mercoledì 22 novembre 2017

Sedotti dal fascismo

Claudio Gallo per La Stampa

ezra poundEZRA POUND
Come l'Angelus novus di Klee, che Benjamin vedeva con lo sguardo rivolto all' indietro, l' inizio del XXI secolo resta ossessionato dagli orrori e dalle passioni del secolo precedente. In questo filone di febbrile rilettura si colloca I maledetti, dalla parte sbagliata della storia di Andrea Colombo (Lindau, pp. 262, 21) le vicende di sedici grandi e meno grandi intellettuali contaminati dall' ombra demoniaca del '900. La scelta dell' autore è subito chiara, niente taglio saggistico, niente note: il lettore è affidato al potere delle storie individuali attraverso una scrittura giornalistica che mentre spiega vuole intrigare.

Che cosa accomuna questi personaggi così diversi tra loro (Hamsun, Céline, Benn, Heidegger, Gentile, Lorenz, Riefenstahl, Cioran, Eliade, Sironi, Marinetti, Pound, Wyndham Lewis, Evola, Brasillach, Eliot) è suggerito da Colombo nell' introduzione: «la consapevolezza che l' 800, il secolo dei buoni sentimenti, del liberalismo, delle democrazie, della speranza ottimistica in un progresso illimitato, era definitivamente tramontato. Dalle macerie della Prima guerra mondiale doveva sorgere un nuovo mondo completamente trasfigurato».

Illustrano bene quello spirito che aleggiò a più riprese sull' Europa, dall' inizio del '900 agli Anni 40, le parole di George Valois, passato dall' anarco-sindacalismo al Faisceau, il fascismo francese, e morto anti-nazista nel lager di Bergen-Belsen. Le cita Zeev Sternhell nel classico Né destra, né sinistra : «Fascismo e Bolscevismo sono una stessa reazione contro lo spirito borghese e plutocratico.
celineCELINE

Al finanziere, al petroliere, all' allevatore di maiali che credono di essere i padroni del mondo e vogliono organizzarlo secondo la legge del denaro, secondo i bisogni dell' automobile, secondo la filosofia dei maiali, e piegare i popoli alla politica del dividendo, il bolscevico e il fascista rispondono levando la spada». Nonostante nel secondo dopoguerra i due movimenti politici siano stati talvolta collocati nella medesima categoria di totalitarismo, l' accostamento tra fascismo e comunismo sembra ancora oggi arduo, ma proprio per questo testimonia bene lo spirito insofferente dell' epoca.

I MALEDETTII MALEDETTI
L' irrazionalismo fascista e il culto della razza sfociano nell' antisemitismo che l' autore ritrova in quasi tutti i suoi protagonisti. Non si tratta di un antisemitismo granitico: ci sono sfumature e differenze importanti come faceva notare negli Anni 70 il finlandese Tarmo Kunnas nel suo La tentazione fascista . Non giustificano un' assoluzione, ma rivelano una realtà non facilmente riconducibile e categorie generali troppo nette: apparentemente, il razzismo non fa parte, ad esempio, dell' orizzonte di Ernst Jünger o di Gottfried Benn, mentre è radicato nell' irrazionalismo di Céline (una parola definitiva sul tema l' hanno detta Pierre-André Taguieff e Annick Duraffour in Céline, la race, le juif pubblicato in Francia da Fayard all' inizio dell' anno).

D' altra parte il fascismo, come reazione alla ragione positivista e all' ipocrisia borghese, si appella alla volontà, all' inconscio, a tutto un armamentario irrazionale nemico di ogni misura. Il risultato non cambia, ma talvolta leggendo Céline o Drieu La Rochelle ci si chiede se certe conclusioni aberranti non siano più imposte dal demone dello stile che dal pensiero.

evolaEVOLA
Ripercorrendo le vite dei proscritti di Colombo, si riflette anche sulla consistenza dell' individualità: tutt' altro che definita, nei sedici ritratti sembra un serraglio di personaggi che in ciascuna testa si alternano più o meno imprevedibilmente sul palco della coscienza. Grandezza e meschinità, angeli e demoni.

Come poteva Ezra Pound, geniale architetto dei Cantos , lodare dal manicomio criminale le idee desolanti di John Kaspers, impresentabile suprematista bianco? Eppure, sia Against Usura sia gli apprezzamenti della retorica razzista stile Ku Klux Klan escono dallo stesso cervello, anche se, probabilmente, non dalla stessa persona. Ma tutto questo al giudice non importa, per la giustizia e per la morale ognuno di noi è un individuo e quello soltanto. Dimenticarlo sarebbe come minacciare l' esistenza del nostro mondo.

sabato 11 novembre 2017

La storia di Eichmann

Carlo Nordio per il Messaggero

eichmann durante il processoEICHMANN DURANTE IL PROCESSO
Alle 20,05 del 10 Maggio 1960 una squadra del Mossad, il servizio segreto israeliano, vide scendere un uomo dall' autobus che dal centro di Buenos Aires si dirigeva verso il sobborgo di San Fernando. Fingendosi indaffarati con un guasto alla macchina, i quattro agenti attesero che l' uomo si avvicinasse.

Quando fu a portata di mano lo immobilizzarono, lo portarono in un casa abbandonata e pochi giorni dopo lo imbarcarono, drogato e vestito da pilota civile, in un volo di Stato diretto a Israele. Qui Adolf Eichmann, responsabile dello sterminio di sei milioni di ebrei, fu consegnato alla Giustizia .

Eichmann allora aveva 54 anni, era un ometto occhialuto e stempiato, e qualcuno ne rilevò la singolare somiglianza con il cardinale Montini, che poco dopo sarebbe diventato Papa Paolo VI. A dimostrazione che Satana, come insegna il libro di Enoch, ha pur sempre una parentela con l' arcangelo Gabriele. Davanti ai giornalisti apparve mite e impacciato, un grigio e insignificante burocrate che ispirò ad Hannah Harendt la famosa e controversa osservazione sulla banalità del male.

adolf eichmannADOLF EICHMANN
L' uomo in effetti non era sempre stato così dimesso: una foto di vent' anni prima lo ritrae com' era veramente, uno spietato e arrogante sgherro delle SS, consapevole della sua funzione e del suo potere. Ancora oggi c' è una certa confusione sul suo ruolo, perché questo oltrepassava di gran lunga il suo rango. Eichmann era un Oberstmbannfuhrer , cioè un tenente colonnello delle SS, un grado in sé modesto, che in realtà può apparire tale solo a chi non conosca la complessità del Reichssicherheitshauptamt (RSHA) , la Direzione Centrale per la Sicurezza del Reich: l' organismo che comprendeva , tra gli altri servizì, la Geheime Staatspolizei, nota al mondo come Gestapo.

adolf eichmannADOLF EICHMANN
Romanzi e film la dipingono come dedita alla caccia alle spie e ai partigiani, ma questa è una visione riduttiva. La Gestapo perseguitava anche varie associazioni laiche e religiose: la sua sezione B4 si occupava degli ebrei, ed era diretto da Eichmann. Ma proprio perché tra i nemici del Reich gli israeliti erano considerati i primi da eliminare, l' importanza dell' ufficiale era pari al compito immane che gli era stato devoluto.

Questo consentiva ad Eichmann di scavalcare varie posizioni gerarchiche e di conferire direttamente con Reinhard Heydrich, capo del RSHA e responsabile della soluzione finalevoluta da Hitler. Il 20 Gennaio 1942, nella classicheggiante villa di Wannsee presso Berlino, Heydrich presiedette la riunione che ne definiva i dettagli. Eichmann, che ne aveva curato l' organizzazione, tenne i verbali con i conteggi degli ebrei da liquidare in Europa, compresi quelli dei territori non occupati, come la Gran Bretagna e, naturalmente, l' Italia: in totale una decina di milioni.

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Un misto di ferocia burocratica e di velleità visionarie: mentre i due compari stilavano questi macabri elenchi, l' industria angloamericana iniziava infatti a sfornare i bombardieri che di lì a poco avrebbero incenerito la Germania. Il processo iniziò a Gerusalemme l' 11 Aprile 1961, davanti alle televisioni di tutto il mondo. Ben Gurion voleva che fossero colmate le lacune del processo di Norimberga, dove il numero degli imputati, la diversità dei capi d' accusa e la frettolosa raccolta delle prove avevano impedito una ricostruzione completa dell' Olocausto e dei ruoli degli aguzzini .

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Ora non si sarebbe parlato di crimini contro la pace o di guerre di aggressione, ma solo del più grande eccidio della Storia, ideato da una scienza perversa ed eseguito da dirigenti volonterosi con una tecnologia pianificata. I principali responsabili, Hitler, Himmler e Goering si erano suicidati, Heydrich era stato giustiziato dai partigiani, altri erano stati processati e impiccati, e la Shoah rischiava di esser dimenticata. Il processo di Eichmann era l' occasione per ricordare al mondo che talvolta - se pur raramente la Storia - si scrive anche con la Giustizia.

Il difensore, Robert Servatius, era un esperto, avendo già difeso a Norimberga altri criminali. Non aveva un compito facile. Sostenne l' illegalità della cattura, l' incompetenza del tribunale, l' irretroattivà della legge penale, e infine, la scusante dell' ubbidienza agli ordini. Il pubblico ministero, Gideon Hausner, fu abile nel demolire queste tesi, ma eccedette nella passionalità, andò oltre i capi d' accusa e fu anche richiamato all' ordine dal Tribunale.

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Quest' ultimo era composto da tre giudici, che parlavano correntemente il tedesco e talvolta si rivolsero all' imputato nella sua lingua madre. Furono straordinariamente calmi e professionali, tenuto conto della loro origine e delle agghiaccianti rievocazioni di massacri cui dovettero assistere. Sfilarono i reduci dei lager, furono proiettate le immagini del genocidio, molti testimoni svennero, e tra il pubblico serpeggiò l' auspicio della vendetta sommaria.

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Ma il presidente fu esemplare, e l' ordine ritornò in aula. L' imputato, dal canto suo, fu rispettoso nella forma ma spregevole nella sostanza. Si dipinse come un modesto esecutore di ordini, che, a suo dire, dovette eseguire anche controvoglia. Fu quest' aria scialba da impiegatuccio subalterno che ingannò la Harendt, ispirandole quella definizione infelice. Forse immaginava di vedere un sulfureo e agitato predicatore di stragi apocalittiche, ignorando che l' arma preferita di Mefistofele, come insegna Goethe, è proprio il travestimento.

Nel 2011 una studiosa tedesca, Bettina Stagneth, recuperò e pubblicò le testimonianze sulle conversazioni di Eichmann durante la lunga latitanza in Argentina. L' astuto criminale apparve per quello che era: un fanatico assassino che rimpiangeva soltanto di non avere eliminato tutti i dieci milioni di ebrei elencati nei verbali di Wanssee. Nonostante i piagnucolosi tentativi di dissimulare la propria attività, Eichmann ascoltò imperterrito e silenzioso, il 15 Dicembre 1961, la sentenza di morte. Fece ricorso, e l' appello fu respinto.

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Alla fine inoltrò la domanda di grazia. Ben Gurion convocò il Gabinetto, e molte anime gentili patrocinarono la clemenza. Qualcuno tuttavia replicò che se la pena di morte non fosse mai esistita, era quello il momento in inventarla. La domanda fu respinta, e a mezzanotte del 31 di Maggio 1962 Adolf Eichmann finì al patibolo: fu la prima e unica impiccagione nella storia giudiziaria di Israele.

Prima dI sprofondare nella botola, Eichmann ritrovò e rivelò quell' odio che aveva così ben dissimulato davanti alla Corte, e disse a Rafi Eitan, l' agente che lo aveva catturato e che assisteva all' evento: «Spero di tutto cuore che venga presto il vostro turno». Al che il roccioso ufficiale, oggi felicemente ultranovantenne, pare abbia risposto ghignando: «Non oggi vecchio mio, non oggi».

lunedì 6 novembre 2017

Primo Levi

Marco Belpoliti per Robinson-la Repubblica

In una delle ultime interviste, concessa a Roberto Di Caro prima di quel tragico 11 aprile 1987, Primo Levi ricorda come il successo di un autore sia del tutto casuale. Usa la parola "stocastico", che significa aleatorio, termine introdotto dal matematico Bruno de Finetti, studioso di probabilità.

Tutta la storia di Levi è legata all' elemento aleatorio, a partire da quella parola, "fortuna", con cui si apre il suo libro più famoso, Se questo è un uomo: "Per mia fortuna sono stato deportato ad Auschwitz solo nel 1944". Senza quell' avverbio - solo - la frase cambierebbe totalmente il suo significato. Ma è andata proprio così: Levi ha avuto la fortuna di essere deportato ad Auschwitz.

L' ha detto in un' altra intervista, quella con Philip Roth, dove ha citato una frase di un amico: l' anno ad Auschwitz è stato in technicolor, il resto della sua vita in bianco e nero. Solo se partiamo da qui, dal dono avvelenato di Auschwitz, dal fatto che il Lager gli ha donato " cosa" scrivere, si può capire l' aspetto aleatorio che ha dominato la vicenda dello scrittore Primo Levi. Oggi è facile, dall' alto dei due milioni e seicentomila copie vendute solo in Italia da Einaudi ( e il dato non include le altre migliaia vendute in edizioni scolastiche e quelle allegate ai giornali), dire che si tratta di un successo senza pari.

Tuttavia Levi non è stato proprio fortunato con quel primo fondamentale libro. Einaudi, ma anche le Edizioni di Comunità e probabilmente Mondadori, glielo rifiutano. Lo pubblica una piccola casa editrice torinese, De Silva, nel 1947, ed è un flop. Se ne stampano duemila e cinquecento copie e se ne vendono forse mille, mille e cinquecento, tutte a Torino e in Piemonte. Fine del sogno di diventare scrittore, nonostante le recensioni di Arrigo Cajumi e Italo Calvino, e anche se ha già cominciato a pensare al racconto del suo periglioso ritorno a casa che uscirà sedici anni dopo. Intanto scrive poesie e racconti fantastici. Sarà chimico, presso la Siva a Settimo Torinese, per quasi trent' anni.

PRIMO LEVIPRIMO LEVI
Poi nel 1955, a dieci anni dalla fine del Secondo conflitto mondiale, cambia nell' opinione pubblica l' atteggiamento verso la deportazione; dopo la rimozione generale del primo decennio, lo sterminio ebraico è ora un tema importante. Come ricorda Ian Thomson nella sua documentatissima biografia in uscita da Utet ( Primo Levi, traduzione di Eleonora Gallinelli), nel 1954 viene pubblicato il Diario di Anna Frank; poi il libro di Lord Russell, Il flagello della svastica, presso Feltrinelli, che si domanda: com' è stato possibile che la Germania di Goethe, Beethoven, Schiller, Schubert abbia prodotto Auschwitz e Buchenwald. In quegli anni Levi è chiamato a parlare in pubblico della sua esperienza: i giovani vogliono sapere cosa sono stati i Lager. Cambio di stagione. Si passa dall' epopea della Resistenza come Secondo Risorgimento d' Italia del Partito comunista al tema dei campi di sterminio.

In Einaudi c' è un nuovo team che ha preso il posto di Cesare Pavese e Natalia Ginzburg: Luciano Foà, che propone di pubblicare il Diario di Anna Frank, e Paolo Boringhieri. Poi Paolo Serini, che ha amato Se questo è un uomo nel 1947, e lo stesso Calvino, che reputa Levi un vero scrittore. Giulio Einaudi dubita; alla fine prevale il parere favorevole.

Esce nel 1958. Si tratta di un libro diverso, con trenta pagine in più. Levi ci ha lavorato tre anni. Pian piano il volume comincia a circolare. Il prestigio della casa editrice, il suo legame con il Partito comunista e socialista, funzionano.

Levi ha cambiato la prima pagina: non si parla più solo degli ebrei rinchiusi a Fossoli, ma della sua breve esperienza partigiana in Val d' Aosta. La prima edizione si esaurisce ben presto e cominciano le ristampe. Nel giro di cinque anni Levi diventa la voce dei deportati, sia quelli politici sia dei deportati ebrei, e persino di quelli militari - Alessandro Natta, futuro segretario del Pci, ha scritto un libro sui deportati militari in Germania ma la casa editrice del partito non lo pubblica. Sono ancora piccoli numeri, eppure significativi.

Il primo vero passaggio verso il long seller avviene con la pubblicazione di La tregua nel 1963: va allo Strega, non lo vince, però ottiene il premio Campiello alla sua prima edizione.
Questo successo farà da traino al primo libro.
Primo leviPRIMO LEVI
Due anni dopo La tregua entra nelle scuole con la collana einaudiana "Letture per la scuola media".

Solo nel 1973 ci sarà una versione scolastica della sua prima opera. Questa sarà la vera svolta nella diffusione di Se questo è un uomo: lo leggono gli studenti nelle scuole. Saranno i ragazzi e i loro insegnanti democratici a decretare il successo dello scrittore torinese. Altro fatto stocastico: Levi è diventato ora l' emblema dell' antifascismo militante.

primo leviPRIMO LEVI
Siamo nel periodo del terrorismo neofascista, nel decennio nero della storia italiana, e l' attività di testimone nelle scuole, in televisione, alla radio (la riduzione radiofonica del libro è del 1964) accresce l' attenzione dei lettori. Nel 1974 un programma in tre puntate della Rai, Il mestiere di raccontare, celebra Primo Levi. Poi ci sarà il nuovo paradigma storico dominante: Shoah e Olocausto, da testimone dell' antifascismo a testimone dello sterminio ebraico. Ma siamo già negli anni Ottanta. Levi scrittore ebreo è l' ultima trasformazione nella lettura del suo libro.

Questo tra i lettori comuni. C' è poi anche la storia di come la critica letteraria l' ha accolto: male, benino, benissimo. La fortuna è cieca, si dice. Ma anche i critici letterari, che non l' hanno considerato uno scrittore fino agli anni Ottanta. Ci sono le eccezioni, come quella di Cesare Cases suo primo recensore. In Quaderni piacentini, la rivista gauchiste di Bellocchio, Cherchi, Fofi, Jervis e Fortini, hanno messo il libro di racconti fantascientifici di Levi, Storie naturali, nella lista dei " Libri da non leggere".
PRIMO LEVI VAGONEPRIMO LEVI VAGONE

Nell' aprile del 1967 Cases lo difende dalla stroncatura. Il suo pezzo, Difesa di un cretino, spiega perché Storie naturali stia bene con Se questo è un uomo, e se anche Primo Levi non è un rivoluzionario, e forse simpatizza per il centrosinistra, non può stare nella lista di proscrizione. Fortunato sì, ma sempre affidato all' alea del momento: " l' organizzazione culturale è sommamente stocastica", ha detto in quell' intervista. Aveva davvero ragione.

venerdì 3 novembre 2017

Lutero e la birra

Altro che questioni religiose. Il dibattito tra Riforma e Controriforma, che infiammò l’Europa del XVI secolo, girava intorno a un argomento molto più concreto: la birra. Le dispute sulla grazia o sui meriti acquisiti? Riguardavano solo gli studiosi. Gli altri si concentravano su conseguenze più terra terra: per fare la birra ci vuole il luppolo? A seconda della risposta si era cattolici (no) o protestanti (sì).
Come si spiega bene qui, nel 16esimo secolo la ricetta della birra era, in via indiretta, monopolio della Chiesa cattolica. Il Papa deteneva il controllo del gruit, un mix di erbe (bacche di ginepro, zenzero, semi di cumino, anice, noce moscata e cannella) che, per 700 anni, costituì uno degli ingredienti amaricanti indispensabili per produrre birra “a norma di legge”.
Il luppolo, invece, era considerato un ingrediente “pericoloso”, almeno secondo le indicazioni di Ildegarda di Bingen, mistica e badessa tedesca del 1200: “Rende triste l’anima dell’uomo e appesantiva i suoi organi”, diceva. Era considerato privo di valore e, di conseguenza, libero di crescere ovunque, senza tasse e controlli.
Già prima della Riforma, in realtà, alcuni stati tedeschi, per evitare di spendere troppe tasse, avevano deciso di impiegarlo nella produzione della birra. In Baviera, nel 1518, una legge imponeva di usare nel processo solo acqua, luppolo e orzo. Ma il vero boom arrivò con le rivolte luterane: è vero, con il luppolo si pagavano meno tasse (cosa sempre importante) ma soprattutto si faceva uno sberleffo alle regole della Chiesa di Roma. Uno spasso. E la birra era anche buona, tanto che da quel momento decisero di impiegarlo sempre. Un vero cambiamento, a suo modo una rivoluzione nella rivoluzione.
All’epoca, del resto, la bevanda aveva un ruolo e un’importanza diversi – e maggiori – di quelli di oggi. Costituiva, in quanto fermentata, un’alternativa più sicura, in termini sanitari, dell’acqua. Era anche una fonte di calorie e nutrienti indispensabile per le classi sociali più povere e, grazie alle erbe impiegate, aveva anche funzioni medicinali. Più una necessità che un piacere.
Non mancarono, però, le condanne. Lo stesso Lutero, che pure amava bere birra (sua moglie addirittura gliela produceva) e passare serate a chiacchierare un po’ ebbro con gli amici, si lamentava della dipendenza dei tedeschi dalla birra. “Una sete così eterna che, temo, resterà la piaga della Germania fino alla fine dei tempi”. Un problema, sì. Ma poi bastava berci sopra.

Banconote e storia

Paolo Ricci Bitti per www.ilmessaggero.it
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Non esistevano, non dovevano esistere, non c’erano prove dell’esistenza di quelle quattro piccole “banconote” da una, due, cinque e dieci corone austriache la cui conoscenza avrebbe potuto cambiare la Storia dell’Italia, alla finestra nei mesi d’esordio della Prima guerra mondiale.

Invece quei quattro biglietti con sovrastampa e marca fiscale (insomma, banconote), stampati nella massima segretezza dal Governo nel 1915 a Torino, erano adesso schierati sulla scrivania di Gerardo Vendemia, trentenne casertano, esperto mondiale di cartamoneta che non ne ha trovato tracce nei cataloghi e nei registri ministeriali. Esemplari ignoti e unici.

ESEMPLARI UNICI
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Davanti ai suoi occhi spalancati per quel “colpo”, che nella vita di un collezionista può anche non capitare mai e che costringerà all’integrazione dei testi di numismatica, cominciava un vertiginoso viaggio nel tempo aperto da mille domande: che cosa sarebbe accaduto se quelle ignote “banconote d’occupazione”, in quel frenetico aprile-maggio 1915, fossero state sventolate in Parlamento da Giolitti, leader dei Neutralisti? Come avrebbe giustificato il governo Salandra quelle “banconote” che rivelavano la clamorosa intenzione di invadere i territori di Trento e Trieste dominati dagli allora alleati austro-ungarici?
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Quattro “banconote” in doppia valuta, corone austriache e lire italiane (18 corone o 18 lire in tutto) per cambiare il corso della Storia italiana.


Il 26 aprile 1915, mentre il furibondo confronto politico pende sempre più a favore degli Interventisti, il governo, tenendo all’oscuro il Parlamento, firmò il Trattato di Londra con Gran Bretagna, Francia e Russia. Sul piatto Trento e Trieste, addio alla Triplice alleanza con l’Austria-Ungheria, addio alla neutralità e ai neutralisti giolittiani e cattolici: si andava alla guerra, ma gli italiani ancora non lo sapevano.

Segretissimo era quell’accordo e segreta doveva essere a quel punto l’affrettata stampa di quella cartamoneta in corone che l’Italia avrebbe diffuso nel Trentino e nel Friuli Venezia Giulia una volta scacciati gli ex alleati austro-ungarici. “Banconote d’occupazione”, prassi comune per le nazioni che allargano con la forza i confini. Vendemia, titolare del sito cartamoneta.com, mostra con orgoglio i biglietti dai colori tenui realizzati con carta comune dalle Officine governative di Torino e non da uno stabilimento della Banca d’Italia per garantire maggiore riservatezza: si usano biglietti già in corso di stampa, modificati con timbrature e marche fiscali per la doppia valuta.

LA MATTANZA
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Il 24 maggio 1915 l’Italia entra in guerra e ben presto svanisce il sogno di un conflitto breve, sostituito dalla mattanza nelle trincee.
E quella serie segreta di quattro “banconote”? Per 102 anni non se n’è saputo nulla. Non ne erano mai stati trovati esemplari o riferimenti nei registri. Il massimo per un collezionista. È formidabile trovare qualcosa di raro, ma di cui è nota l’esistenza, figuriamoci quando ci si imbatte in qualcosa la cui realtà è ignota.

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Il massimo sarebbe stato anche per un cronista ritrovarsi fra le mani, magari grazie a una “talpa”, magari un tipografo torinese neutralista, quei biglietti in quel “maggio radioso”: l’articolo sulle “banconote d’occupazione” avrebbe rivelato in anticipo la scelta interventista del Governo, forse avrebbe svelato all’opinione pubblica, e agli austro-ungarici, il patto di Londra. Se non a impedire l’entrata in guerra, la notizia di quelle quattro banconote avrebbe potuto ritardarla.

«C’è voluto parecchio tempo – racconta Vendemia, ingegnere – per completare le verifiche, per mettere a confronto cataloghi e registri. Poi la conclusione da brividi: questi biglietti fior di stampa (il massimo in fatto di conservazione) sono unici e vanno persino oltre il grado supremo della rarità, ovvero quella sigla “U” appunto per gli esemplari unici. Il governo Salandra, non c’è che dire, voleva agire in segreto e c’è riuscito ben oltre il suo mandato».

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Ma in euro quanto valgono quelle quattro banconote? «Mancano precedenti, ma non mi stupirei che in Italia la serie toccasse quota 50mila euro, quotazione di rilievo anche per i mercati internazionali».

Mistero per mistero, come ne è venuto in possesso? «Diciamo che sono stato contattato dall’erede di un funzionario di banca. Però qualche piccolo segreto, almeno per ora, me lo lasci».

FIOR DI STAMPA
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Per dare la caccia ai tesori, Vendemia raggiunge spesso l’Inghilterra e la Francia, esamina collezioni. «E intanto si studia la Storia, la Politica e l’Economia. Ogni volta che si tiene fra le dita un biglietto raro ci si commuove viaggiando nel tempo e sulla carta geografica. A chi non è nativo digitale basta sfiorare le banconote delle vecchie lire per ripensare all’infanzia, oppure si resta senza fiato di fronte a banconote di artisti come l’incisore Trento Cionini. Roberto Mori, già direttore centrale per la Circolazione monetaria in Banca d’Italia, ha scritto che la moneta ha tanto da farsi perdonare. Ma al tempo stesso la moneta e la cartamoneta hanno tanto da raccontare».

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E mentre parla Vendemia mostra le diecimila lire “lenzuolo” del dopoguerra, le piccole “am lire” diffuse dall’esercito americano che risaliva l’Italia dal 1943 al 1945, le mille lire che si sognava di “avere una volta al mese”, le irraggiungibili banconote da 500 mila lire di Raffaello che ci hanno portato fino all’Euro. Un fruscìo di banconote che non ha nulla di venale.

giovedì 2 novembre 2017

La Francia di Vichy

Paolo Mieli - Corriere della Sera

Fu tradimento quello di Pétain che collaborò con la Germania nazista, dopo la sconfitta dell’esercito francese ad opera delle truppe hitleriane (maggio del 1940)? E chi può essersi considerato tradito, se la stragrande maggioranza dei francesi — nonché il loro Parlamento eletto nella seconda metà degli anni Trenta in condizioni democratiche — si schierarono dalla parte del maresciallo? È l’interessante interrogativo posto da Avishai Margalit nella parte centrale del libro Sul tradimento, che Einaudi sta per dare alle stampe con l’eccellente traduzione di Barbara Del Mercato e Dario Ferrari. Margalit mette a paragone il destino che toccò in quello stesso frangente storico alla Polonia (brutalmente sottomessa e colonizzata dai tedeschi) e quello della Francia a cui fu, appunto, concessa l’«opportunità di collaborare» con gli invasori. Opportunità fatta propria da gran parte dei francesi, i quali considerarono un fatto positivo che i tedeschi avessero lasciato al regime di Vichy l’amministrazione di ben quattro quinti del territorio nazionale. Ma a cui si mise di traverso il generale de Gaulle, con l’effetto di essere considerato per lungo tempo egli stesso un «traditore»: traditore della volontà della maggioranza dei suoi connazionali. Eppure il collaborazionismo, scrive Margalit, è per definizione «l’associazione con il nemico», e perciò «la forma più odiosa di collaborazionismo è il tradimento da parte di individui o gruppi che condividono l’ideologia dei vincitori». Questo collaborazionismo «è più ripugnante di quello che segue un tornaconto personale, dato che il tradimento qui non consiste solo nell’aiutare il nemico, ma ne sostiene anche la superiorità spirituale, anziché limitarsi a constatarne la superiorità della forza militare». Inoltre, «l’identificazione ideologica con il nemico offre una giustificazione al fatto che gli occupanti tengano ben stretti gli artigli sulle proprie prede». 
Il generale Charles de Gaulle (1890-1970)
Il generale Charles de Gaulle (1890-1970)
I tedeschi, fa notare Margalit, tra il 1940 e il 1944 governarono su oltre 38 milioni di francesi senza dover ricorrere ad altri che ad una «minuscola parte dei propri amministratori e dei propri poliziotti». L’interesse degli occupanti a ridurre al minimo il dispendio degli uomini poté essere realizzato solo grazie ad una «massiccia» collaborazione da parte della popolazione sottomessa. Tale occupazione «morbida» ebbe un costo, per l’occupante tedesco: quello di lasciare una certa autonomia all’occupato. Il guadagno fu però che in questo modo la Germania nazista riuscì ad «acquistare» (per così dire) il consenso degli sconfitti. E infatti i francesi scelsero di «farsi comprare»: «Non tutti i francesi e non per tutta la durata dell’occupazione ma la maggior parte dei francesi e per la maggior parte dell’occupazione, accettarono di collaborare». La maggioranza dei francesi si mostrò — forse anche per giustificarsi agli occhi di se stessa — convinta che il collaborazionismo fosse «il solo modo per limitare i danni della sconfitta e per evitare un governo gestito direttamente dai nazisti». All’epoca de Gaulle, sottolinea Margalit, risultava per molti suoi connazionali «irrilevante se non peggio, irritante». L’autore tuttavia ha parole poco diplomatiche anche nei confronti di coloro che si opposero a Pétain: il movimento della resistenza francese, la resistenza interna, secondo lui, «sembrava talvolta più un genere letterario che un’attività ribelle effettiva». Se si misura la resistenza francese in base alle divisioni che i nazisti impiegarono a combatterla, essa «non sembra essere stata molto significativa». Le forze della Francia Libera di de Gaulle, scrive Margalit, erano «abbastanza impressionanti per quanto riguardava le cifre, ma non per l’equipaggiamento»; nel momento di massimo splendore, verso la fine del conflitto, comprendevano 300 mila soldati. Naturalmente, prosegue il filosofo israeliano, «dopo la guerra convenne a tutti alimentare il mito secondo cui la Francia era spaccata tra una maggioranza di resistenti e una minoranza di collaborazionisti». Fandonie. Questo mito fu peraltro ridotto in frantumi già nel 1969 dal documentario di Marcel Ophuls Le chagrin et la pitié, che mostrava in modo assai persuasivo l’altissimo grado di consenso dei francesi all’occupazione nazista e al regime di Vichy. 
Ma se effettivamente Pétain era sostenuto da gran parte dei suoi compatrioti, in che senso, si domanda Margalit, li avrebbe traditi? E, data la sconfitta subita dalla Francia, quali furono le colpe del regime che nacque da quel rovescio? Nel caso di Vichy e di Pétain, secondo l’autore di Sul tradimento, «depone contro di loro l’atto inconfutabilmente malvagio dei rastrellamenti e delle deportazioni di ebrei francesi nei campi di sterminio». Spogliare gli ebrei francesi della cittadinanza significava «tradire la Francia come nazione votata alla sua missione universale». È qui che, secondo Margalit, si annida il «tradimento». Perché? In seguito alla Rivoluzione francese, Parigi si vedeva unanimemente votata alla missione di realizzare la volontà universale: la Francia assumeva «la prospettiva dell’umanità in senso lato», in opposizione «a qualsiasi definizione etnica del popolo francese». Il regime di Vichy era volto a «distruggere questa eredità della Rivoluzione francese». Il tradimento collaborazionista ai danni degli ebrei francesi dovrebbe essere dunque considerato come il tradimento dell’eredità della Rivoluzione, secondo cui la solidarietà è fondata unicamente sulla cittadinanza conferita universalmente. 
A questo punto della sua ragionata ricostruzione, Margalit piazza un colpo ad effetto che impreziosisce la sua dissertazione e propone quello che lui stesso definisce «un argomento a favore del collaborazionismo». Se il tradimento a danno degli ebrei costituì la cartina di tornasole del collaborazionismo con la Germania, scrive, esso presenta anche qualcosa «che gli apologeti del collaborazionismo di Pétain possono utilizzare con profitto a proprio vantaggio». Si parte da Drancy, il campo di transito da cui tra il 1942 e il 1944 gli ebrei francesi vennero deportati nei campi di sterminio, «ciò che costituisce innegabilmente una pagina terribile e tragica». È vero: «Tra i deportati ci furono anche seimila bambini». È altrettanto vero: i collaborazionisti del regime di Vichy ebbero «un ruolo vergognoso in questa vicenda». Quel che si è testé detto (e che è ampiamente documentato) è inoppugnabile. Ma «bisognerebbe mettere a confronto le cifre» dalle quali balza agli occhi che «il destino degli ebrei nei Paesi collaborazionisti fu molto migliore di quello che veniva riservato loro nei Paesi che non collaborarono con i tedeschi». Si scopre che «nei luoghi in cui la popolazione sceglieva il collaborazionismo anziché la “polonizzazione”, sopravvisse una percentuale più alta di ebrei». In Francia, dei 350 mila ebrei presenti prima della guerra, «solo» 77 mila furono assassinati, mentre nell’eroica Jugoslavia ne furono trucidati 60 mila su 78 mila. Nel Belgio collaborazionista il rapporto fu di 29 mila assassinati su 66 mila israeliti di prima della guerra, mentre nella vicina Olanda, governata direttamente dai tedeschi, ne vennero uccisi 100 mila su 140 mila. In sostanza «per gli ebrei fu meglio vivere sotto un regime collaborazionista». Certamente nessun Paese scelse di collaborare con i nazisti «per il bene degli ebrei». Ma «sembra che all’atto pratico per gli ebrei il collaborazionismo sia stata una scelta migliore della polonizzazione». Il collaborazionista nega che il suo sia «un gioco rigorosamente competitivo in cui una parte guadagna esattamente ciò che l’altra perde». Il collaborazionismo è odioso e umiliante, ma «entrambe le parti, nonostante l’enorme asimmetria, possono guadagnarci». In che senso? L’occupazione, scrive il filosofo, comporta una coercizione, ma coercizione non significa che l’accordo offerto alla parte sconfitta, ovvero la collaborazione, non sia migliore dell’assenza di ogni accordo: il collaborazionismo, questa specifica forma di tradimento, secondo Margalit, «è ciò che di meglio si può fare in alcune circostanze nefaste». Coloro che detengono il potere e scelgono di accettare questo genere di accordo «non dovrebbero essere considerati dei traditori ma dei patrioti che hanno il coraggio di scegliere il male minore in una situazione di estrema difficoltà». Nel corso della Seconda guerra mondiale, per gli ebrei — pur in un dramma di proporzioni immani — fu meglio trovarsi a vivere in Paesi «traditori» e collaborazionisti come Francia e Belgio che in quelli che «non tradirono» e «non collaborarono» come la Polonia o la Jugoslavia.
Nonostante ciò, secondo Margalit, fu giusto considerare Pétain un traditore. È la «storia condivisa del popolo francese», scrive, «che Pétain ha corrotto e tradito». Il maresciallo «ha tradito con il suo tentativo di creare una Francia sradicata dalla propria memoria e dall’eredità della Rivoluzione francese». Avrebbe potuto sostenere «di aver radicato più di chiunque altro le proprie azioni in un passato condiviso, un passato che la Rivoluzione aveva distorto creando una Francia omogenea e artificiosa… In questo senso, chi poteva accusare proprio lui, tra tutti, di aver tradito il passato condiviso?». Ogni passato, tiene a specificare Margalit, è composito, è una miscela di elementi nobili e ripugnanti. Essere leali a un «passato condiviso» significa «qualcosa di più che accettare tanto i lati positivi quanto quelli negativi». Significa «impegnarsi a mantenere in vita ciò che si ritiene essere la parte migliore del proprio passato». Ed è a questo impegno che Pétain, l’eroe vittorioso della Prima guerra mondiale, è venuto meno. Se interpretiamo «il tradimento come tradimento della volontà generale della popolazione occupata», possiamo vedere nel collaborazionismo anche «il tradimento delle generazioni passate». L’idea è che i rapporti forti di una comunità in un Paese occupato vadano al di là della popolazione presente in un determinato momento storico e dovrebbero anzi includere «la comunità del passato». Un consenso contingente nella comunità che vive sotto l’occupazione potrebbe «tradire la comunità del passato».
Afine conflitto Pétain, il 15 agosto del 1945, fu condannato a morte per alto tradimento (salvo poi vedere commutata la pena in ergastolo), mentre de Gaulle fu acclamato come eroe nazionale. Ma anche de Gaulle, per Margalit, merita qualche considerazione. Se portate d’urgenza in ospedale un vostro amico privo di sensi, scrive, potete decidere a nome suo, pur in assenza di una delega formale, su alcune questioni che riguardano la sua salute. Si potrebbe vedere in de Gaulle un «amico» di questo genere, il rappresentante informale dei francesi, «in uno stato di necessità di una Francia momentaneamente priva di sensi», che in quel lasso di tempo si sarebbe trovato «nella posizione migliore per esprimere il bene comune del proprio Paese».
Ma, avverte l’autore, «l’idea che in uno stato di necessità un rappresentante possa incarnare il bene comune di una collettività è un’idea rischiosa: sembra un invito rivolto a individui affetti da manie di grandezza o dal cosiddetto “complesso del Messia” ad agire in nome del popolo con la pretesa di insegnare alle persone ciò che è meglio per loro». E non è solo un problema di porte spalancate ai megalomani. Si può anche legittimamente avere paura che la «volontà generale» spiani la strada alla «democrazia totalitaria». Però, una volta prese le dovute precauzioni, conclude Margalit, «l’idea di una volontà generale in una forma o nell’altra, è indispensabile per affrontare la questione di chi ha diritto di parlare a nome di un popolo che appartiene ad un Paese militarmente occupato». 
Dopodiché il giudizio finale deve tener conto di alcune importanti circostanze: «De Gaulle, che apparteneva al medesimo ambiente conservatore di Pétain, aveva il corretto senso storico di ciò che valeva la pena conservare della storia francese e, cosa ancor più importante, di ciò che avrebbe comportato il suo tradimento». Invece Pétain, oltre a un giudizio storico sbagliato, «elaborò un giudizio morale erroneo, sostenendo un regime fondato sulla distruzione dell’idea stessa di umanità». In un certo senso, Pétain «tradì anche il popolo con il quale sentiva di avere un rapporto estremamente forte, corrompendo i valori del passato condiviso». O anche solo accettando che fossero corrotti.
In merito al collaborazionismo, Margalit non si sottrae ad un giudizio sul «caso orribile» degli Judenräte, i consigli ebraici che il regime nazista istituì in molti ghetti, costretti a fornire manodopera forzata, a tenere registri di coloro che venivano mandati nei campi di sterminio e a collaborare alla deportazione. Non c’è dubbio, scrive il filosofo israeliano, che nell’Europa sottoposta all’occupazione nazista gli ebrei subissero, sia collettivamente che individualmente, una «brutale costrizione». Ciò non ha evitato che dopo la guerra il termine Judenrat tra gli ebrei divenisse sinonimo di collaborazionismo e di tradimento, ed essere stato un membro di tali consigli equivaleva — nel loro giudizio — ad esser stati collaborazionisti. Si trattava, scrive Margalit, di un giudizio «crudele, sommario e non basato sulla conoscenza dei fatti». Anche se poi «sullo scivoloso crinale del collaborazionismo non ci sono appigli a cui aggrapparsi per attutire la caduta». Il che indurrebbe a pensare che per il tradimento, anche quello «a fin di bene», ci sia poi un prezzo da pagare. Sempre.
Bibliografia
Esce in libreria martedì 14 novembre il saggio del filosofo israeliano Avishai Margalit Sul tradimento (Einaudi, pagine 267, euro 21). Sullo stesso argomento lo storico Marcello Flores ha pubblicato due libri: Traditori (il Mulino, 2015) e Il secolo dei tradimenti (il Mulino, 2017). Il regime collaborazionista francese, che durò dal 1940 al 1944, è oggetto di vari testi importanti. Tra i più noti il lavoro dello storico americano Robert O. Paxton Vichy (traduzione di Giuseppe Bernardi ed Erica Mannucci, il Saggiatore, 1999). Meritano di essere segnalati inoltre: Henry Rousso, La Francia di Vichy (traduzione di Renato Ricciardi, il Mulino, 2010); Maurizio Serra Una cultura dell’autorità (Laterza, 1980; poi Le Lettere, 2011);Giorgio Caredda, La Francia di Vichy (Bulzoni, 1990); Herbert R. Lottman, Pétain (traduzione di Erica Mannucci, Frassinelli, 1985).

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