coccarde rosse, i soldati si cucivano grandi stelle rosse. “Togliti quell’orrore!” aveva ingiunto la principessa Jussupova al suo autista che per prudenza si era messo un fiocco rosso.
ARREDAMENTO Nel quadro di Isaak Brodsky, “Lenin allo Smolny”, prima istituto per l’educazione della nobili fanciulle, c’è l’abc dell’arredamento moderno: fodere bianche sulle poltrone, pareti nude, parquet senza tappeti, spazio vuoto. Come nella camera del giovane Lenin, oggi visitabile, in cui ognuno degli oggetti, dal calamaio al catino per la toeletta, era finalizzato al lavoro dell’agitatore che viveva di tè e pane nero.
FAME “Pane e aringhe!”, chiedeva il proletariato nella manifestazioni contro lo zarismo. La fame era un’ossessione. “Non si pensava, non si parlava d'altro: come si faceva per avere un'aringa, un po' d'olio, un paio di mele.”
ORTO A Ekarterinburg la famiglia imperiale prigioniera consumava razioni uguali a quelle dei soldati di guardia. Per sopravvivere Nicola II era obbligato, sotto stretta sorveglianza, a coltivare l’orto e a tagliare la legna per il camino.
BARBE I pizzetti di Lenin e Trosky liquidarono le ampie barbe di Marx e di Engels e quella patriarcale dello zar Nicola II. In un caminetto dell’ultima dimora dei Romanov venne ritrovata parte della barba dello zar “che è stata conservata”. Secondo una graduatoria del Times, la barba di Marx è “più famosa di quella di Gesù" mentre quella di Lenin” è solo in sesta posizione”.
CAMICIE Lenin indossava come molti borghesi russi dell’epoca una camicia bianca a collo morbido. Il futurista Vladimir Majakovskij ne ostentava una provocatoriamente gialla.
MATRIMONIO Nel 1917, tre mesi dopo avere preso il potere, i bolscevichi fecero due decreti, introducendo il matrimonio civile e il divorzio. Per annullare il matrimonio era sufficiente comunicarlo per posta all'autorità e pagare un’imposta di tre rubli.
LIBERO AMORE Per una rivoluzionaria come Aleksandra Kollontaj il libero amore era essenziale per l’emancipazione della donna. “L'amore, sosteneva, è come un bicchier d'acqua”, un atto semplice, senza implicazioni. Un punto di vista non condiviso da Lenin, malgrado i suoi amori extraconiugali. “Benchè io non mi consideri assolutamente un asceta, sono convinto che la cosiddetta “nuova vita sessuale” dei giovani e sovente degli adulti è decisamente borghese; si tratta di una variante della cara, vecchia casa chiusa borghese. Tutto questo non ha niente a che fare con l’amore libero, così come noi comunisti lo intendiamo”.
INSALATA RUSSA Presto la cucina tradizionale venne condannata come reazionaria. Ma tra le vittime del 1917 ci fu anche un piatto relativamente recente l'insalata russa, fino ad allora chiamata l’ “insalata Olivier”, dal nome di un celebre chef Lucien Olivier, padrone del ristorante moscovita L’Ermitage, che la inventò nell’Ottocento. La ricetta, rimasta segreta fino alla morte dello chef nel 1883, comprendeva ingredienti costosi e quindi immorali - aragosta, gelatina, lingua, tartufo, aspic, capperi e filetti d'acciughe - rapidamente sostituiti con patate, carote e altre verdure fredde.
DOMESTICA Paladina delle donne, la Kollontaj scriveva: “Al posto della donna che pulisce il proprio appartamento, la società comunista può impiegare manodopera che la mattina va di casa in casa a fare le pulizie. Alla donna che oggi si affanna tra le pentole, passando le poche ore libere della sua giornata a preparare il pranzo e la cena, la società comunista offrirà pubblici ristoranti e mense comunitarie. La lavoratrice non sarà più costretta a spezzarsi le reni sulla tinozza, o a rovinarsi gli occhi rammendando le calze e rattoppando la biancheria: dovrà solo portarla ogni settimana alle lavanderie collettive, e ritirarla poi lavata e stirata. Liberandola dalla schiavitù domestica, il comunismo rende la vita della donna più ricca e felice”.
TRENO Nella fantasia popolare del 1917 il treno lussuoso della zar era stato rapidamente sostituito dal vagone piombato su cui Lenin era tornato clandestinamente in Russia, grazie ai servizi segreti tedeschi, e più tardi dal treno blindato con cui Trotzky combatteva i nemici della rivoluzione in tutta la Russia.
SOLDATESSE A difendere il Palazzo d’Inverno insieme ai giovani Junker e a alcuni cosacchi, c’era il Battaglione femminile della Morte, una valorosa brigata d’assalto femminile composta di soldatesse con i capelli rasati a zero, che resistettero a lungo. Non volevano arrendersi, ma furono costrette dai maschi. Tre soldatesse furono violentate e molte altre molestate e insultate.
OMOSESSUALITA’ Nella nuova Russia l’omosessualità non era più un reato, ma l’opinione pubblica era meno aperta dei legislatori.
CAPPELLI Lenin, arrivato con una borghese bombetta nera, l’aveva presto sostituita con quello che sarebbe diventato il suo emblema, il berretto a visiera dei proletari. I soldati della rivoluzione invece usavano spesso la Budënovka un cappello di lana col paraorecchie e una stella rossa, indossabile sotto l'elmetto.
CRANIO La calvizie di Lenin attirava l’attenzione. Rosa Luxembourg aveva commentato: “Guarda la sua testa ostinata, testarda. È proprio la testa di un contadino russo con pochi tratti vagamente asiatici”. Lo scultore Aronson era affascinato dalla testa del tribuno straordinariamente simile a suo parere a quella di Socrate. Secondo altri invece ricordava quella di Verlaine. “Si ha quasi la sensazione che quella superficie emani una luce fisicamente reale”, sospirava il compagno Lunacharsky.
PINCE-NEZ Quando la scultrice Clara Sheridan, parente di Churchill, chiese a Trotsky di togliersi il celebre pince-nez che le impediva di cogliere i suoi tratti, lui aveva confessato che senza pice-nez si sentiva smarrito e disarmato. Era come una parte di lui stesso.
TRAVESTIMENTO Per non farsi riconoscere dalla polizia zarista Lenin si era vestito da operaio, aveva rinunciato alla barba e, oltre a un paio di occhiali, aveva adottato una parrucca che era rimasta attaccata al berretto quando aveva saluto la folla.
PORCELLANA La manifattura imperiale, ribattezzata Fabbrica statale di porcellana di Petrograd, nuovo nome di San Pietroburgo, aveva prodotto piatti decorati con falce e martello. Dall’influenza di artisti come Kandinskij nacquero prodotti splendidi e arditi, come “Equilibrio”, la tazza da tè di Malevich.
sabato 21 ottobre 2017
Il fallimento neo-ottomano
Il fallimento neo-ottomano
- La Lettura
- Di MANLIO GRAZIANO
Per far cosa gradita ai loro lettori, gli atlanti europei e americani dell’Ottocento designavano come «Turchia» le terre dell’Impero ottomano, da dove, però, quel termine era bandito. «Turco» si riferiva infatti a un insieme di orde nomadi originarie di una regione indistinta tra il lago Bajkal e i monti Altai, a nord della Mongolia: niente di cui poter menare vanto.
La parola venne riscattata dal movimento che prese provocatoriamente il nome di «Giovani Turchi». La loro rivoluzione, nel 1908, segnò la fine di uno Stato multinazionale che era nato poco più di seicento anni prima. Certo, l’Impero ottomano fu poi schiantato dalla sconfitta nella Prima guerra mondiale, ma il tarlo della sua distruzione era stato inoculato da quel nazionalismo turco che aspirava, come tutti i nazionalismi, a una nazione omogenea, etnicamente, culturalmente e religiosamente pura.
Quando poi, nel 1922, il generale Mustafa Kemal vinse per la prima volta una guerra dopo secoli di continue sconfitte delle armate ottomane, si guadagnò il titolo di Atatürk — padre dei turchi — e si diede da fare, spesso con metodi assai sbrigativi, per dare al suo Paese una nuo- va identità. E volle che fosse un’identità europea.
In realtà alcuni storici insistono sul fatto che l’Impero ottomano avrebbe sempre avuto un’impronta politica più europea che asiatica. La loro prima capitale fu creata al momento dell’arrivo nei Balcani, a Edirne (l’antica Adrianopoli), nel 1371; quando Costantinopoli fu conquistata, Mehmet II assunse il titolo di «imperatore romano», e per i trecento anni a seguire l’obiettivo ottomano fu la valle del Danubio, fino alla sua porta politica: Vienna. Era la sempiterna lotta tra Impero romano d’Oriente e d’Occidente, una gara a chi lo avrebbe, infine, riunificato.
La vocazione europea fu però il solo lascito ottomano raccolto da Atatürk: l’adozione dei codici francesi, dell’alfabeto latino e dello stile politico mussoliniano avrebbero dovuto controbilanciare lo spostamento del baricentro geografico verso l’Asia minore. La scelta della laicità coatta, e l’abolizione del califfato (1924) sono oggi generalmente assunti come la prova che, per espellere la religione dalla politica, basti la volontà. In realtà occorsero avvenimenti storici dalla portata eccezionale per liquidare i residui del passato, facendo però al tempo stesso della religione l’essenza stessa della nuova «turchità»: dopo il massacro degli armeni cristiani, nel 1922 furono cacciati dalla Turchia non i greci, ma i cristiani ortodossi, fossero essi greci o turchi (e la Grecia, dal canto suo, fece lo stesso cacciando i musulmani, fossero essi turchi o greci). I curdi poterono rimanere perché anch’essi musulmani sunniti: ma furono decretati «turchi» ope legis, anzi «turchi delle montagne». Gli alevi, sciiti, salvarono pelle e religione decretando che Atatürk era il Mahdi, il «salvatore» che li aveva liberati dal giogo ottomano. La comunità ebraica fu letteralmente decimata, passando dai 200 mila individui alla fine dell’Impero ai circa 17 mila di oggi. E nel 1942, la laica repubblica promosse una tassa sulla ricchezza applicabile solo ai non musulmani: dopo l’Editto di Gülhane del 1839, che stabiliva l’uguaglianza giuridica di tutti i soggetti ottomani indipendentemente da razza e religione, era la prima volta che veniva praticata ufficialmente una discriminazione sulla base della fede.
Il ritorno della religione nella lotta politica fu una caratteristica, in Turchia come in molti altri Paesi, e non solo musulmani (si pensi al caso dell’India), degli anni Ottanta. Come per molti altri Paesi, la ragione principale si trova nei processi di urbanizzazione, che hanno portato in pochissimi anni milioni di contadini profondamente religiosi nel cuore di città secolarizzate dall’alto. In Turchia, quel ritorno fu rappresentato prima, con molta circospezione, da Turgut Özal; poi, fin troppo spavaldamente, da Necmettin Erbakan, destituito da un ennesimo colpo di Stato nel 1997; e infine, dal 2003, da Recep Tayyip Erdogan. Anzi, per essere precisi, da Ahmet Davutoglu, un professore di scienze politiche poliglotta (parla inglese, tedesco, arabo e malese), vero cervello strategico dell’Akp, il partito di Erdogan.
A Davutoglu è stata attribuita l’ambizione del neo-ottomanismo, cioè il progetto di ricostruire l’Impero ottomano. Ma è un errore. Il concetto di «profondità strategica» di colui che diventerà ministro degli Esteri e poi primo ministro di Erdogan era molto più articolato e ambizioso: si trattava di raccogliere nientemeno che l’insieme delle eredità geopolitiche turche per farne la base composita della nuova identità – e delle nuove aspirazioni – del Paese nel XXI secolo. E di eredità geopolitiche, la Turchia, è particolarmente ricca. Non solo quella ottomana, ma anche quella repubblicana di Atatürk, quella del califfato (in mani turche per quattro secoli), quella dei popoli turchi rimasti in Asia (e successivamente inglobati in Cina e nella Russia imperiale), il tutto imperniato sull’eredità europea e sul decisivo legame contratto con gli Stati Uniti durante la guerra fredda. Si trattava, in altri termini, di esplorare, e sfruttare, tutte le dimensioni dell’esperienza storica turca, dai monti Altai fino al successo elettorale dell’Akp.
Era certamente di un programma ambizioso e non privo di rischi, che solo l’Akp, in quanto partito nazionale, popolare e religioso, avrebbe potuto immaginare. Ma le condizioni di quel programma erano state create da un lato dalla nuova situazione internazionale dopo il crollo dell’Unione Sovietica, quando il capitale geopolitico della Turchia si era improvvisamente svalutato; e, dall’altro, dalla crescita economica, che proprio sotto i primi dieci anni di governo Erdogan aveva accelerato fino a diventare, di gran lunga, la più dinamica di tutta l’area Europa-Mediterraneo.
L’ingresso di Ankara nell’Unione Europea era la chiave di volta di quel progetto. Per giungervi, il Paese affrontò una mutazione radicale della propria identità kemalista: abolendo la pena di morte, avviando trattative di pace coi curdi e contatti con l’Armenia, sostenendo la riunificazione di Cipro ed escludendo i militari dalla vita politica. Si trattava di passi verso l’Europa, certo, ma anche di un recupero della tradizione ottomana, quando convivevano nel Paese turchi, curdi, armeni e greci. Il lato «religioso» del programma non era solo l’obbligato pedaggio da pagare all’elettorato anatolico, ma anche l’apertura di canali di comunicazione al di là dell’area ex-ottomana e dell’Asia centrale turcofona. Quella turca era una success story da proporre come modello vincente, per rivitalizzare l’orgoglio musulmano, in opposizione ai catastrofici esempi offerti da altri Paesi islamici allo sfascio o in preda a sanguinose e interminabili guerre settarie.
Poi, il crollo. Prima il referendum francese del 2005, che notificò ai turchi che mai sarebbero entrati in Europa. Poi la sconfitta delle primavere arabe, che al modello turco si erano ispirate. Da allora, la Turchia di Erdogan è entrata nel buio strategico, e anche il suo ideologo, Ahmet Davutoglu, è stato congedato. La repubblica è stata trasformata in autocrazia personale ma, privo di orizzonti, il suo presidente ha dovuto appoggiarsi sull’esercito per potersene appropriare. Quel che è seguito è cronaca.
Il pegno da pagare ai militari è stato la ripresa – inopinata e catastrofica – della guerra contro i curdi, accompagnata da una gestione sconsiderata della crisi in Siria. Col risultato che, se nel 2014 non c’era stato nessun attentato in Turchia, nel 2015 ce ne sono stati sei, con 343 vittime, e nel 2016 ventidue, con 371 vittime. E poi c’è stato il tentativo di golpe: molto probabilmente un’estrema resistenza dei militari ostili all’accordo con Erdogan, che ha permesso a quest’ultimo di rinsaldare i suoi legami con i loro rivali nell’esercito.
Era certamente di un programma ambizioso e non privo di rischi, che solo l’Akp, in quanto partito nazionale, popolare e religioso, avrebbe potuto immaginare. Ma le condizioni di quel programma erano state create da un lato dalla nuova situazione internazionale dopo il crollo dell’Unione Sovietica, quando il capitale geopolitico della Turchia si era improvvisamente svalutato; e, dall’altro, dalla crescita economica, che proprio sotto i primi dieci anni di governo Erdogan aveva accelerato fino a diventare, di gran lunga, la più dinamica di tutta l’area Europa-Mediterraneo.
L’ingresso di Ankara nell’Unione Europea era la chiave di volta di quel progetto. Per giungervi, il Paese affrontò una mutazione radicale della propria identità kemalista: abolendo la pena di morte, avviando trattative di pace coi curdi e contatti con l’Armenia, sostenendo la riunificazione di Cipro ed escludendo i militari dalla vita politica. Si trattava di passi verso l’Europa, certo, ma anche di un recupero della tradizione ottomana, quando convivevano nel Paese turchi, curdi, armeni e greci. Il lato «religioso» del programma non era solo l’obbligato pedaggio da pagare all’elettorato anatolico, ma anche l’apertura di canali di comunicazione al di là dell’area ex-ottomana e dell’Asia centrale turcofona. Quella turca era una success story da proporre come modello vincente, per rivitalizzare l’orgoglio musulmano, in opposizione ai catastrofici esempi offerti da altri Paesi islamici allo sfascio o in preda a sanguinose e interminabili guerre settarie.
Poi, il crollo. Prima il referendum francese del 2005, che notificò ai turchi che mai sarebbero entrati in Europa. Poi la sconfitta delle primavere arabe, che al modello turco si erano ispirate. Da allora, la Turchia di Erdogan è entrata nel buio strategico, e anche il suo ideologo, Ahmet Davutoglu, è stato congedato. La repubblica è stata trasformata in autocrazia personale ma, privo di orizzonti, il suo presidente ha dovuto appoggiarsi sull’esercito per potersene appropriare. Quel che è seguito è cronaca.
Il pegno da pagare ai militari è stato la ripresa – inopinata e catastrofica – della guerra contro i curdi, accompagnata da una gestione sconsiderata della crisi in Siria. Col risultato che, se nel 2014 non c’era stato nessun attentato in Turchia, nel 2015 ce ne sono stati sei, con 343 vittime, e nel 2016 ventidue, con 371 vittime. E poi c’è stato il tentativo di golpe: molto probabilmente un’estrema resistenza dei militari ostili all’accordo con Erdogan, che ha permesso a quest’ultimo di rinsaldare i suoi legami con i loro rivali nell’esercito.
La «profondità strategica» della Turchia è diventata «nullità strategica». Il Paese ora è rimasto senza prospettive, né neo-ottomane, né di altro genere. Salvo, probabilmente, una: quella di diventare un altro Pakistan piantato nel mezzo del Mediterraneo.
Crisi turca
La crisi turca (e dell’Europa) ha tre radici
Uno scrittore americano residente a Istanbul espone il suo punto di vista sul logorio delle libere istituzioni e sulla svolta autoritaria pilotata da Erdogan. L’errore è credere che stia riemergendo una esotica vocazione orientale di quel Paese. In realtà
- La Lettura
- Da Istanbul ELLIOT ACKERMAN
Da quattro anni ormai la Turchia naviga nelle acque burrascose di un’instabilità politica senza precedenti. Come americano residente a Istanbul, ho vissuto in prima persona gran parte di questi sconvolgimenti: le proteste a Gezi Park e le loro ripercussioni; gli scandali della corruzione tra gli apparati governativi; l’invio di armamenti da parte di Erdogan ai combattenti islamici in Siria, tra i quali i miliziani di Jabhat al-Nusra, affiliati di Al Qaeda; fino alle purghe politiche dopo il colpo di Stato del 2016, che hanno visto l’arresto e l’incarcerazione di migliaia di intellettuali turchi. Ma quando rifletto sul futuro incerto della Turchia, i miei pensieri spesso tornano a una domenica di giugno del 2015, che ho trascorso con i miei figli.
Quel giorno si teneva la prima di una serie di elezioni parlamentari. Io non posso votare, perciò avevo pensato bene di esercitare il mio diritto di scelta nel più classico stile americano: andando a fare shopping con i miei bambini, di tre e cinque anni, a Ortaköy, un mercato di bancarelle all’aperto. Nel percorrere in taxi la Cevdet Pasha Cadessi — una delle arterie che costeggiano il Bosforo — ho consegnato ai bambini dieci monetine ciascuno, da spendere come volevano. Sentendomi parlare in inglese, mentre spiegavo ai bambini le virtù di un’attenta pianificazione degli acquisti, l’autista mi ha indicato un gigantesco manifesto elettorale del presidente Recep Tayyip Erdogan, che tappezzava l’intero lato di un palazzo di uffici. «Erdogan è una cattiva scelta». Poi, incrociando il mio sguardo nello specchietto retrovisore, ha aggiunto: «Ci vuole trasformare in un Arabistan!». Ho notato una bandierina metallica, incollata al cruscotto del taxi, la stella e la mezzaluna della Repubblica. Il conducente era uno dei tanti turchi che dissentivano da Er dogane dal suo Partito della giustizia e dello sv il up po,l’ Akp,propr io perché mirava a impartire una svolta al Paese, abbandonandola laicità a favo redi una forma di governo totalitario di stampo islamico.
L’autista mi ha poi spiegato come il modo migliore per ostacolare Erdogan e l’Akp fosse quello di non votare per il Chp, il Partito repubblicano del popolo, il secondo del Paese, bensì per l’Hdp, che rappresenta gli interessi dei curdi e di altre minoranze. Se riusciva a superare la soglia del 10 per cento alle urne, l’Hdp avrebbe ottenuto un numero sufficiente di seggi in Parlamento per dare filo da torcere all’Akp nel formare un governo dotato di maggioranza. Il guidatore, chiaramente un turco laico, non sembrava per nulla scomporsi davanti al fatto che il leader dell’Hdp, Selahattin Demirtas, avesse stretti legami con i ribelli curdi che da trent’anni combattono nel SudEst del Paese. «Demirtas ci salverà da Erdogan», mi ha assicurato mentre pagavo la corsa, per poi profetizzare: «Sarà lui il salvatore della Turchia».
Mentre mi aggiravo tra le bancarelle ancora sguarnite di Ortaköy, qualche venditore cominciava solo allora a esporre le mercanzie, quasi che gli altri fossero stati trattenuti ai seggi elettorali. Per ingannare il tempo, tenendo tra le mie le manine dei bambini che stringevano le monetine, ci siamo diretti verso la moschea del sultano Abdülmecid. Eretta attorno a un’unica cupola bassa e ornata di due soli minareti, è una costruzione assai modesta in confronto alle ben più celebri Moschea Blu e Santa Sofia. Per via della mia discendenza sia cristiana che ebraica, ho sempre esitato ad avventurarmi in una moschea e questa in particolare non l’avevo mai visitata, pur essendovi passato accanto decine di volte. Con la maggioranza dei turchi impegnati a votare, quella m’è sembrata una buona occasione: ci siamo tolti le scarpe e siamo entrati. Dalle immense vetrate della moschea, affacciata sul Bosforo, una luce brillante inondava la sala principale, riverberando tra i lampadari di cristallo sospesi sotto una cupola meravigliosamente ricca di decorazioni e imponente come quelle che si ammirano in Vaticano. Sotto la cupola sono appesi otto pannelli verdi con scritte dorate, straordinari nella loro semplicità. Da queste parti si narra che i versetti del Corano siano stati dipinti a mano dallo stesso sultano Abdülmecid.
Per gran parte degli ultimi quattro anni, caratterizzati da crescenti tensioni politiche, in Turchia si sono scontrate diverse e contrastanti visioni del futuro della nazione. Continuerà ad essere una repubblica liberale e laica, con limitate ambizioni internazionali, simile a quella fondata da Mustafa Kemal Atatürk? Oppure tornerà indietro, ripercorrendo quel filone di tradizionalismo che si richiama alla storia ottomana, nel tentativo di riaffermare la sua posizione di massima potenza del mondo islamico? In piedi, sotto i versetti dipinti da Abdülmecid, mi chiedevo se queste visioni della Turchia fossero davvero contrastanti. Al potere dal 1823 al 1861, Abdülmecid si rivelò uno dei più grandi riformatori dell’Impero ottomano. Mentre rafforzava ed espandeva l’influenza della nazione all’estero, Abdülmecid istituì il primo ministero dell’Istruzione, abolì la tratta degli schiavi e persino depenalizzò l’omosessualità. Seppe far leva su secoli di potenza e tradizione ottomana non per consolidare strutture antiquate, bensì per favorire e avviare una nuova visione del Paese al passo con i tempi.
Davanti all’Isis in Iraq e al gruppo islamista al-Sham in Siria, che combattono per ristabilire l’antico califfato del VI secolo sui confini meridionali della Turchia, e mentre Paesi a maggioranza musulmana, come Egitto, Iraq, Libia e molti altri ancora, sono travolti dalla violenza o governati da regimi autoritari, i soli capaci di tenerli lontani dal baratro, la posizione della Turchia come leader del mondo musulmano riveste un’importanza cruciale. Tuttavia, da quelle elezioni del 2015 il Paese sembra avviato su una strada che non promette nulla di buono.
L’Hdp, il partito che suscitava l’entusiasmo del mio tassista, è riuscito effettivamente a superare la soglia del 10 per cento e a impedire all’Akp di Erdogan di formare un governo di maggioranza. Ma anziché accettare questa realtà, il presidente ha indetto una consultazione lampo per il successivo novembre. Nel frattempo, si è affrettato a chiudere molti mezzi di comunicazione favorevoli all’opposizione e ha revocato il cessate il fuoco stipulato con i curdi nel turbolento Sud-Est del Paese. Queste misure hanno scatenato una serie di attacchi terroristici nel corso di quell’estate e nell’autunno del 2015, tra i quali il più micidiale della storia turca, quando l’esplosione di una bomba durante un comizio politico ad Ankara pro-
L’esempio positivo Nell’Ottocento il sultano Abdülmecid istituì il primo ministero dell’Istruzione, abolì la tratta degli schiavi e depenalizzò l’omosessualità
vocò 103 vittime. Chiamati di nuovo alle urne a novembre, i turchi hanno negato il loro appoggio al partito curdo e di conseguenza l’Akp ha recuperato la maggioranza di governo.
L’estate successiva, la notte del 15 luglio 2016, un contingente di militari laici, teoricamente favorevoli a Fethullah Gülen, avversario di Erdogan, ha tentato un colpo di Stato in risposta alla stretta del presidente sul potere. Mentre i caccia militari sfrecciavano nel cielo di Istanbul, spaventando i cittadini con i loro boati, gli elicotteri da combattimento lanciavano missili contro gli edifici del governo ad Ankara. Ma quando Erdogan è apparso in televisione e si è appellato alla cittadinanza, invitandola a scendere nelle strade per sbaragliare i congiurati, le cui azioni rischiavano di ribaltare i risultati elettorali dell’anno precedente, i turchi hanno risposto in modo massiccio, facendo fallire il colpo di Stato.
Nei mesi successivi, il governo di Erdogan ha dichiarato lo «stato di emergenza», che resta in vigore ancora oggi. Grazie alle leggi speciali, decine di migliaia di oppositori sono stati arrestati e imprigionati, tra i quali anche membri dell’opposizione politica e quello stesso Selahattin Demirtas, capo dell’Hdp, che il mio tassista aveva esaltato come «salvatore della Turchia». Al momento del suo arresto, quasi un anno fa, gli è stata revocata l’immunità parlamentare.
Con il Paese ancora sotto lo «stato di emergenza», Erdogan ha indetto un referendum costituzionale nell’aprile del 2017, che molti ritengono fosse già nelle sue mire da parecchio tempo. La Turchia gode di un sistema parlamentare guidato da un primo ministro, incarico che Erdogan ha ricoperto per tre mandati fino al 2014, quando non è stato più rieleggibile. Anziché ritirarsi dalla politica, Erdogan ha occupato la poltrona di presidente, una carica rappresentativa secondo i dettami costituzionali. L’obiettivo centrale del suo referendum, tuttavia, era la creazione di una presidenza esecutiva con poteri senza precedenti, che gli avrebbe consentito di restare al potere in veste presidenziale fino al 2029, marginalizzando la figura del primo ministro.
Malgrado la repressione seguita al mancato colpo di Stato, l’opposizione ha fatto sentire la sua voce per condannare il referendum costi- tuzionale. Quando lo scorso gennaio Aylin Nazliaka, una deputata indipendente, si è ammanettata al microfono del seggio, tra i membri del Parlamento è scoppiata una colluttazione. Durante la campagna Hayir/ Evet («No/ Sì») che è seguita, il governo ha tagliato la corrente ai comizi del No e i politici hanno fatto i loro discorsi nelle sale illuminate dalla luce dei cellulari. Gli osservatori internazionali dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, inviati a monitorare le elezioni, hanno dichiarato che «il referendum costituzionale del 16 aprile non s’è svolto in condizioni di parità e i contendenti politici non hanno goduto delle medesime opportunità». Il referendum ha approvato la proposta del governo con il 51,41 per cento dei voti, portando Erdogan verso quello che, secondo molti, aveva sempre mirato in politica: il controllo totale della Turchia.
Ebbene, che cosa intende fare con quel potere?
Qualche sera fa, a Istanbul, ho cenato su una terrazza panoramica con tre amici turchi: un editore con la moglie, conduttrice televisiva, e un altro che scrive per un giornale di sinistra. Il giornalista si lamentava della situazione politica in Turchia, preoccupato per la sorte di alcuni colleghi finiti in manette. Ha poi chiesto notizie alla conduttrice sul suo nuovo incarico alla Trt, l’emittente di Stato, dove molte sue colleghe indossano l’hijab. Davanti allo sconcerto del giornalista, la conduttrice ha elogiato la serietà delle donne velate, spiegando che per ciascuna di loro l’hijab rappresenta una scelta intellettuale, per poi affermare di non sentirsi affatto condizionata dalle colleghe a coprirsi il capo anche lei. «Se ci tengono a portare il velo al lavoro», aveva commentato il giornalista, «che andassero a vivere in Arabia Saudita». «E perché mai?», è stata la risposta. «Il nostro è un Paese laico e libero. Anche loro possono fare quello che vogliono».
Questo scambio mi ha fatto ripensare al colloquio con il tassista di quasi due anni prima, quando l’uomo aveva accusato Erdogan di voler trasformare la Turchia in un «Arabistan». La Turchia è un Paese a cavallo tra due continenti, con Istanbul — una città tagliata dal Bosforo e protesa sia verso l’Europa che verso l’Asia — come suo simbolo più rappresentativo. Lo scontro tra islam e laicismo all’interno della società turca, tuttavia, spesso viene ri- dotto a un contrasto tra Oriente e Occidente. Le tensioni che io avverto nella società turca, invece, mi sembrano ben note e assai diffuse in ogni angolo del pianeta, che si tratti di divergenze tra religione e Stato, come negli Stati Uniti; oppure di regionalismo contro nazionalismo, come in Europa; o ancora che si tratti di corruzione politica, un cancro da cui nessun Paese è immune. I turchi, però, spesso si lamentano del modo in cui si tende a orientalizzare i loro problemi, con il rischio di sollevare equivoci e incomprensioni. Per esempio, il dibattito sull’ingresso o meno nell’Unione europea non è mai circoscritto a questo tema, ma si allarga ben presto a un’indagine esistenziale sulla volontà dei turchi di entrare a pieno titolo nel mondo moderno, o di regredire verso l’esotismo. Dopo il dramma politico degli ultimi quattro anni, i turchi stanno rimettendo in discussione l’indirizzo generale del loro Paese. Alcuni sono convinti che occorre tornare sotto il manto ottomano e assurgere a Paese guida del mondo islamico. Con Erdogan, costoro sperano di trovare l’equivalente moderno del sultano Abdülmecid, un riformatore che potrebbe indirizzare il suo modello di nazionalismo verso un orizzonte più ampio sullo scenario globale. Altri invece temono che gli eccessi politici di Erdogan, e i suoi passi indietro nei confronti della laicità, minaccino di compromettere i principi fondanti della repubblica turca.
Quando mi sforzo di capire le recenti mosse politiche della Turchia, i miei ricordi spesso tornano a quelle elezioni di due anni fa, e al tempo passato a discutere di scelte con i miei figli. Dopo aver lasciato la moschea del sultano Abdülmecid, ci siamo accorti che solo pochi venditori avevano fatto ritorno dai seggi. Stringendo in mano le loro dieci monetine, i miei bambini hanno passato in rassegna le scarse offerte del mercato — giocattoli di plastica, qualche articolo di bigiotteria. Non avendo trovato nulla di interessante, erano rimasti piuttosto delusi. Avrebbero voluto comprare qualcosa. Per consolarli, ho suggerito di mettere da parte le loro dieci lire e alla prossima visita avrei raddoppiato la cifra. Se erano pazienti e sapevano aspettare, forse sarebbero riusciti a comprare proprio quello che desideravano. «Sì, ma quando?» hanno subito cominciato ad assillarmi.
(
Iscriviti a:
Post (Atom)
IL PANE
Maurizio Di Fazio per il “Fatto quotidiano” STORIA DEL PANE. UN VIAGGIO DALL’ODISSEA ALLE GUERRE DEL XXI SECOLO Da Omero che ci eternò ...
-
Da http://www.focus.it SCIMMIE CAPPUCCINO Se pensiamo che la dipendenza da sostanze che alterano le percezioni sia una prerogativa u...
-
Non avrei mai pensato di poter condividere le parole del comunista ortodosso Marco Rizzo. Ma come dargli torto? «Fedez è il nulla - dice R...
-
Mauro Bonazzi per “la Lettura - Corriere della Sera” LA VIA DEGLI DEI - DAVIDE SUSANETTI Per i Latini, sempre contenti di appropriar...